Mentre volge al termine il tempo natalizio è utile interrogarsi sul senso dell'augurio di "buon anno" e sul suo legame con la festa del Natale
Se si può affermare con sicurezza la bellezza di un libro solo quando lo si è letto integralmente, è proprio verso il termine di un tempo speciale come quello natalizio che è possibile domandarsi quali “frutti” abbia portato nella nostra vita e in quella di coloro che ci circondano. Poche riflessioni, dunque, per capire se in effetti siamo stati in grado di custodire ciò che questo periodo ci vuole comunicare.
Lungo strade che certo sarebbe interessante ripercorrere, seguendo itinerari socio-culturali che ancora oggi vengono assiduamente battuti, ci stiamo abituando sempre più a una tendenziale diluizione del contenuto proprio del tempo natalizio, mantenendo quasi esclusivamente il contorno, la “confezione regalo” per così dire (quale metafora più indicata proprio per questo periodo?) che lo accompagna, perdendo tuttavia il contenuto che dà (o dovrebbe dare) senso al tutto. Tutti approfittiamo del periodo natalizio per festeggiare, riposare e trascorrere del tempo insieme con i nostri cari, ma a quanto pare pochi di noi sanno riconoscere «cosa» ci sia da festeggiare.
Perché se ci guardiamo intorno, nella nostra vita di tutti i giorni, specialmente di questi giorni, da qualche anno a questa parte, è inutile nascondersi che in realtà ci sarebbe ben poco da festeggiare. A una ormai affermata dispersione dell’umano e a una sensibile concentrazione dell’interesse generale sul solo aspetto economico o “di facciata” della vita, si è aggiunta la ben nota piaga della pandemia, che con il suo carattere impensato e a suo modo sorprendente, ha fatto emergere nel tempo in maniera ancora più decisa (possiamo dirlo senza paura di essere smentiti) il lato peggiore del nostro essere-umani e l’ha messo in mostra sulla principale vetrina del XXI secolo, i social. Dal dolore più vivo per la perdita dei propri cari all’amarezza di fronte all’ignoranza di quanti ancora si rifiutano di collaborare al bene comune, non solo di quanti li circondano ma, potremmo dire, dell’umanità intera, tra i vari sentimenti che possono sorgere nel nostro animo, la gioia e il desiderio di festeggiare certo non campeggiano tra le prime posizioni.
Cosa c’è allora da festeggiare nell’attuale clima in cui siamo chiamati a vivere? Le riflessioni e le domande così poste non vogliono certo fermarsi a una burbera e sterile critica dell’odierna compagine sociale (che certo, talvolta, è bene riprendere, alla faccia dell’ormai classico adagio «andrà tutto bene» o peggio ancora «ne usciremo migliori»). Al contrario, la paradossalità e l’ingenuità della nostra situazione può trovare soluzione solo richiamando con fermezza quello che in fin dei conti, contro ogni diluizione o annacquamento, è l’unico e vero senso che ci si rivela in questo tempo e che dà sapore a ogni altro tempo; un senso custodito nella sua imprescindibile origine cristiana: la fede nel farsi carne, nel divenire essere umano da parte di Dio. Questo è e rimane l’unico fondamento su cui può trovare un terreno solido la legittimità di festeggiare, di celebrare e di gioire in questi giorni.
Una festa, dunque, ad esclusivo “uso e consumo” dei cristiani? Decisamente no. La fede che celebra un Dio (che in quanto tale non è umano) che si fa carne (assumendo ciò che non è Dio) non può certo essere esclusiva né tanto meno escludente. Al suo cuore, infatti, risplende il mistero di colui che Totalmente altro decide di farsi prossimo alla sua creatura, per condividerne ogni aspetto, dalla nascita alla morte, fino a rendere tutta questa nostra storia parte stessa dell’essere di Dio nel mistero della risurrezione. Il Natale, allora, nel suo carattere di mistero inclusivo, è per eccellenza il tempo in cui si possono radicare tutte le speranze, le gioie e i desideri che si palesano nell’animo umano. La speranza di un mondo più umano, di un mondo di pace, di un mondo fraterno dev’essere inclusa proprio in questo mistero che illumina il tempo natalizio; diversamente, risulta una speranza che in sé, certo, è lodevole e aiuta a mitigare le difficoltà e le delusioni di ogni tempo presente, ma insieme rimane una tenera illusione, che dura il taglio di un panettone, un brindisi in compagnia o, nel migliore dei casi, fino all’Epifania, che insieme alle altre feste porta via anche ogni buon proposito.
Non è un caso, allora, che il periodo natalizio inizi con la festa del Natale e accolga in sé l’inizio del nuovo anno, specialmente pensando all’anno appena trascorso. L’augurio di un buon anno, la speranza che inevitabilmente accompagna sempre questo augurio che ci siamo scambiati in questi giorni, volgendo lo sguardo verso un futuro ancora ignoto, desiderando che sia davvero più buono in tutti i sensi, trova fondamento, ragion d’essere, validità e autentica speranza solo se abbiamo accolto il vero senso del tempo natalizio. Se sappiamo riconoscere questo senso che ci è più che necessario e che solo è in grado di illuminare la nostra vita, allora potremo davvero sperare e augurare, senza sembrare ingenui, la bontà di un nuovo anno per tutti coloro che incontreremo.
Riconoscere il vero fondamento della bontà e della speranza che abitano questo tempo che si sta per concludere. È questo il compito al quale siamo chiamati. A questo si riferisce il profeta Isaia, quando in nome di Dio, nella disperazione che talvolta segna la nostra esistenza, ci sussurra: «Consolate, consolate il mio popolo, dice il vostro Dio. Parlate al cuore di Gerusalemme e gridatele che la sua tribolazione è compiuta» (40,1). La nascita di Gesù è la nostra consolazione, la gioia che solo può porre fine alle tribolazioni e rilanciare il nostro presente ogni volta verso un nuovo anno. A fronte di tutto quello che possiamo vivere, sperimentare e soffrire, qualcosa rimane: la presenza di Dio in noi, come noi e per noi.
È facile illudersi di trovare, tra i propri averi, qualche valido motivo per decorare la propria casa, organizzare feste e scartare regali; si riconoscerà ben presto, tuttavia, che non sarà niente di tutto questo a cambiare davvero le cose. E non perché non siano cose in sé importanti e significative, ma perché da sole sono un terreno davvero fragile sul quale pensare di poter costruire la bontà, la salvezza del proprio presente, che in quanto tale (mi si conceda il facile gioco di parole) non possiamo darcelo, ma possiamo solo riceverlo ogni volta come grazia, accogliendo colui che nel buio del nostro esistere ha acceso una luce nuova e inaspettata, sorprendente nella propria capacità di ridare fiducia, gioia e speranza a una vita che, troppo spesso, sembra essere in una situazione in cui ci sia ben poco da sperare.
di Stefano Fenaroli
Tratto da vinonuovo.it
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