La tradizione spirituale e ascetica ha sempre riconosciuto l'essenzialità del silenzio per un'autentica vita spirituale e di preghiera. «La preghiera ha per padre il silenzio e per madre la solitudine» ha detto Girolamo Savonarola. Solo il silenzio, infatti, rende possibile l'ascolto...
del 01 gennaio 2002
La tradizione spirituale e ascetica ha sempre riconosciuto l’essenzialità del silenzio per un’autentica vita spirituale e di preghiera. «La preghiera ha per padre il silenzio e per madre la solitudine» ha detto Girolamo Savonarola. Solo il silenzio, infatti, rende possibile l’ascolto, cioè l’accoglienza in sé non solo della Parola, ma anche della presenza di Colui che parla. Così il silenzio apre il cristiano all’esperienza dell’inabitazione di Dio: il Dio che noi cerchiamo seguendo nella fede il Cristo risorto, è il Dio che non è esterno a noi, ma abita in noi. Dice Gesù nel quarto Vangelo: «Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui» (Giovanni 14,23). Il silenzio è linguaggio di amore, di profondità, di presenza all’altro. Del resto, nell’esperienza amorosa il silenzio è spesso linguaggio molto più eloquente, intenso e comunicativo di una parola. Purtroppo oggi il silenzio è raro, è la cosa che più manca all’uomo moderno assordato dai rumori, bombardato dai messaggi sonori e visivi, derubato della sua interiorità, quasi scalzato via da essa. E sempre «Quando diminuisce il prestigio del linguaggio aumenta quello del silenzio» (Susan Sontag). Anche la vita spirituale risente di tale carenza: le liturgie spesso sono verbose, appesantite da didascalie che volendo tutto spiegare, tutto dire, dimenticano che in Dio c’è un indicibile, un silenzio, un mistero che la liturgia deve riflettere. La crescente domanda di autentica vita spirituale resta poi troppo spesso disattesa da chiese locali impegnate piuttosto in molteplici attività assistenziali, sociali, caritative, ricreative o, al massimo, catechetiche. Non stupisce pertanto l’indirizzarsi di molti verso vie di spiritualità estranee al cristianesimo.
Dobbiamo confessarlo: abbiamo bisogno del silenzio! Ne abbiamo bisogno da un punto di vista prettamente antropologico, perché l’uomo, che è un essere di relazione, comunica in modo equilibrato e significativo soltanto grazie all’armonico rapporto fra parola e silenzio. Ma ne abbiamo bisogno anche dal punto di vista spirituale. Per il cristianesimo il silenzio è una dimensione non solamente antropologica, ma teologica: solo sul monte Oreb, il profeta Elia sentì prima un vento impetuoso, poi un terremoto, quindi un fuoco, e infine «la voce di un silenzio sottile» (I Re 19,12): come udì quest’ultima, Elia si coprì il volto con il mantello e si mise alla presenza di Dio. Dio si fa presente a Elia nel silenzio, un silenzio eloquente. La rivelazione del Dio biblico non passa solo attraverso la parola, ma avviene anche nel silenzio; Ignazio di Antiochia dirà che Cristo è «la Parola che procede dal silenzio». Il Dio che si rivela nel silenzio e nella parola esige dall’uomo l’ascolto, e all’ascolto è essenziale il silenzio. Certo, non si tratta semplicemente dell’astenersi dal parlare, ma del silenzio interiore, quella dimensione che ci restituisce a noi stessi, ci pone sul piano dell’essere, di fronte all’essenziale. «Nel silenzio è insito un meraviglioso potere di osservazione, di chiarificazione, di concentrazione sulle cose essenziali» (Dietrich Bonhoeffer). È dal silenzio che può nascere una parola acuta, penetrante, comunicativa, sensata, luminosa, perfino, oserei dire, terapeutica, capace di consolare.
Il silenzio è custode dell’interiorità. Certo, si tratta di un silenzio definito sì negativamente come sobrietà e disciplina nel parlare e perfino come astensione da parole, ma che da questo primo momento passa a una dimensione interiore: cioè al far tacere i pensieri, le immagini, le ribellioni, i giudizi, le mormorazioni che nascono nel cuore. Infatti è «dal di dentro, cioè dal cuore umano, che escono i pensieri malvagi» (Marco 7,2r). È il difficile silenzio interiore, quello che si gioca nel cuore, luogo della lotta spirituale. Ma proprio questo silenzio profondo genera la carità, l’attenzione all’altro, l’accoglienza dell’altro, l’empatia nei confronti dell’altro. Sì, il silenzio scava nel nostro profondo uno spazio per farvi abitare l’Altro, per farvi rimanere la sua Parola, per radicare in noi l’amore per il Signore; al tempo stesso, e in connessione con ciò, esso ci dispone all’ascolto intelligente, alla parola misurata, al discernimento del cuore dell’altro, di ciò che gli brucia nell’intimo e che è celato nel silenzio da cui nascono le sue parole. Il silenzio, allora, quel silenzio, suscita in noi la carità, l’amore del fratello. E così il doppio comando dell’amore di Dio e del prossimo è ottemperato da chi sa custodire il silenzio. Può dire Basilio: «Il silenzioso diventa fonte di grazia per chi ascolta». A quel punto si può ripetere, senza timore di cadere nella retorica, l’affermazione di E. Rostand: «Il silenzio è il canto più perfetto, la preghiera più alta». In quanto conduce all’ascolto di Dio e all’amore del fratello, alla carità autentica, cioè alla vita in Cristo (e non a un generico e sterile vuoto interiore), allora il silenzio è preghiera autenticamente cristiana e gradita a Dio. È questo il silenzio che proviene a noi da una lunga storia spirituale, è il silenzio cercato e praticato dagli esicasti per ottenere l’unificazione del cuore, è il silenzio della tradizione monastica finalizzato all’accoglienza in sé della Parola di Dio, è il silenzio della preghiera di adorazione della presenza di Dio, è il silenzio caro ai mistici di ogni tradizione religiosa, e ancor prima è il silenzio di cui è intriso il linguaggio poetico, è il silenzio che costituisce la materia stessa della musica, è il silenzio essenziale a ogni atto comunicativo. Il silenzio, evento di profondità e di unificazione, rende il corpo eloquente conducendoci ad abitare il nostro corpo, ad abitare la nostra vita interiore, guidandoci a quell’habitare secum così prezioso per la tradizione monastica. Il corpo abitato dal silenzio diviene rivelazione della persona.
Il cristianesimo contempla Gesù Cristo come Parola fatta carne, ma anche come Silenzio di Dio: i Vangeli mostrano un Gesù che, quanto più si inoltra nella passione, tace sempre più, entra nel silenzio, come agnello afono, come colui che, conoscendo la verità, sapendo l’indicibile fondo della realtà, non può né vuole tradire l’ineffabile con la parola, ma lo custodisce con il silenzio. Gesù che «non apre la sua bocca» mostra il silenzio come ciò che veramente è forte, fa del suo silenzio un atto, un’azione. E proprio per questo potrà fare anche della sua morte un atto, il gesto di un vivente. Affinché sia chiaro che, dietro a parola e silenzio, ciò che veramente è salvifico è l’amore che vivifica l’una e l’altro. E che altro è il Cristo crocifisso se non l’icona del silenzio, e del silenzio stesso di Dio? Sulla croce, dicono i Vangeli, da mezzogiorno fino alle tre del pomeriggio, ora della morte di Cristo, regnano buio e silenzio. Vi è totale silenzio di parole su Dio e di immagini di Dio, di concettualizzazioni di Dio e idee su Dio: con questo silenzio deve sempre misurarsi la teologia, ogni discorso su Dio, ogni rappresentazione di Dio, che sempre conoscono la tentazione di ridurre Dio a idolo, a manufatto, a oggetto manipolabile. Ma proprio quel silenzio al momento della croce riesce a dire l’indicibile: l’immagine del Dio invisibile va cercata nell’uomo appeso alla croce. Il silenzio della croce è il magistero a cui mai potrà smettere di attingere ogni parola teologica.
Enzo Bianchi
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