Questo libro è una scossa alla coscienza del lettore. Apre uno squarcio sulla vita del nostro paese perlopiù sconosciuta; riordina, cataloga, riporta alla luce storie di persone che entrano nelle nostre carceri, nelle nostre questure o nei nostri ospedali psichiatrici giudiziari e ne escono morte.
La prefazione a un libro di Manconi e Calderone. Questo libro è una scossa alla coscienza del lettore. Apre uno squarcio sulla vita del nostro paese perlopiù sconosciuta; riordina, cataloga, riporta alla luce storie di persone - spesso giovani - che entrano nelle nostre carceri, nelle nostre questure o nei nostri ospedali psichiatrici giudiziari e ne escono morte.
Vederle tutte insieme, queste storie, una dopo l’altra, serve innanzitutto come esercizio di memoria. Si tratta di vicende sconosciute, oppure venute a galla sui giornali e sui blog, ma rapidamente dimenticate. Lo scrivono, e bene, Luigi Manconi e Valentina Calderone, autori di questo libro: l’atteggiamento della società nei confronti del carcere è la rimozione; una rimozione che fa emergere la cattiva coscienza - di antiche radici - della nostra società. C’è un mondo di reclusi che vengono trattati da esclusi. Sono tagliati fuori dalla società civile, viene ignorata la loro esistenza.
Quando siamo al semaforo in auto e vediamo avvicinarsi un lavavetri o un venditore ambulante voltiamo la faccia dall’altra parte per evitare di incrociare il loro sguardo. “Non mi riguarda “ pensa la buona società. E si volta dall’altra parte. Allo stesso modo, essa, nella sua gran parte, si comporta con chi viene da lontano come straniero, oggi nella veste di “clandestino “. Così, nella stessa logica ma ben più drammaticamente, le vicende - vicende di giovani che entrano nel nostro sistema carcerario - vengono accantonate, rimosse. Si tratta di uno strabismo col quale dissimuliamo diffidenza, egoismo, chiusura in noi stessi.
Il mosaico doloroso racchiuso in questo libro testimonia di storie che non fanno opinione pubblica. Testimonia di episodi caduti nel buco nero dell’oblio. Accanto a coloro i cui nomi compaiono più o meno fugacemente nelle cronache, altri muoiono nelle nostre carceri senza che nessuno se ne accorga. Uomini che non hanno parenti, magari migranti, extracomunitari. Cosa sappiamo di loro? Niente.
Una prassi diffusa che emerge da questo libro è proprio questa: non sono le istituzioni a portare alla luce questi casi. Al contrario. Spesso si allestiscono reti di coperture generalizzate, dove ci si protegge reciprocamente, a colpi di firme false e cancellature. Sono reti che intrappolano spesso anche i compagni di cella dei detenuti morti; altro segno della cappa di omertà che avvolge questo ambiente. Un’omertà che trova sostegno anche in un’idea comunemente accettata: le vittime, in quanto “tossici”, o “alcolizzati”, gente che comunque vive “ai margini” della società, se la sono, in qualche modo, “cercata”. Fanno parte di un’umanità deviante, sono già parte di un’altra umanità; così da sentirle diverse da noi e anche rimuoverle, fino a nascondere le loro morti. Anche per questo ben venga la catalogazione e la sistematizzazione di casi tragici che Luigi Manconi e Valentina Calderone operano in questo loro lavoro; per darci un pugno nello stomaco, per renderci partecipi di quello che accade in alcuni non isolati casi in Italia, per far emergere vicende di soprusi e abusi, per non dimenticare.
Questo libro, però, non è un atto d’accusa contro le forze dell’ordine, né contro lo Stato. Non è una generalizzazione. Non vuole dimostrare che lo Stato come tale non funziona né alimentare risentimenti generici nei confronti degli operatori della pubblica sicurezza o delle manchevolezze della giustizia. Vuole essere una documentazione utile per la giustizia, la verità e la conoscenza. Giustizia, verità e conoscenza si costruiscono tassello per tassello, non per assunzione di giudizi a priori.
Le storie di vita e di morte qui raccontate sono la testimonianza di come, talvolta, quando una persona debole - non importa se colpevole o innocente - si trova totalmente nelle mani di altri, in istituzioni chiuse e “totali”, il rigore della legge possa facilmente cedere al sopruso. In questi casi, il rapporto tra il detenuto e l’autorità può degenerare, non essere più mediato da una norma, ma basarsi sulla predominanza materiale fra chi dispone della forza e chi sta, inerme, a disposizione della forza. I luoghi di questo libro ci appaiono isole inespugnabili, dove più che la sovranità del diritto regna la legge dell’arbitrio e, nell’arbitrio, si manifesta non il meglio, ma il peggio della natura umana: abusi, violenze, soprusi, manifestazioni di avvilimenti esistenziali di cui gli stessi autori sono le prime vittime.
Molti dei casi raccontati in questo libro sono avvenuti in uno spazio “vuoto” di diritto, quando cioè le persone sono nelle mani delle forze dell’ordine nella situazione che precede l’adozione di misure formali nei loro confronti, appena fermate a un posto di blocco o portate in questura a seguito di un controllo. Si tratta di uno “spazio” difficile da regolare: qui è il senso della deontologia degli agenti delle forze dell’ordine che deve avere il primo posto.
(...) L’argomento di questo libro è dunque altamente politico, non nel senso della politica dei partiti, ma nel senso delle regole comuni della polis, del nostro vivere insieme. Ci si può augurare ch’esso, sollevando il velo su molti episodi, contribuisca ad alimentare una sensibilità e a sollecitare la responsabilità nei confronti d’un aspetto vergognoso della nostra organizzazione sociale. A volgere lo sguardo verso ciò che si preferirebbe non vedere.
Il libro: “Quando hanno aperto la cella”, di L. Manconi e V. Calderone (il Saggiatore, prefazioni di Zagrebelsky e Bergonzoni, con una lettera di I. Cucchi, pagg. 262, euro 12)
Gustavo Zagrebelsky
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