Tempo fa, Gramellini scriveva sul Corriere nel suo “Caffè”: “Esserci o non esserci, questo è il problema dei padri, di cui oggi si festeggia l’esistenza”, aggiungendo poco dopo: “siamo diventati troppo apprensivi e non diamo più ai figli la possibilità e il gusto di sbagliare”. Annotazione, oggi, tutt’altro che scontata.
Più avanti diceva: “Se siamo diventati molli è per reazione verso la durezza dei nostri padri, che erano sì autorevoli, ma spesso anche assenti o indifferenti”. Qui sono un po’ perplesso, la motivazione di Gramellini mi sembra riduttiva; e se tale mollezza fosse anche dovuta alla paura? Alla paura di essere emotivamente marginalizzati, non riconosciuti affettivamente dai figli?
Proseguiva dicendo che tra il modello duro del passato e quello “assillante” di oggi, non si è ancora riusciti, per i padri, a trovarne uno alternativo, valido.
Così conclude: “Che alla fine sia questo il modello da perseguire? Esserci senza esserci. Lasciare che si inoltrino da soli nel buio, che cadano e si rialzino finché non avranno più paura di cadere. E però rimanere acquattati nelle retrovie: senza fare nulla, ma pronti ad accendere la luce”. Certo può essere un’idea, saggia, dove si tengono insieme le cose: esserci senza esserci; può, forse, essere ancora troppo “assillante”.
Ma ciò che dispiace nell’argomentazione di Gramellini è un difetto (mio pensiero) diffuso: pensare l’educazione (come mille altre cose) da soli, individualisticamente. Un figlio, per ora, è il frutto di un incontro, si spera d’amore, ma comunque di un incontro. Dove ognuno porta ciò che è, e ciò che ha: essere un uomo e una donna. Perché siamo così “ingenui” da pensare, che se un modello va trovato, non vada ripensato nell’incontro con il modello che sta dall’altra parte, cioè della madre?
Se un figlio nasce da un incontro, perché la sua educazione non dovrebbe nascere da un incontro (cosa complicatissima)? Perché pensarsi, come sempre, da soli e non in due?
So long
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