Il cuore del cristianesimo, cioè l'evento della rivelazione di Dio in Gesù Cristo crocifisso, è letto da Paolo come evento dell'amore di Dio per gli uomini nel loro peccato, nel loro essere nemici di Dio (Romani 5,8-11). E questo evento è segnato dall'amore e dalla gratuità di Dio, non da una volontà giuridica di risarcimento dell'offesa portata a Dio dal peccato umano.
del 01 gennaio 2002
Il cuore del cristianesimo, cioè l’evento della rivelazione di Dio in Gesù Cristo crocifisso, è letto da Paolo come evento dell’amore di Dio per gli uomini nel loro peccato, nel loro essere nemici di Dio (Romani 5,8-11). E questo evento è segnato dall’amore e dalla gratuità di Dio, non da una volontà giuridica di risarcimento dell’offesa portata a Dio dal peccato umano. Questo significa che il dono del Figlio all’umanità è anche, e contemporaneamente, perdono, remissione dei peccati. La rivelazione biblica esprime molto chiaramente il fatto che il perdono è incondizionato: esso non è preceduto, quasi come da necessaria premessa, dal pentimento, ma anzi, è esso stesso che fonda e rende possibile il pentimento. La parabola del figlio prodigo (Luca 15,11-32) afferma che il pentimento del figlio potrà iniziare solo dal momento in cui egli si rende conto dell’amore fedele del Padre, che non ha cessato di amarlo mentre si era allontanato da lui. Ciò che il figlio legge come perdono, in realtà agli occhi del Padre non è che un amore che non ha mai smentito se stesso. Il perdono è coglibile solo nello spazio della libertà dell’amore, solo nello spazio del dono. Anche etimologicamente esso ci rinvia a quel dare-in-più che si traduce nella rinuncia a un rapporto di tipo giuridico in nome di un rapporto di grazia.
Capiamo pertanto che il perdono è costitutivo dell’identità del cristiano: l’indicativo di Dio (ciò che Dio ha fatto nel Figlio Gesù Cristo) diventa l’imperativo dell’uomo (ciò che il credente, come singolo e come chiesa, è chiamato a testimoniare), Non stupisce allora che le tre tappe decisive del formarsi della chiesa attestate dai Vangeli siano contrassegnate dalla remissione dei peccati. L’autorità conferita a Pietro, roccia basilare nell’edificio ecclesiale, è essenzialmente potere di perdono (Matteo 16,19); l’eucaristia, che dà forma all’intera comunità ecclesiale, è memoria efficace dell’evento in cui Cristo ha versato il suo sangue «in remissione dei peccati» (Matteo 26,28); il mandato missionario consegnato ai discepoli li abilita alla remissione dei peccati (Giovanni 20,23). Appare così come «la chiesa sia una comunità di peccatori convertiti, che vivono nella grazia del perdono, trasmettendola a loro volta ad altri» (Joseph Ratzinger). Se è vero che ritroviamo il perdono in altri ambiti religiosi e culturali, tuttavia nell’economia cristiana esso è inscindibilmente connesso allo scandalo e al paradosso della croce, all’evento pasquale. La forza e la debolezza della croce si riflettono nell’onnipotenza (tutto può essere perdonato) e nell’estrema debolezza del perdono (esso non garantisce che colui che ne ha beneficiato arrivi al pentimento, e neppure che non faccia del perdono il pretesto per continuare a compiere il male). Il perdono afferma che la relazione con l’offensore è più importante dell’offesa da lui recata alla relazione: esso porta pertanto l’offeso ad assumere come passato il male ingiustamente subìto, affinché questo non precluda il futuro della relazione.
Vi è un’asimmetria nel perdono cristiano, che consiste nel fatto che l’offeso, perdonando, lascia unilateralmente all’offensore l’unica possibilità di ripresa della relazione. Per il cristiano questo è possibile solo grazie alla fede in Cristo e al dono dello Spirito santo. Questa asimmetria, infatti, è stata vissuta dal Cristo sulla croce: «Il Giusto del quale a Pasqua si celebra la resurrezione è colui che, asimmetricamente, restaura la reciprocità, risponde all’odio con l’amore, offre il perdono a chi non lo domanda» (Francis Jacques). Ed è lo Spirito alitato dal Crocifisso risorto sui discepoli (Giovanni 20,22-23) che li abilita alla remissione dei peccati. Nell’economia cristiana il perdono non si colloca su un piano etico, ma escatologico. Esso è profezia del Regno, segno dell’azione dello Spirito, manifestazione delle energie del Risorto, svelamento dell’amore del Dio Padre. Riflesso dell’amore trinitario di Dio, il perdono è partecipazione alla vittoria di Cristo sulla morte: se la resurrezione «dice» che la morte non ha l’ultima parola, il perdono «dice» che il peccato non ha l’ultima parola, non è la verità dell’uomo. Il perdono ricorda che il peccatore è un uomo, non un peccato personificato, e che è ben più grande delle azioni pur negative che può aver compiuto. In questo senso, il perdono è anche segno di umanità e forza di umanizzazione.
Certo, occorre ribadire che il perdono non è una legge, ma una possibilità senza limiti (si pensi al «perdonare settanta volte sette», Matteo 18,22) offerta alla fede e alla libertà di ciascuno. E men che meno è una legge da imporre agli altri. Lo spazio vitale del perdono è la libertà. Come gesto non libero esso non sarebbe neppure gesto di amore e non saprebbe raccontare la libertà e la gratuità dell’agire di Dio.
Enzo Bianchi
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