Sarajevo cura le ferite della guerra

Arrivando da Mostar, cupa e fascinosa, le prime luci che scorgi dietro gli umidi finestrini di uno stipato pullman sono quelle di Novo Sarajevo, ai confini con la zona industriale, disadorna periferia ovest della città, a un tiro di schioppo dal centro.

Sarajevo cura le ferite della guerra

da Quaderni Cannibali

del 07 ottobre 2009

Arrivando da Mostar, cupa e fascinosa, le prime luci che scorgi dietro gli umidi finestrini di uno stipato pullman sono quelle di Novo Sarajevo, ai confini con la zona industriale, disadorna periferia ovest della città, a un tiro di schioppo dal centro.

 

Alla tua prima visita, neanche ci pensi, perché non puoi saperlo. Ma la lunga arteria su cui sfrecciano centinaia di automobili è un luogo celebre, sinistramente celebre. Si chiama Zmaja od Bosne (in italiano, Dragone di Bosnia), lungo e largo serpentone di catrame, delimitato da alberi in fiore. Un tempo era conosciuto come il Viale dei Cecchini, un luogo di morte, di cui era sconsigliato l'attraversamento, se non a rischio di cadere sotto i vili colpi dei serbi appostati negli angoli più oscuri e nascosti, tragica sorte toccata a 225 persone nell'arco degli interminabili mesi del più lungo assedio che la storia moderna ricordi.

 

Adesso, più di un decennio dopo, la normalità è il ritorno ad antiche abitudini: non solo il traffico di chi attraversa Sarajevo in senso longitudinale, ma pure la silenziosa tranquillità del viale alberato che costeggia il fiume Miljacka, a sud della Zmaja od Bosne, popolato da anziani che ne occupano le panchine, da ragazzi che vi sfrecciano sugli skateboard, da giovani e meno giovani che nelle loro tute da jogging sfuggono alla frenesia del centro. Sintomatico che proprio qui le locali guide chiudano i loro tour dopo aver condotto i turisti al tunnel di Dobrinja, conosciuto anche come il Tunnel della Speranza, quello che conduceva all'aeroporto, quindi alla fuga dalla guerra, rimandando a memoria storie di drammi vissuti. È il presente che si mescola al passato, l'ordinaria serenità del momento che incontra l'amara realtà di oltre un decennio fa.

 

Perché tutto convive, a Sarajevo. Convivenza è la parola magica, che aiuta a catalogare negli errori della storia accadimenti di straordinaria gravità. Il recente passato, buio e triste, è nelle sagome ferite di edifici che paiono usciti da una prova di resistenza: i colpi d'artiglieria, i cui effetti sono tuttora ben visibili, ne hanno devastato le facciate, ancora segnate, bucherellate, incise. Il recente passato è un susseguirsi di croci, che chiazzano di bianco le colline circostanti. A ogni spazio utile, un cimitero, eterno rifugio per chi ha pagato con la vita uno dei più aberranti orrori dell'umanità (10.618 morti, di cui 1.602 bambini).

 

Alzi lo sguardo, i tuoi occhi ne incontrano a decine, incastonati lungo i versanti che declinano verso la città, utili testimoni e preziosi moniti. Il presente non ha la memoria corta, non vuol rimuovere, ma lasciarsi il male alle spalle. Perché il presente è una città che attira turisti e ricomincia a vivere, che si nutre di cultura (il Film Festival di fine agosto, il Jazz Festival di ottobre, i mille appuntamenti estivi) e non nasconde la voglia di divertimento.Convivenza è la parola magica, tra etnie, fedi, religioni. Perché la cause dei mali passati si sono trasformate nella forza del presente, una miracolosa metamorfosi. Sarajevo è a maggioranza musulmana (circa il sessanta per cento della popolazione), ma i cristiani hanno pieno diritto di cittadinanza, non come a Mostar, dove la tensione rimane palpabile.

 

Qui il rispetto è reciproco, non c'è distinzione che tenga: un esemplare melting pot. La Katedrala Srce Isusovo (la cattedrale cattolica), maestosa, apre il suo portale su una piazza che spacca in due Ferhadija, isola pedonale che taglia il centro, e guarda in faccia Strosmajerova, il posto dei giovani per eccellenza, elegante e vivace, un mix di luci, colori, musica. Piegando verso est, ci si inoltra tra nella Bascarsija, la Città vecchia, intricato dedalo di vicoli dal fascino accattivante, in cui farsi rapire da botteghe, odori, sapori.E lì, nel bel mezzo, che si ammirano le morbide linee della Gazi Husrev-begova, la più grande e famosa delle decine di moschee di Sarajevo: orari di apertura elastici, talvolta non rispettati, rigidi codici di comportamento e abbigliamento, ma accesso consentito a tutti, nessuno escluso.

 

Tornando sui propri passi, riammirando per un attimo le architetture gotiche della cattedrale, ci si imbatte nella sagoma color giallo ocra della Stara Pravoslavna Crkva, la cattedrale serbo-ortodossa, altra tappa di un tour tanto breve quanto sorprendente, un autentico viaggio tra le religioni, che riconcilia con un mondo in cui spesso la fede viene usata a pretesto per il male. Perché poche centinaia di metri verso sud, superato attraverso un agile ponte il quieto e limaccioso Miljacka, lungo la riva meridionale del fiume, c'è la Jevrejski Hram, la più grande sinagoga della città: esterni scalcinati, nascosti da impalcature, ingresso vietato, in attesa della chiusura dei lavori di rifacimento. Uno spicchio della città, un paio di chilometri quadrati, metro più, metro meno. E c'è racchiuso il senso della fede, di tante fedi. Sembra un miracolo, di questi tempi. E forse lo è. Il miracolo di una città rinata dalle proprie ceneri, esteriori e interiori.

Il miracolo di Sarajevo.

 

Ivo Romano

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