Proviamo a compiere un esercizio mentale su di un evento, che avviene ormai da anni nel nostro Paese: il gay pride ... Due pensieri si impongono: qual è l'obiettivo gay: essere differenti ‚Äì da qui l'orgoglio - o essere uguali?
Proviamo a compiere un esercizio mentale su di un evento, che avviene ormai da anni nel nostro Paese: il gay pride. Sotto gli occhi incuriositi e sospettosi di chi osserva, centinaia di persone, vestite in modo volutamente bizzarro, sfilano chiassose sulle strade di alcune grandi città. A differenza di altri cortei che esprimono la protesta per i diritti negati ai lavoratori, la sfilata dei gay è provocatoriamente allegra: si balla, si canta, si esprime cioè l’orgoglio di essere diversi, si vuole insomma che la gente si accorga che molti vivono una sessualità differente. Si pensa così di sconfiggere i pregiudizi su questa particolare condizione esistenziale, come dire: “Noi siamo così, gelosi della nostra differenza, non discriminatici, accettateci”.
Non è difficile però intravedere, accanto agli striscioni e bandiere colorate, altri tipi di cartelli, questa volta “contro”. Contro la Chiesa, soprattutto, colpevole di bigottismo e di pregiudizi moralistici, responsabile di frenare i diritti degli omosessuali che, strano a dirsi, sono diversi ma vogliono cose uguali: matrimonio, famiglia, adozioni. Talvolta chi innalza questi striscioni, assume atteggiamenti e pose dileggianti nei confronti del Papa, dei preti e dei cattolici che sono – a loro vedere- oscurantisti, dogmatici, refrattari al nuovo che avanza. Guai a loro se si permettono ancora di esprimere giudizi o considerazioni che non collimano con la nuova cultura!
Prendiamo atto che qualcosa sta cambiando nella percezione sociale e culturale del nostro Paese: nuove interpretazioni della sessualità si impongono, le cosiddette tradizionali categorie antropologiche, ancorate al pregiudizio naturalistico, quelle che vedono il dato biologico duale, del maschio e della femmina, quale base della famiglia, sembrano ormai destinate ad essere affiancate da forme analoghe di strutture familiari di stampo omo-affettivo, come si dice. Finita l’era del pregiudizio sessista, -così si proclama- si apre la stagione dei diritti: se la persona omosessuale, anche nell’immaginario collettivo, condivide da sempre i doveri e i diritti della Carta costituzionale, si passi alla tappa successiva: il riconoscimento giuridico della coppia gay.
Conviene ora fermarsi un poco, ritornando a quel dato di partenza, al gay pride, all’orgoglio di essere diversi e di voler essere accettati in nome di questa diversità. Due pensieri si impongono: qual è l’obiettivo gay: essere differenti – da qui l’orgoglio - o essere uguali? Se è – come sembra - l’essere differenti, che questa differenza venga giocata sino in fondo. Perché chiedere di estinguersi in un indistinto egualitarismo, che li appiattisce su forme specifiche delle coppie etero: matrimonio, famiglia, adozioni? Perché rifarsi a queste istituzioni tradizionali, in nome di un concetto pre illuminista dell’uguaglianza? Già all’epoca dei Lumi, nel Settecento, uguaglianza non significava certo livellamento in un unico standard sociale e culturale, ma piuttosto possibilità di conquistare singolarmente una parità sul piano del riconoscimento della comune umanità. Obiettivo utopico, come la storia insegnerà, ma di certo razionalmente esplicitato: un conto è l’uguaglianza (nessuno è uguale ad un altro, anche se tutti sono uguali di fronte alla legge), un conto è la pari dignità, intoccabile per ogni essere umano e perciò da promuovere.
La seconda riflessione è legata al pregiudizio. Non c’è dubbio che gli omosessuali hanno nel tempo subìto il peso della discriminazione, della violenza, del dileggio, causando nei singoli sofferenza e umiliazioni fisiche e spirituali. E’ bene che questa stagione, almeno in Occidente, sia finita e che qualche episodio di intolleranza, specie giovanile, sia stigmatizzata: la pari dignità personale di ciascuno è un traguardo culturale inalienabile. Preziosa è la convinzione cristiana che tutti, senza eccezione, portano impresso il sigillo del Creatore, che li ha fatti “a sua immagine e somiglianza”. Inarrestabile poi l’onda culturale, dove -almeno da noi- il logos di marca illuminista ha cercato di segnare con scarso successo il corso degli eventi storici con gli ideali dell’uguaglianza, della fraternità e della libertà. Soprattutto la libertà di espressione e di pensiero, garantita nei Paesi democratici: nel pieno rispetto della dignità dell’altro, ognuno ha il diritto/dovere di dar voce alla propria coscienza. Etero ed omo, credente e agnostico, ricco o povero. E’ un pregiudizio bollare l’omosessualità come devianza o malattia (cancellata anche dall’OMS dall’elenco delle patologie). Ma è anche un pregiudizio rispondere violentemente contro chiunque esprima perplessità sulla richiesta di far famiglia di due persone dello stesso sesso: criminalizzare chi la pensa diversamente, è sintomo di incapacità di interagire sul piano scientifico e culturale.
E’ un pregiudizio ignorare l’esistenza dei problemi sociali, supponendo di rappresentare il modello di riferimento assoluto. E’ la stessa esperienza del vissuto quotidiano ad indicare, ad esempio, che gli omosessuali sono, nella maggioranza dei casi, accettati: lavorano e fanno carriera come tutti gli altri, vivono al fianco degli etero senza alcun problema.
Ma è un pregiudizio pretendere che l’omosessualità diventi il principio di interpretazione della sessualità, colta non più nella sua specifica differenza, ma vista in modo omologante. Ponendo le varie convivenze gay al pari della coppia etero, secondo i dettami del gender-pensiero significa misconoscere il valore del pluralismo e costringere i modelli sociali dentro la strettoia di un unico paradigma. Ed ancora, è un altro pregiudizio ignorare la distinzione tra la famiglia sessualmente determinata da un uomo e una donna e ogni altra forma di convivenza. Distinguere non è ghettizzare o separare astrattamente i vari attori della scena sociale, che possono e devono convivere pacificamente, nella misura in cui si rispettano nella reciprocità.
Va detto ancora che i processi socioculturali che ci attraversano hanno bisogno della pazienza dei tempi lunghi; ciò non ci esime dall’esigenza di costruzione di nuovi orizzonti di convivenza a cui tutti dovremo tendere. Così da essere sostenuti, tutti, dall’orgoglio di essere persone dotate di buon senso, di ragione e di cuore, aperte al rispetto di tutte le differenze, pronte al riconoscimento delle diversità (che sono sessuali, ma anche culturali, politiche, sociali), disposte a mettersi in gioco per concorrere alla pari dignità di ogni altro.
Orgoglio e pregiudizio, dunque, come recita il titolo di un romanzo di Jane Austen; il primo da sostenere quando c’è di mezzo l’umanizzazione della società, il secondo da combattere, quando la reciproca intolleranza non fa che produrre violenza e conflitti sociali.
Paola Ricci Sindoni
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