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Perchè vale la pena ricominciare

Siamo ormai partiti. Studenti, insegnanti e genitori, tutti dentro il gran calderone della scuola. Pronti a riprendere già stancamente la solita routine, oppure c'è la possibilità che educare e essere educati diventi un'avventura per cui vale la pena alzarsi felici al mattino? Abbiamo lanciato la sfida a un gruppo di diretti interessati...


Perchè vale la pena ricominciare

da Quaderni Cannibali

del 11 ottobre 2007

A dispetto di tutte le analisi, le critiche, le difficoltà, i problemi e i guai che attanagliano la scuola italiana - ogni giorno ne abbiamo sentita una, enfatizzata ad arte da giornali, tv e internet -, c’è qualcosa che può permettere di ricominciare e di ripartire all’inizio di un anno?

In una situazione che abbiamo definito da “emergenza educativa”, perché un insegnante dovrebbe desiderare di tornare tra i banchi? Perché ne vale la pena?

Ci sono “alcune grandi cose” di cui si è certi e su cui lanciarsi in un nuovo inizio, più forte di tutte le demoralizzazioni e le delusioni accumulate?

C’è qualcosa che muove un entusiasmo positivo e una voglia di prendere iniziativa per un adulto proiettato in un lavoro come quello di educare istruendo? Ricominciare la scuola vuol dire, evidentemente, tornare a insegnare: la scienza, la storia, la letteratura…

Nell’agosto 1977 don Giussani incontrò a Viterbo gli insegnanti di Comunione e Liberazione. A quell’intervento egli attribuiva un’importanza sempre attuale per la ripresa di un movimento educativo nella scuola. Disse, tra l’altro: «La partenza vera deve rinnovarsi tutti i giorni: è questo il nostro genio, la nostra forza. L’inizio è una presenza che si impone. L’inizio è una provocazione, ma non al “cervello”…L’inizio vero è una provocazione alla nostra vita; ciò che non è provocazione alla vita ci fa perdere tempo».

Esattamente trent’anni dopo, gli ultimi giorni di agosto, Tracce ha radunato attorno a un tavolo un gruppo di insegnanti di lungo corso e alcuni professori alle prime armi. Insegnanti nella scuola statale e nella non statale, con storie diversissime e una comune appartenenza. Che hanno raccolto quella “provocazione”. Ecco i loro racconti.

 

 

Franco Nembrini

 

Incontro straordinario col mistero dell’altro

 

Ho lasciato l’insegnamento nel 1999 e l’ho sempre definito l’unico vero sacrificio della mia vita. Insegnavo da ventitré anni; per me sono stati la scoperta dell’insegnamento come possibilità di incontro straordinario col mistero dell’altro. Era la vita che ricominciava ogni mattina, perché puoi fare tutti i conti che vuoi, preparare tutte le lezioni che vuoi, avere in testa tutti gli schemi che vuoi, ma l’altro ti sorprende sempre. Ogni mattina andare a scuola era il gusto di questa sorpresa, di questo stupore, di questa cosa nuova che accadeva e di cui non potevo definire in anticipo i contorni, il contenuto e le conseguenze. Per questo ho lasciato malvolentieri l’insegnamento. Perché ci ritorno? Per la stessa ragione: avevo nostalgia e voglia di ributtarmi in questo rapporto, in questa avventura che ricomincia ogni giorno. Quando si insegna c’è sempre come da buttare in aria tutto, ogni mattina.

Questo è reso più interessante dal fatto che proprio il lavoro che ho fatto in questi anni - come responsabile della Foe (Federazione opere educative; ndr) mi sono occupato di scuole e di riforma - mi ha reso più avveduto e consapevole dell’emergenza educativa che abbiamo lanciato attraverso l’Appello Educazione nato dalla ripresa de Il rischio educativo di don Giussani. Adesso so più di sette anni fa che cosa voglia dire che viviamo in un Paese in cui l’educazione sta diventando la cenerentola. Tutti gridano, magari si stracciano le vesti sulle conseguenze (l’anno delle malefatte l’abbiamo visto tutti), ma chi ha il coraggio di dire: «Io voglio potere ricominciare»? Tanti si inventano le ricette - la polizia, i cani antidroga, gli eserciti di psicologi -, ma chi dice: «Io ci sto, nel mio piccolo ho qualcosa da raccontare ai ragazzi, qualcosa di buono da proporre»? Perciò ricomincio con la consapevolezza mille volte più grande dell’urgenza del compito, della responsabilità che portiamo. E anche di un’altra cosa che ho “imparato” in questi anni: l’educazione è un compito che si porta insieme, nel senso che non si può educare da soli. Si educa tanto quanto si ha un luogo, una casa, degli amici cui si appartiene.

Tornando tra i banchi ho da proporre quello che sto verificando io stesso: ho incontrato la letteratura e l’ho amata - per quello che avevo imparato da don Giussani - come la verifica quotidiana dell’incontro con gli autori, con dei maestri sui quali rischiare il mio personale giudizio. Ai miei studenti ho sempre chiesto di accompagnarsi con me in questa verifica. In questo senso, la vicenda di “Centocanti” (vedi il box qui accanto) per me è stata emblematica: tutto è nato senza che nessuno l’avesse progettato, un giorno ho detto a qualche ragazzo: «Io con Dante mi rapporto così, gli parlo perché ha molto da dire e da insegnare alla mia vita. Facciamolo insieme». Tutti gli autori li ho sempre insegnati così. È ciò di cui i ragazzi hanno bisogno, cercano disperatamente un adulto che dica loro: «Io voglio esserti compagno nel cammino, perché il cuore mio e il tuo sono uguali. Ho trovato qualcosa nella vita che tu non hai ancora avuto modo di scoprire; ti invito a fare un pezzo di strada con me».

 

 

Matteo Severgnini

 

La verità si scopre in un rapporto

 

Il primo anno in cui ho insegnato ho conosciuto un ragazzino che rifiutava qualunque proposta. Era chiuso in se stesso - ho scoperto in seguito che il suo atteggiamento derivava anche da problemi familiari - e io mi sono legato a lui. La sua presenza in classe era una domanda a me.

Due mesi prima della fine della scuola aveva gravi insufficienze. Incontrando suo padre, ci siamo accorti che non sapeva nulla, tanto che di fronte a una probabile pagella negativa, si è arrabbiato, diceva: «È stato un fallimento!». Gli ho detto: «Guardi che suo figlio lo sento come mio fino all’ultimo minuto dell’ultima ora di scuola e io non l’abbandono». In quell’istante il ragazzo è scoppiato a piangere; poi, finita la scuola, sulle scale mi ha detto: «Prof, volevo scusarmi per oggi. Non ho pianto di tristezza, ma di gioia, perché mai nessuno mi aveva detto che ero di qualcuno. Non so se sarò bocciato o no. Ma quello che mi interessa è che quando entro a scuola c’è qualcuno che mi aspetta. Ed è un professore!». Arrivato alla fine dell’anno, era in debito di tre materie, tra cui matematica. Ha passato l’estate a studiare accompagnato da un’insegnante, tanto da arrivare ad applicare delle regole che prima non capiva e ora comprendeva. Che cosa ho imparato da questa esperienza? Che la verità si può scoprire in un rapporto. Inizio l’anno con questa grande speranza, che riguarda innanzitutto me.

 

 

Fabrizio Foschi

 

Ritrovare l’unità nelle cose che si fanno

 

Ricomincio a insegnare, anch’io dopo anni di lontananza dai banchi - ma non dal mondo della scuola, mi sono infatti occupato di didattica -, per due ragioni: qualcuno mi ha guardato in maniera vera, è stato leale nei miei confronti. E io voglio comunicare attraverso l’insegnamento l’entusiasmante fatica di prendere in mano la realtà e guardarla alla luce di ciò che si è ricevuto. In secondo luogo, come responsabile di un’associazione di professori (Diesse) non potevo evitare di rimettermi a insegnare. Senza velleità, mi sento sfidato da una domanda che proviene dagli studenti e dagli insegnanti. E la sfida mi sembra questa: in una tesi di dottorato un’insegnante brasiliana dimostra che tutto quello che si propone nella didattica è frammentato, perché vuole corrispondere a un io frammentato. Ora, questa frammentazione dell’io è il dramma della scuola, a cui si risponde frantumando ancora di più la proposta educativa e didattica. E così facendo, invece di salvare la persona che è sul baratro, le si dà una spintina. Allora la sfida è ritrovare un’unità nelle cose che si fanno, ricondurre a un significato. Tanto è urgente che persino in alcuni recenti documenti ministeriali si fa riferimento alla necessità di recuperare una sintesi: la cultura dominante, che ha spezzato e suddiviso, sente il bisogno di una sintesi, ma questa partita ha bisogno di persone che affrontano la realtà della scuola in maniera unitaria. E questo vorrà dire mettere in contatto i ragazzi con l’esperienza mia e degli autori che si incontrano, non solo con l’analisi del testo. Siccome riparto da un biennio, la cosa mi entusiasma.

 

 

Francesco Fadigati

 

Cosa c’è di interessante per me in ciò che insegno?

 

Quando ho iniziato a insegnare, Franco Nembrini mi aveva lanciato una sfida: «In questo mestiere c’è la possibilità di rimanere giovani». Fin dal primo istante, di fronte a trenta ragazzi di seconda media, non potevo barare perché mi stavano ad ascoltare. Tutte le mattine quando entravo in classe avevo davanti ragazzi che anche esplicitamente mi chiedevano: «Perché dovrei stare ad ascoltarla?». Ricordo che una ragazzina, mentre io ero preoccupato di finire il programma di storia, di fare le cose bene, mi faceva domande che mi inchiodavano, ad esempio: «Che cosa c’è di interessante nello sbarco in Normandia?». Mi ha costretto a mettermi davanti a ciò che insegno, domandandomi che cosa c’è di interessante per me.

L’altra ragione per cui mi affascina incominciare è che l’avventura di insegnare, vissuta insieme ai miei amici, sta prendendo sempre di più il mio io. Chiamando un genitore, un pomeriggio, questi è scoppiato a piangere: «Mi aiuti lei, professore, con mia figlia, perché io non so più che cosa fare». «Neanche io so cosa fare - gli ho risposto -, non ho la ricetta, ma mi interessa quello che interessa a lei, che cioè sua figlia diventi grande. Se vuole, ci mettiamo insieme». Sono andato a cena a casa loro. Dopo un’ora di lamenti dice alla figlia: «Vedi, il tuo prof se ne potrebbe fregare di te e invece è venuto a cena da noi», non mi lasciavano andare più via. Ho capito che non posso vivere il mestiere a metà.

Insegnando c’è la possibilità di cambiare, di uscire dalla classe diverso. La prima ora entro pieno di sonno, ma vedere le facce dei miei ragazzi, che innanzitutto ci sono anche se ho sonno, che hanno voglia o no di ricominciare, e sentire certe loro domande che mi costringono a stare davanti alla cartina di geografia, mi ha fatto fare delle scoperte. La scuola mi sta facendo imparare, vado a scuola per imparare. Per questo sento che posso rimanere giovane.

 

 

Cristina Rossi

 

Quella faccia perfora la mia indifferenza

 

La scuola pone il problema del significato della realtà: o non ha senso, e allora il nulla domina, salvo qualche divagazione e distrazione, oppure lo ha, e allora da dove viene? Sono io che do il senso alle cose? Il significato mi viene da un passato, da una tradizione. Insegno al biennio di un istituto professionale; qui la frattura fra la cultura e la vita è stratosferica, per cui quando entri in classe senti potentemente questa questione: o dal passato arriva qualcosa che può essere per i ragazzi l’occasione di una coscienza più grande di loro stessi o non ha alcun senso convocarli ogni mattina a scuola. Per non essere solo in balia della moda e del potere, i miei studenti che andranno a fare gli elettricisti devono potere intravedere qualcosa che travalichi l’istante momentaneo.

Il disagio dei ragazzi, assommato alla frustrazione degli insegnanti, crea una situazione problematica, violenta, esplosiva, da emergenza continua. Fino a qualche anno fa alla fine dell’estate mi veniva la paura di rientrare. Poi succedeva che appena mi sedevo in classe, se fino a due minuti prima avevo cercato tutte le scappatoie per cambiare scuola o mestiere, una sola di quella facce che riusciva a perforare la mia indifferenza mi rimobilitava tutta, fino a desiderare un aggiornamento e uno studio, perché, nonostante mi trovi in un professionale, non sono mai entrata in classe una mattina senza avere preparato con cura le lezioni, ma era per quelle facce, per quella “materia” umana che diventa domanda a me di ragioni adeguate; è un’avventura entusiasmante, sostenuta dall’aspettativa che possa succedere quel “bel giorno” in cui un ragazzo si risveglia, si sorprende di esserci e comincia a tirare fuori un tratto nuovo della sua persona. E poiché non sai mai quando succederà, occorrono pazienza e un’energia instancabile, quasi aldilà delle mie capacità.

Di fatto, mi trovo a insegnare a leggere e a scrivere. I miei alunni per la maggioranza sono stranieri, un terzo è musulmano. Ho avuto la soddisfazione di vedere ragazzi che si appassionano alla scrittura come occasione per dire “io”. Sembrano assolutamente indifferenti ed estranei a tutto, ma appena trovano una fessura che permetta loro di sbucare fuori come persone, si aprono. Si sono talmente entusiasmati nello scoprire che possono dire “io” e che la realtà è loro, che abbiamo vinto un concorso di poesia!

 

 

Giorgio Pontiggia

 

L’educazione, esondazione di una pienezza

 

Ascoltandovi parlare, pensavo che ciò che unisce queste testimonianze può essere sintetizzato con una domanda: si può insegnare, se non si è contenti di ciò che si vive e se non si ha “compassione” (nel senso latino del termine) per chi ci è attorno? Mi viene in mente un proverbio che dice: «Chi sa, fa. Chi non sa, insegna». Terribile, perché il problema della scuola non è la scuola - nella scuola emerge il problema -: se uno non è contento di ciò che vive, se non è colmo di ciò che vive, non può avere la sovrabbondanza della comunicazione e non può avere la sensibilità per cogliere il bisogno dell’altro.

La ragione per cui si va a scuola è l’esperienza che si fa. Si potrebbe avere passione per la scuola - quando insegnavo in una scuola statale c’erano insegnanti di sinistra che stavano lì anche dieci, dodici, quindici ore al giorno, ma con un ultimo velo di tristezza -, e la scuola andare in rovina; se non c’è gente lieta di una pienezza, si finisce col trasmettere un’ideologia che tende a coprire un vuoto dell’io. Se, al contrario, si è ricchi di esperienza, la scuola diventa una grande occasione di libertà in azione. Questa è la sola ragione per cui io, che ho appena lasciato la scuola di cui sono stato rettore, vado a insegnare.

L’educazione è come l’esondazione di una pienezza, che si realizza attraverso gli strumenti della propria professione. Indica anche l’ideale di cammino: lo sviluppo dell’originalità dell’altro, e non l’aggregazione dell’altro a quello che pensi tu: una «genuina preoccupazione ideale» - per usare un’espressione di don Giussani -, e non un’emozione che si fa provare, da “attimo fuggente”. Questo ci fa andare a scuola. E ci fa giocare tutta la sfida del rapporto coi ragazzi e i colleghi nella normale attività didattica, che non può essere ridotta a una questione esclusiva dei pedagogisti.

 

Alberto Savorana

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