Intervista a don Claudio Burgio, cappellano del carcere minorile Beccaria di Milano: quale felicità per un giovane che sconta una pena detentiva?
del 05 luglio 2017
Intervista a don Claudio Burgio, cappellano del carcere minorile Beccaria di Milano: quale felicità per un giovane che sconta una pena detentiva?
Margherita e Paolo, dopo aver intervistato don Enrico Parazzoli, hanno rivolto anche alcune domande a don Claudio Burgio, cappellano del carcere minorile Beccaria di Milano e fondatore delle comunità Kayros, che danno ospitalità ai ragazzi usciti dal carcere nel loro percorso di reinserimento.
Ecco gli appunti dell’incontro, ringraziando ancora Paolo, Margherita e don Claudio.
Don Claudio, tu vivi il carcere, una realtà non certo facile: ma può esserci felicità per un giovane che si trova a dover scontare una pena detentiva?
Per i giovani che incontro nel carcere minorile Beccaria e nelle mie comunità di accoglienza Kayros la felicità è inizialmente un’emozione indistinta suscitata in gran parte da uno stile di vita consumistico. Ciò che piace, lecito o meno, rende felici. Affrontando il duro percorso che da una cella porta alla ritrovata libertà, gli adolescenti con cui ho a che fare cominciano a capire che la felicità è soprattutto una scelta, più che un’emozione transitoria.
Una scelta?
Si è realmente felici quando la libertà si orienta a scelte consapevoli e responsabili. Solo allora la felicità diventa reale e dura per sempre, nonostante i problemi e le sfide che la vita pone.
È una felicità che implica la sofferenza…
Per scegliere la felicità non c’è altra via se non quella della sofferenza. Solo affrontando i limiti che la vita ci pone e superando le crisi connesse alle frustrazioni è possibile scorgere una felicità autentica.
Parli di felicità nei giovani. Ma in te c’è? Hai conosciuto la felicità?
Studiando il latino ho imparato che la parola felicità ha a che fare con la parola fecondità. Da prete e da prete in carcere ho compreso che la mia felicità si è resa possibile nel generare cammini di cambiamento nei giovani reclusi. Il ministero sacerdotale speso con questi ragazzi fragili e violenti ha generato un cambiamento anche in me e mi ha restituito la gioia di un Vangelo improvvisamente reale. Diventare padre per questi giovani, vivere questa responsabilità educativa ha permesso al mio ministero una fecondità inattesa. Tutto ciò mi rende felice.
Dunque una vocazione sacerdotale che ha trovato nuova fecondità in carcere… sembra strano. Noi siamo in cerca della nostra vocazione, ma trovarla non è certo facile. Puoi suggerirci qualche buon criterio per metterla a fuoco?
Se nasci e cresci con chi ti assomiglia rischi di non vedere nulla davanti a te. Molti ragazzi che incontro in carcere commettono reati nati spesso nel mono-contesto ove sono cresciuti fin da piccoli. Logiche di quartiere, contesti malavitosi rischiano di essere l’unica narrazione disponibile per questi ragazzi. Quando, dopo il carcere, questi giovani si aprono ad altri contesti di vita e respirano nuovi modelli adulti, allora avviene miracolosamente il cambiamento. Tutto questo vale anche per noi: solo se ti apri al diverso da te, ti metti in gioco con chi non ti assomiglia, allora scopri realmente la tua vocazione.
È l’invito del Papa a uscire da se stessi insomma…
Finché sei chiuso su te stesso, non ti è possibile allargare il tuo sguardo.
Allora i gruppi giovanili ecclesiali dovrebbero aprirsi sempre più, mentre spesso soffrono di autoreferenzialità. Seguiamo il tuo ragionamento: rischiamo forse di vivere in un oratorio o in un centro parrocchiale che non è un ‘luogo felice’?
Non è un luogo felice (ovvero, come detto prima, fecondo…) quando ci si incontra sempre e solo tra simili, quando non c’è rapporto autentico nel gruppo. Solo una comunità cristiana che si apra ad esperienze di prossimità reale finalmente può riscoprire il sapore del Vangelo. Altrimenti, rimangono solo discorsi e belle catechesi in astratto.
In conclusione: ci dobbiamo aprire ai poveri per trovare nuova linfa…
Anche nel nostro tempo non mancano le occasioni di prossimità con chi necessita di aiuto concreto e con chi è diverso da noi. Penso anche solo alla presenza di tanti ragazzi stranieri che si affacciano nei nostri oratori, provenienti da molte culture e religioni diverse. Il confronto e l’amicizia con chi ci è sconosciuto possono davvero far riemergere in noi le domande giuste anche per la nostra fede.
L’oratorio deve tornare ad essere un luogo attrattivo, non solo perché aggrega attraverso una buona animazione e organizzazione di eventi. I campetti sintetici di calcio si possono trovare ovunque. I nostri ragazzi hanno bisogno di incontrare persone, non tanto strutture. La felicità è un incontro con persone significative, con testimoni reali, con amici veri che si lasciano contagiare dalla gioia del Vangelo. Non bastano educatori per una sera o un’ora a settimana.
Dovremmo bandire gli orologi…
Occorre un’amicizia quasi quotidiana che si lascia plasmare da Gesù Cristo. Ai nostri ragazzi non occorre un bar ben fornito di caramelle di ogni specie (personalmente ci ho rimesso la salute…). Occorre la presenza di adulti e giovani impegnati, formati e capaci di sensibilizzare i più piccoli a progetti concreti di solidarietà e di amicizia con chi ha storie più sofferte di noi.
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