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Quel muro di vetro

Silvana De Mari, medico, psicoterapeuta e scrittore di libri, riporta una riflessione sulla morte e l'umanità del terzo millennio. "Impediamo ai nostri figli di andare a visitare i nonni malati perché non si impressionino; gli impediamo di assistere ai loro funerali. La sofferenza e la morte diventano tabù, vengono negati..."


Quel muro di vetro

da Quaderni Cannibali

del 13 luglio 2011

 

           Come poter affrontare la morte era uno dei discorsi che non si facevano mai nelle aule dove la mia generazione ha imparato la medicina.

          Noi apparteniamo a un’epoca che, per la prima volta nella storia dell’umanità, ha combattuto battaglie vittoriose contro la sofferenza e tutte le situazioni dove i cadaveri si contano a cataste invece che unità: abbiamo estinto il vaiolo, abbattuto la mortalità infantile e posto condizioni per eliminare le guerre mondiali.

          Noi apparteniamo a un’epoca che, per la prima volta nella storia dell’umanità, avendo combattuto battaglie vittoriose contro la sofferenza e la morte, ha creato la pericolosa illusione che vivere senza dolore sia augurabile e, anzi, possibile.

          Impediamo ai nostri figli di andare a visitare i nonni malati perché non si impressionino; gli impediamo di assistere ai loro funerali, ritenendo, come il padre di Budda, che il compito del buon genitore sia preservare i propri figli dal dolore, non fargli mai sapere che la sofferenza esiste.

          La sofferenza e la morte diventano tabù, vengono negati, come se ci fosse un muro di vetro che le isola e le separa. In questa maniera si sottrae l’unica strada che ha l’essere umano per risolvere la sofferenza: affrontarla, capirla, da darle un senso e condividerla.  Ed è uno sbaglio, perché poi scopriamo da soli che il dolore, la paura, la disperazione e la rabbia fanno parte del destino umano come la forza, l’amore, la speranza, la tenerezza e la comprensione.

E quando lo scopriamo, siamo soli.

E’ compito di una generazione lasciare in eredità alla successiva le istruzioni per non lasciarsi travolgere dal dolore. Noi non lo stiamo facendo.

 

Perché scriverlo io?

Perché avrei voluto che qualcuno mi avesse detto, trenta anni fa, quando mio padre è morto, quello che sto per scrivere. Perché tutti i pazienti a cui sono stata vicina, mi hanno aiutata a pensarlo.

Perché e la mia maniera di salutarli ancora. 

Mio padre è morto solo.

Mia sorella e io eravamo fisicamente nella stanza dove lui ha smesso di vivere, mia madre in quella stanza era trinceata da sempre, ma ugualmente lui è morto solo.

In sua presenza non è mai stata nominata né la parola morte, né la parola cancro.

Noi sapevamo, a lui, “ per il suo bene” non era stato detto niente.

          Gli avevamo sistematicamente mentito. Avevamo contraffatto i suoi esami, falsificato le sue cartelle, perché lui non sapesse. Lo avevamo così rinchiuso in una trappola di silenzio. Tutti i dubbi che aveva avuto, li aveva rimurginati da solo; quando si era reso conto dell’inarrestabilità del suo “stare peggio”, non aveva avuto nessuno con cui piangere insieme. L’ottusa congiura del silenzio in cui tutti siamo rimasti intrappolati non ci ha permesso di salutarlo, non gli ha permesso di salutarci.

Ci sentivamo in colpa.

          In primo luogo c’è la colpa del sopravvissuto: se qualcuno a cui siamo legati è morto, in qualche maniera abbiamo fallito il compito di tenerlo in vita. A questa si è aggiunge il senso di colpa del mentitore rispetto all’ingannato.

          E poi c’era il senso di colpa per il non detto: per l’affetto non manifestato. Lo avevamo lasciato morire senza dirgli quanto gli abbiamo voluto bene e quanto eravamo fiere di lui; lo avevamo lasciato morire senza permettergli di dirci quanto ci aveva voluto bene, cosa voleva che ricordassimo di lui.  Abbiamo sfogato il nostro sentirci in colpa con un faraonico funerale e profusioni di fiori che, devo dire, per mezza giornata, hanno sortito l’effetto di farci stare un po’ meno male. Poi la mezza giornata è passata e noi abbiamo ricominciato a stare malissimo. 

Io avevo ventidue anni: ero ancora all’Università. Poi sono diventata medico.

          Ho visto innumerevoli altre persone morire, in pronto soccorso o nei reparti di chirurgia, rinchiusi nello stesso destino di inutile solitudine. Non c’era, allora, nessun esame, nessuna competenza alla facoltà di medicina che preparasse a parlare della morte, a coloro che vi erano condannati, a chi gli stava vicino, a chi gli era sopravvissuto.

          In moltissimi medici c’era, e c’è ancora, un imbarazzo totale davanti alla persona condannata, quella per cui “ non c’è più niente da fare”. Non siamo più abituati alla sconfitta. Molti di noi evitano con fastidio le loro stanze e i loro parenti: la frustrazione di non poterli guarire è insopportabile e, per evitarla, si evita il malato, che così resta sempre più solo.

          Mi era sembrata una buona idea fare chirurgia. È la parte più epica della medicina. La battaglia era stata persa per mio padre, ma avrebbe potuto essere vinta per qualcun altro: estirpare il male, strapparlo così che poi resti solo una ferita decente e pulita da ricucire. Un duello con la morte, come Brancaleone o il crociato del settimo sigillo, ma questa volta ad armi pari. Non avevo calcolato lo scarso entusiasmo che un quarto di secolo fa, accoglieva le femmine nei reparti di chirurgia. Visto che in sala operatoria mi facevano entrare il meno possibile, ho cominciato a passare il tempo parlando con i malati e con i loro familiari, tutti i malati, anche quelli delle stanze dove nessuno voleva entrare.

Ho scoperto che ognuno è una persona, ognuno ha la sua storia. 

          Ho imparato che le sofferenze della nostra anima possono essere infinitamente più devastanti di quelle dei nostri corpi. Mi sono ricordata che il compito del medico non è guarire tutti, ma dare consolazione a tutti e non nuocere a nessuno in nessuna maniera, meno che mai con l’abbandono.

          I miei pazienti mi hanno insegnato che uscire dalla stanza di una paziente lasciandosi alle spalle una scintilla di consolazione è una meravigliosa vittoria.  

          Quando siamo di fronte alla morte e la accettiamo, allora succede il miracolo. Tutto acquista una profondità sconosciuta e irripetibile, acquisisce una forza che non ha mai avuto prima. Si crea la possibilità di annullare anni di rancore, riparare ferite; restaurare la fiducia, cancellare gli errori, lasciare un ricordo che darà la forza a coloro che restano di combattere le loro battaglie con orgoglio e con onore.

 

Significato evoluzionistico della paura della morte.

          Il piccolo scalatore sta facendo una solitaria. Improvvisamente una delle sue corde si rompe e lui scivola malamente su una parete verticale. Riesce all’ultimo momento ad aggrapparsi a uno spuntone di roccia e resta lì a penzolare su un baratro di centinaia di metri, senza poter fare nessun movimento se non continuare a restare appeso. Gli viene in mente che forse c’è qualcun altro che sta facendo una scalata. Comincia regolarmente, ogni cinque minuti, a chiedere

-         C’è qualcuno?-

La sua voce si perde tra le cime innevate. Il piccolo scalatore continua ostinatamente sempre pi√π roco per la fatica e la disperazione. Finalmente una voce riempie le montagne.

-         Sì, ci sono io che sono Dio. Lasciati andare. Questa sera sarai con me in paradiso-

Cala la sera. Le prime stelle cominciano a brillare. A questo punto si sente la vocina dello scalatore che domanda:

-         Per favore, c’è qualcun altro?-

(Da Pennac, La Fee Carabine modificato) 

La paura della morte è sempre molto forte, anche nelle persone che non nutrono nessun dubbio sul “dopo”.

La paura della morte ci è stata messa dentro da madre natura e dalle regole dell’evoluzione, per salvarci la vita.

E’ una paura congenita, che abbiamo stampata nel patrimonio genetico.

Senza questa paura, la stragrande maggioranza di noi non arriverebbe all’età adulta e ci saremmo estinti. Alcuni ne sono meno dotati di altri e sono quelli che guidano di notte a fari spenti per vedere che cosa si prova.

Analogamente i bambini hanno paura dell’estraneo, del buio e del mare. Se così non fosse i bambini si avventurerebbero in braccio a sconosciuti, nel buio della notte e tra le onde e molti di loro perirebbero.

Il fatto che i bambini ne abbiano una terribile e fisiologica paura, non vuol dire che gli sconosciuti siano tutti aggressivi, che il buio nasconda sempre mostri e che sbattere i piedini nelle onde non sia piacevole.

Il fatto che noi ne abbiamo paura, cioè che abbiamo l’istinto a evitarla, non vuol dire che una cosa sia cattiva.

In alcune persone la paura della morte è una tortura talmente prolungata e feroce, che vi pongono fine con il suicidio.

La paura della morte è una conseguenza della nostra capacità di pensiero astratto.

E’ il prezzo pagato per poter dire:

-         Io sono perché penso.-

Possiamo riprendere l’affermazione del già nominato signore del letto 22 dell’Istituto di Patologia Chirurgica dell’ Ospedale Molinette:

-Quando paghiamo caro qualcosa che non ha prezzo, abbiamo in ogni caso fatto un affare.-

Qualcuno affronta la morte senza paura: molti scienziati, la totalità dei santi, il Dalai Lama, sicuramente il signore del letto n 14 della sezione 6B dell’Ospedale S Luigi Gonzaga, per lo meno la seconda volta che è morto.

Aveva una cirrosi epatica da alcolismo, e una tubercolosi gravissima. Era ricoverato in ospedale da circa tre anni: con la tubercolosi poteva succedere. I suoi polmoni erano distrutti, e questo creava una condizione terribile e non risolvibile, che risponde al termine tecnico di dispnea a riposo, e che in parole più povere può spiegato come un lentissimo annegamento che si prolunga per settimane. Il suo cuore si fermò una notte in cui io ero di guardia. Nella mia foga di giovane medico, cui il concetto di accanimento terapeutico non era molto chiaro, sono riuscita a fare un’intracardiaca di adrenalina e ho sentito sotto le mie dita il polso ripartire.

Tra me e la Signora con la falce, una volta tanto, era uno a zero per me.

Il signore del letto n 14 della sezione 6B dell’Ospedale S Luigi Gonzaga riaprì gli occhi, mi fece un meraviglioso sorriso con quello che restava, non molto, della sua dentatura, mi disse di non preoccuparmi, perché dall’altra parte era bellissimo.

Dopo di che, visto che dall’altra parte era bellissimo, ci tornò.

La mia vittoria con la Signora con la falce alla fine si era limitato a un time-out tecnico.

Quello che era strano era il sorriso: dove lo aveva preso un cervello reduce da un’ipossia (rimasto senza ossigeno) tutta l’energia, la forza, i neurotrasmettitori, necessari per quel sorriso?

 

La colpa 

          Uno dei componenti del dolore che accompagna una perdita è il senso di colpa. Il senso di colpa del sopravvissuto è stato messo a fuoco ascoltando la disperazione dei reduci dei campi di concentramento. E’ presente e constante in tutti i sopravvissuti di tutte le catastrofi, e spesso è il principale ostacolo alla ripresa di una vita normale.  

          Se amo una persona, se semplicemente appartengo alla sua cerchia, sento come un dovere impedire che muoia. Dal punto di vista della biologia, cioè dell’evoluzione è una protezione.

          Colpa e senso di colpa non sono sinonimi. Posso provare un atroce senso di colpa anche se non sono colpevole, se non è stata colpa mia, se non potevo farci niente. Tanto più è forte il mio senso di responsabilità, tanto più forte sarà di combattere per salvare quelli che mi sono vicini, tanto sentirò la colpa della mia sconfitta.

          Il senso di colpa, come tutte le emozioni negative, la paura, la rabbia, il rancore, il dolore per la morte di coloro che amiamo, ha il compito di preservare la vita: ci spinge a batterci perché nessuno muoia, ci spinge a buttarci in acqua per salvare il bimbo trascinato dalle onde, a rischiare di essere falciati da un’auto in corsa per dare soccorso in un incidente stradale.

          Un gruppo, una famiglia, una società dove tutti hanno l’impulso di battersi per la salvezza degli altri, ha un basso tasso di mortalità, vive meglio e più a lungo, ma è gravata da un alto livello di senso di colpa quando non siamo riusciti ad evitare la morte. Quando proviamo un’emozione tendiamo a selezionare tutti i pensieri che hanno lo stesso colore di quell’emozione e a cancellare gli altri.

          In una vita ci sono milioni di cose. Non possono essere ricordate tutte contemporaneamente. A seconda di quali selezioniamo nel racconto che ce ne facciamo, diamo un senso piuttosto che un altro a tutto quello che è successo.

          Quando ci sentiamo in colpa verso qualcuno, tendiamo a ricordare tutti gli episodi in cui abbiamo lo abbiamo in qualche maniera maltrattato, non ricordando tutti gli altri.  Ricordiamo tutte le volte che ci abbiamo litigato: non è possibile convivere con una persona senza saltuariamente litigarci a sangue.

          Ricordiamo. In questa maniera il senso di colpa aumenta in maniera esponenziale. L’unica maniera per uscirne è fare qualcosa subito: un funerale faraonico, per il quale si spendono metà dei propri risparmi o ci si indebita. 

          Se ci sentiamo molto in colpa quando qualcuno muore è perché lo abbiamo molto amato e perché abbiamo un alto senso di responsabilità. Tanto più è forte il mio senso di responsabilità, tanto più tenterò di combattere per salvare quelli che mi sono vicini, tanto sentirò la colpa della mia sconfitta.

          Il senso di colpa, come tutte le emozioni negative, la paura, la rabbia, il rancore, il dolore per la morte di coloro che amiamo, ha il compito di preservare la vita. Il senso di colpa come tutte le emozioni negative ha, una volta che impariamo a gestirlo, il compito di migliorare la vita.

Noi cresciamo solo sulle crisi.

Il dolore.  

Il dolore per la perdita nasce con il riconoscimento.

          Mamma tartaruga non riconosce la sua prole. Depone le uova su una spiaggia e ne va per i fatti suoi. Quando le tartarughine nascono, in un numero sterminato, si avviano verso il mare come i soldati di Napoleone nella ritirata di Russia. Tra quelle mangiate dagli uccelli, quelle mangiate dalle lucertole e quelle che si perdono tra le dune circa il quindici per cento arriva al mare. Qui le tartarughine residue diventano cibo per i pesci: Se tutto va bene una o due si salvano e così la specie continua.

          Le tartarughine non si distinguono l’una dall’altra, non c’è nessun riconoscimento individuale. Nessun altro soffre quando la tartarughina muore, né la sua mamma né qualcuna delle sue decine di sorelle.

          Il dolore compare con l’alligatore. Mamma alligatore riconosce la sua prole e la difende. Quando separati, mamma alligatore e l’alligatore bimbo esprimono sofferenza ed è la prima emozione che compare nella scala evoluzionistica. Quando uno dei due muore l’altro soffre.

          Non è possibile sofferenza senza amore. Non è possibile amore senza sofferenza: se amiamo qualcuno la sua assenza è un mancanza, la sua morte una lacerazione.

          Se soffriamo quando qualcuno muore, è perché lo abbiamo amato, e l’amore un miracolo. Se stiamo soffrendo per la morte di qualcuno è perché sappiamo che il miracolo dell’amore esiste, e che lo abbiamo avuto. Possiamo scegliere una sofferenza pulita.

L’altro, quello che se ne è andato, ci ha lasciato in eredità l’amore per la vita.

 

Silvana De Mari

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