Sabato 10 agosto 1957

No, non c'è più d'ingiustizia che non ci sia di debito da pagare alla società. Non c'è che un canto di riconoscenza che deve scaturire dai nostri petti, perché ciò che era perduto è ritrovato, e perché tutti questi errori sanguinanti approdano sempre all'amore di Gesù.

Sabato 10 agosto 1957

da L'autore

del 05 novembre 2009

L'anima mia magnifica il Signore!

Sabato 10 agosto.

 

Gioia, gioia. Se potessi trascrivere su questa carta tutte le grazie di cui sono beneficiario. Chi descriverà l'amore di Dio per le sue creature? Le ore che trascorro sono tanto profumate come il più puro dei gigli. Si versa nella mia anima una profusione di dolcezza che fa prorompere il mio cuore in canti di rendimento di grazie. L'anima mìa magnifica il Signore e il mio spirito ha trasalito di gioia in Dio mio Salvatore, perché ha gettato gli occhi sulla piccolezza della sua serva. [Lc 1,46-48].

 

Amare come Egli ci ama. Perdersi nel suo Amore infinito. Soavità delle lacrime che scorrono perché la coppa trabocca e perché Egli mi colma al di là delle mie forze. Perché non posso far gustare, non fosse che per un secondo, a coloro che non credono, tutto lo straripamento di allegrezza che Egli riversa in me per pura misericordia?

 

Mio Signore e mio Dio. Rendere testimonianza, fare qualche cosa che io gli possa almeno donare. Tutto viene da lui, io sono tratto fuori dì me stesso, si fa bianca la mia nerezza, mi si veste dell'abito bianco degli eletti, e la mia indegnità rimane più forte, più potente che mai. Non essere che una cosa sola con la polvere, non credere più che io possa dare da me stesso una cosa qualsiasi. Tutto è grazia!

Il fiat mi sgorga dalle labbra perché lo spirito trabocca dal mio cuore. Io vorrei morire perché ho troppa gioia.

 

Fiducia, fiducia nell'amore di Gesù. Non credo ancora abbastanza e non crederò mai abbastanza. Meraviglia dell'amore di Dio e corruzione della mia carne. L'egoismo resta in me nonostante tutto, è la mia consolazione che cerco, il rimedio ai miei mali. Rimango incapace di amare. Vado a morire e temo la morte, così la mia adorazione è rivolta ad un fine egoistico e questo non è amore.

 

Sono colmato, mi si salva mio malgrado. Mi si toglie dal mondo perché io mi ci perderei, e io non ho fatto nulla per meritare una grazia tale. Perché non posso sentire sempre la mia miseria come oggi? Se amo un po' di più, saprò meglio quanto siamo amati, e la mia fiducia diventerà dura come la roccia.

 

Ma io non posso impedirmi di vedere Dio con gli occhi della carne, il timore e la miseria dimorano in me e io faccio rimbalzare su di Lui queste imperfezioni.

Credere sempre di più, fare astrazione da ogni inquietudine, non pensare più che all'Amore e a confidare. Quando Egli vorrà e nel modo che vorrà!

 

L'orgoglio! Di esso bisogna diffidare come della più spaventosa delle calamità. Quando tutti gli altri vizi sono soggiogati, esso solo domina e s'infiltra, inafferrabile, nei nostri pensieri migliori. È tenace, sottile, si avvolge attorno all'anima nostra come il convolvolo attorno alla pianta. Si sviluppa nell'odio e si accompagna pure alla ricerca della perfezione. Mentre tutti gli altri vizi, per virulenti che siano, rimangono ben delimitati, ed è perciò facile attaccarli di fronte, l'orgoglio s'intrufola e turba l'anima al punto che non sa più che cosa pensare.

 

Non credere altro che la propria miseria.

 

Queste righe sono forse assai cattive; le scrivo sinceramente perché stimo che possono esserti utili, anche solo un tantino. Ma chi mi assicura che non ci sia nel sottofondo un fine orgoglioso? Il desiderio che tu dica: Com'era pio il mio papà, un sant'uomo! e che un resto palpabile di ciò che fu il mio io rimanga sulla terra, affinchè io possa continuare a vivere in te, nel tuo pensiero.

 

Ho avuto al principio la tentazione di esporti ciò che pensavo di certe cose. In fondo mi accorgo che oltre il desiderio molto reale di condurti a meditare sulla grandezza della tua vita, si nascondeva il progetto meno confessabile di fare il processo al mio processo, per giungere alla conclusione seguente: Gli uomini sono malvagi, mi hanno condannato ingiustamente.

 

No, non c'è più d'ingiustizia che non ci sia di debito da pagare alla società. Non c'è che un canto di riconoscenza che deve scaturire dai nostri petti, perché ciò che era perduto è ritrovato, e perché tutti questi errori sanguinanti approdano sempre all'amore di Gesù.

 

Quelli che mi hanno condannato, certissimamente l'han fatto perché nell'animo loro, nella loro coscienza hanno stimato che si doveva fare cosi. Se essi hanno peccato, non può essere che per orgoglio. Hanno in effetti giudicato di avere in se stessi abbastanza lume per discernere ciò che Dio solo si è riservato il diritto di fare. Ciò non mi riguarda, è una questione che essi dibatteranno un giorno o l'altro con il loro Creatore, e chissà se a causa di questo un'anima non si salverà? Tutto mette sempre capo all'amore di Cristo.

 

Bisogna pure che io m'impedisca di credere che proprio per mezzo della mia persona sono capitate molte cose, come se la mia morte sia un tale dono che essa possa coprire una moltitudine di peccati.?• È fare appello alla giustizia di Dio, e io rischio fortemente di accorgermi a mie spese che il mio debito non è ancora saldato.

 

Così pure, quando scrivo, ed è una bizzarria che ho costatato presso molti, devo evitare di parlare con autorità, come se il nostro scritto fosse un riflesso del Vangelo: gli E io ti dico. mancano di umiltà. L'umiltà e la speranza sono due virtù essenziali per salvarsi.

 

Sono anche le pi√π difficili da acquistare.

 

Jacques Fesch

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