Il corpo, tutto un innesto di orecchini, di spille, di amulenti intelligenti, eccoci tutti mutanti, araldi di un angelismo high tech, nuovo e digitale. Eppure, quando l'urto è imminente, mettiamo la testa fra le braccia, e la mano sulla bocca di fronte all'eccesso di orrore o di gioia.
«Noi uomini abbiamo un problema - mi ricordava durante un’intervista Éric-Emmanuel Schmitt -: possiamo dimenticare il nostro corpo». E dimenticare il corpo non significa affatto essere spirituali, ma soltanto astratti: cioè diabolicamente disincarnati, condizione nella quale si è più facilmente illusi, delusi. Non è un caso che, invece, il santo Triduo Pasquale si svolga proprio sotto il segno del corpo. Non sono le parole che lavano i piedi, che dividono il pane, che vengono catturate, torturate, assassinate, sepolte. È il Verbo fatto carne, suo corpo. «Questo è il mio corpo, dato per voi». Verbis gestisque, ecco la grande svolta del Concilio Vaticano II: la Rivelazione divina non è una dottrina affidata a sole parole – fossero pure le più sublimi -, ma assume la forma di un corpo, ha il suo passo e la sua andatura.
Lo sa bene Jean-Pierre Sonnet, biblista della Pontificia Università Gregoriana, gesuita e poeta. Sorprende e attira già il titolo della sua ultima opera tradotta in italiano – La scorciatoia divina (Áncora, pp. 173) -, perché scardina una logica irriflessa e quotidiana, quella che vede nel corpo un ostacolo all’incontro con il divino. Invece no: è mezzo privilegiato, addirittura il più rapido. Sonnet dipinge la sua riflessione con tocchi svelti, impressionistici, attraverso prose dense e rarefatte che possono ricordare l’ultima produzione di Philippe Jaccottet: una galleria di quadri dalle piccole proporzioni, intessuti di suggestive meditazioni bibliche, ricolmi di pause vivide. Oasi del pensiero.
Il corpo, dunque, considerato in tutti quei suoi dettagli puntualmente oscurati dall’equazione totalizzante con la sessualità. Sì, il corpo è anche altro. «Tremano, le parole di Dio, quando ci attraversano il corpo, dalla testa ai piedi». Ecco, ad esempio, i piedi: piedi precipitosi del profeta che reca buone notizie alla sua gente, piedi agili e festanti dello Sposo del Cantico, piedi ansiosi dei due discepoli che si precìpitano al sepolcro, piedi instancabili dell’atleta Paolo di Tarso scagliato verso l’ultima mèta. Quasi che una medesima e inarrestabile corsa attraversasse l’intera Scrittura.
Sonnet non teme la vicinanza, carezza anche le sfumature più delicate, come la tenera curvatura del collo, il delicato tondo del capo, i capelli femminili. O la dolce cicatrice dell’ombelico, quel “memento nasci” che rappresenta «l’enigma di tutti in quello di ciascuno». Vi sono le dita creatrici, «l’intelligenza tattile di chi ama». Il corpoalato dei messaggeri. Persino gli umori corporei di questo nostro corpo vulnerabile e fecondo - saliva, lacrime, sangue, aromi, profumi -, tutt’altro che rigido e asciutto, come la pietra o i morti. Il corpo tintinna di orecchini e monili. Scioglie le agili caviglie, nell’azione veramente artistica del tuffatore, del lottatore o del trapezista. Ma non meno pregna è la nostra postura stabile, verticale, che ci affratella agli alberi. I nostri gesti più intimi: mangiare, leggere («Che cos’è mai quest’amicizia fra il libro e il nostro corpo?»). Al pasto divino, l’Eucaristia, Sonnet dedica quindici quadri, quasi una «fenomenologia tascabile» del mistico cibarsi.
Le pagine di questo libricino vanno rilette e assaporate con calma. Hanno la caratteristica dell’opera di contemplazione vera: spingono fuori di sé, disinnescano la seduzione ipnotica e autoreferenziale della bella parola indirizzando il nostro sguardo altrove. Sulla carne, la nostra, quella scelta dal Verbo stesso: e allora «togliere la mano dal libro appena letto, concentràti sull’oracolo che si fa carne, è il gesto più bello». Un annuncio che travalica i confini della letteratura. Un annuncio che avrebbe allietato Arthur Rimbaud, il quale concludeva la sua Saison en enfer nella speranza di poter possedere, un giorno, «la verità in un’anima e in un corpo».
Un assaggio dell’opera
Il corpo, tutto un innesto di orecchini, di spille, di amulenti intelligenti, eccoci tutti mutanti, araldi di un angelismo high tech, nuovo e digitale. Eppure, quando l’urto è imminente, mettiamo la testa fra le braccia, e la mano sulla bocca di fronte all’eccesso di orrore o di gioia. L’emozione inzuppa gli abiti e le lacrime sono una prima o ultima parola, invincibile. Dio, che ci attende dovunque, ci attende nel respiro dei torni e nel battito del cuore, la veemenza dei sensi, la nudità dell’anima. Ci attende nella Genesi.
Paolo Pegoraro
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