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Reciprocità e Vangelo

La costruzione di moschee, la celebrazione pubblica di festività islamiche, l'apertura di scuole «private» musulmane: secondo i sostenitori della reciprocità, la concessione di questi e altri simili diritti dovrebbe essere condizionata al loro speculare riconoscimento agli stranieri nel Paese di origine dei richiedenti...


Reciprocità e Vangelo

da Teologo Borèl

del 06 novembre 2007

La costruzione di moschee, la celebrazione pubblica di festività islamiche, l'apertura di scuole «private» musulmane: secondo i sostenitori della reciprocità, la concessione di questi e altri simili diritti dovrebbe essere condizionata al loro speculare riconoscimento agli stranieri nel Paese di origine dei richiedenti. Sappiamo infatti che in alcuni Paesi islamici (e non solo: si pensi alla Cina) è drammaticamente negato l'esercizio della libertà religiosa, della libertà di espressione e di molti altri diritti fondamentali.

 

Nel dibattito sulla reciprocità ci pare emergano due diversi approcci. C'è chi pone tale questione non come un ricatto, ma con la ferma consapevolezza chela responsabilità del corpo sociale esige, da un lato, la tutela universale dei diritti umani fondamentali, dall'altro la tensione verso una società capace di comporre le differenze, in vista del bene comune. Benedetto XVI è certo il più autorevole rappresentante di questa posizione, ribadita in molti discorsi. I suoi richiami sul principio della reciprocità sono sempre accompagnati dall'esortazione a non smarrire ciò che qualifica l'atteggiamento evangelico. «L'amore cristiano è, per sua natura, preveniente - diceva ad esempio nel maggio 2006 al Pontificio consiglio della pastorale dei migranti e degli itineranti -. Ecco perché i singoli credenti sono chiamati ad aprire le loro braccia e il loro cuore a ogni persona, da qualunque Paese provenga, lasciando poi alle autorità responsabili della vita pubblica di stabilire le leggi ritenute opportune per una sana convivenza».

 

Ben diverso è l'atteggiamento di chi, agli appelli alla reciprocità, puntualmente associa l'evocazione di un fantasma: la resa dell'Occidente cristiano di fronte all'invasione islamica. L'allarme suona più o meno così: «Se concediamo certi diritti ai musulmani, poi questi pretenderanno di comandare a casa nostra e faranno a pezzi la nostra civiltà e identità cristiana».

 

Ci pare che qui emerga, anzitutto, la mancata considerazione dell'eterogeneità del mondo islamico: l'assenza di libertà religiosa che si registra, ad esempio, in Arabia Saudita non ha nulla a che fare con la realtà del tollerante Senegal. Dovremmo allora prevedere, in Italia, una legislazione che differenzi l'esercizio dei diritti in base al passaporto e che neghi a un immigrato saudita ciò che viene concesso a un senegalese? Non sfugge, poi, la debolezza di un'argomentazione in cui chi afferma la propria «superiorità» civile e democratica si dimostra nel contempo disposto a rinnegarne i fondamenti e a imitare gli atteggiamenti deteriori di chi viene considerato «inferiore».

 

Ma c'è qualcosa di più profondo. Dalle Scritture appare evidente che il Dio del cristianesimo non è il Dio della reciprocità quanto piuttosto il Dio della gratuità unilaterale, dell'amore disinteressato e sovrabbondante. La narrazione dell'esodo del popolo ebraico verso la Terra promessa mette bene in luce la tenacia della fedeltà divina, che va al di là di ogni tradimento e di ogni calcolo. Ancora più esplicito è il messaggio evangelico: per rivelare all'uomo la via di un'autentica fraternità Gesù sceglie la strada della Croce. Un Dio buonista? No, semplicemente un Dio buono. Viene da chiedersi allora: di quale cristianesimo parlano coloro i quali - magari fino a pochi anni fa appassionati difensori dell'identità celtica o padana - oggi si autoproclamano custodi dell'identità cristiana?

Stefano Femminis, Direttore di Popoli

http://www.popoli.info

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