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Peter Pan è tornato!

Se per caso, camminando per strada, vi imbatteste in un'ombra, dimenticata in un angolo, raccoglietela con cura. Potrebbe presto apparire Wendy pronta a ricucirla addosso al suo legittimo proprietario... Peter Pan sta per tornare a Londra, sull'isola che non c'è, ma anche nella casa in cui entrerà la 'seconda puntata' della storia centenaria. A scriverla è stata l'autrice britannica Geraldine McCaughrean su autorizzazione del Great Ormond Street Hospital, l'ospedale pediatrico di Londra che detiene i diritti del libro per volere di James Matthew Barrie, dalla cui fantasia nacque questo classico di imperitura fortuna letteraria. «Ho creato Peter Pan», raccontava Barrie ai suoi piccoli amici, «strofinandovi violentemente insieme, come fanno i selvaggi che producono una fiamma da due stecchi. Peter Pan è la scintilla venutami da voi».


Peter Pan è tornato!

da Quaderni Cannibali

del 17 ottobre 2006

Nell’attesa di leggere come ne sia stata interpretata l’eredità, non si può dimenticare la metafora che l’eroe vestito di foglie secche rappresenta da sempre, nel parlar comune e nella psicologia, del 'ragazzo che non vuole mai crescere'. Ma chi sono i Peter Pan d’oggi? Esistono ancora? O sono cresciuti e diventati adulti, come accade ai protagonisti della storia nel nuovo libro?Il bambino che non voleva crescere era l’autore che l’ha inventato. Fu lo stesso James Matthew Barrie ad ammetterlo nella biografia di sua madre Margaret Ogilvy .

«Il terrore della mia infanzia», scrisse, «era la consapevolezza che sarebbe venuto un tempo in cui anch’io avrei dovuto rinunciare ai giochi e non sapevo come avrei fatto». Una frase che molti, da quando fu scritta, avrebbero sottoscritto volentieri, andando a ingrossare le file dei colpiti dalla cosiddetta 'sindrome di Peter Pan'.

Ma la questione non può essere evasa abbandonandosi ai luoghi comuni: val la pena di capire quanto sia diffusa questa paura e da che cosa nasca. Spiega la psicologa Anna Oliverio Ferraris, autrice fra l’altro di Prova con una storia: «Il rifiuto di vivere in un mondo pieno di ingiustizie e cattiverie per continuare a muoversi in un mondo immaginario, da costruirsi a proprio uso e consumo, può nascere da una società che per molti versi pare disumana. È una tentazione che forse contagia più qualche adulto che i bambini stessi, a cui, tanto per rimanere nelle metafore letterarie, consiglierei piuttosto di leggere Pinocchio e incontrare il suo percorso di crescita». Piccolo è bello, bambino è bello, sognare è bello... I messaggi in questo senso non sono pochi, ma devono essere bilanciati da una diversa filosofia, secondo la psicologa.

«Mantenere la capacità di stupirsi, e anche la possibilità di staccare ogni tanto dalla vita reale, è un atteggiamento positivo. È importante conservare la flessibilità necessaria per entrare e uscire dalla realtà, per tornare ogni tanto a giocare, ma non ci si può fermare lì.

Oltre a Peter Pan, occorre guardare a Pinocchio, che ti racconta la necessità di uscire dall’infanzia e imparare a crescere».

Se Peter Pan tornasse a difendere sé stesso, tuttavia, ribatterebbe alla psicologa che diventare adulti ha i suoi lati negativi, i doveri, le responsabilità, la fine di tante illusioni... Ma lei non si perde d’animo e, anzi, rincara la dose: «È dannoso incoraggiare la permanenza nel mondo giovanile, come spesso accade oggi nei casi di quelle adolescenze lunghe sin dopo i 20 e anche i 30 anni. Del resto, il contesto attuale non facilita: non si può dire che i ragazzi possano osservare proposte di progetti di vita, i lavori sono precari, ci sono continui cambiamenti e sembra che ci sia incertezza su tutto. Quando ero piccola, i genitori sapevano che i figli avrebbero avuto migliori condizioni di vita, di studio, economiche e sociali, si è creduto in un progresso inossidabile e ineluttabile, ma a un certo punto si è capito che non sarebbe più stato così. C’è una battuta d’arresto su tutto e non è raro che un papà professionista abbia un figlio co.co.co.».

È paradossale che, da una parte, la società, ma soprattutto il mercato, spinga a 'adultizzare' i bambini con una gara a proporre sempre prima esperienze 'da grandi', e i genitori verso un mal riposto orgoglio. Dall’altra, invece, c’è una sorta di permesso generazionale a coltivare la propria giovinezza all’interno della famiglia allungata, in attesa dell’uscita dal nido e della presa di responsabilità, sempre più rimandate.

«Per molti di questi giovani sembra non arrivi mai il momento di un impegno definitivo, di una scelta che chiude qualche porta. Sono cresciuti nel benessere e si trovano bene a casa propria. Preferiscono la sensazione che si può fare ancora tutto, che tutto ancora è possibile, salvo poi arrivare a 40 anni e sentirsi vecchi per tutto. Ma attenzione: la colpa non è loro. Gli orizzonti sono diventati confusi e il grosso problema di molti giovani sono certi adulti, i primi a non volere invecchiare, a crearsi l’illusione che il tempo per loro non passerà mai, a non volersi assumere il ruolo dell’educatore, mentre i ragazzi avrebbero tanto bisogno di trovare figure che hanno già fatto il percorso dal sogno alla realtà, dall’onnipotenza al senso del limite. Che dicano coi fatti: 'Io ci sono già passato, ce la puoi fare anche tu'».

Renata Maderna

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