Sinodo: fede e carità

La fede ha un contenuto: Dio si comunica, ma questo Io di Dio si mostra realmente nella figura di Gesù ed è interpretato nella “confessione” che ci parla della sua concezione verginale della Nascita, della Passione, della Croce, della Risurrezione. “Confessio” è la prima colonna dell'evangelizzazione, mentre la seconda è la “caritas”.

Sinodo: fede e carità

da Teologo Borèl

 

“Desideriamo che questo Anno susciti in ogni credente l’aspirazione a confessare la fede in pienezza e con rinnovata convinzione, con fiducia e speranza” (Porta fidei, n.9) «Ora, questo nostro agire, che segue dall’iniziativa di Dio, lo troviamo descritto nella seconda strofa di questo Inno: “Os, lingua, mens, sensus, vigor, confessionem personent, flammescat igne caritas, accendit ardor proximos”. Qui abbiamo, in due righe, due sostantivi determinanti: “confessio” nelle prime righe, e “caritas” nelle seconde righe. “Confessio” e “caritas”, come i due modi in cui Dio ci coinvolge, ci fa agire con Lui, in Lui e per l’umanità, per la sua creatura: “confessio” e “caritas”. E sono aggiunti i verbi: nel primo caso “personent” e nel secondo “caritas” interpretato con la parola fuoco, ardore, accendere, fiammeggiare.

Vediamo il primo: “confessionem personent”. La fede ha un contenuto: Dio si comunica, ma questo Io di Dio si mostra realmente nella figura di Gesù ed è interpretato nella “confessione” che ci parla della sua concezione verginale della Nascita, della Passione, della Croce, della Risurrezione. Questo mostrarsi di Dio è tutto una Persona: Gesù come il Verbo, con un contenuto molto concreto che si esprime nella “confessio”. Quindi, il primo punto è che noi dobbiamo entrare in questa “confessione”, farci penetrare, così che “personent” – come dice l’Inno – in noi e tramite noi. Qui è importante osservare anche una piccola realtà filologica: “confessio” nel latino precristiano si direbbe non “confessio” ma “professio” (profiteor): questo è presentare positivamente una realtà. Invece la parola “confessio” alla situazione di un tribunale, in un processo dove uno apre la sua mente e confessa. In altre parole, questa parola “confessione”, che nel cristiano latino ha sostituito la parola “professio”, porta in sé l’elemento martirologio, l’elemento di testimoniare davanti a istanze nemiche alla fede, testimoniare anche in situazioni di passione e di pericolo di morte. Alla confessione cristiana appartiene essenzialmente la disponibilità a soffrire: questo mi sembra molto importante. Sempre nell’essenza della “confessio” del nostro Credo, è implicata anche la disponibilità alla passione, alla sofferenza, anzi, al dono della vita. E proprio questo garantisce la credibilità: la “confessio” non è qualunque cosa che si possa anche lasciar cadere; la “confessio” implica la disponibilità di dare la mia vita, di accettare la passione. Questo è proprio anche la verifica della “confessio”. Si vede che per noi la “confessio” non è una parola, è più che il dolore, è più che la morte. Per la “confessio” vale la pena soffrire, vale la pena di soffrire fino alla morte. Chi fa questa “confessio” di mostra così che veramente quanto confessa è più che la vita: è la vita stessa, il tesoro, la perla preziosa e infinita. Proprio nella dimensione martirologica della parola “confessio” appare la verità: si verifica solo per una realtà per cui vale la pena di soffrire, che è più forte anche della morte, e dimostra che è verità che tengo in mano, che sono più sicuro, che “porto” la mia vita perché trovo la vita in questa confessione.

Adesso vediamo dove dovrebbe penetrare questa “confessione”: “Os, lingua, mens, sensus, vigor”. Da san Paolo, Lettera ai Romani, sappiamo che la collocazione della “confessione” è nel cuore e nella bocca: deve stare nel profondo del cuore, ma deve essere anche pubblica; deve essere annunciata la fede portata nel cuore: non è mai solo una realtà nel cuore, ma tende ad essere comunicata, ad essere confessata realmente davanti agli occhi del mondo. Così dobbiamo imparare, da una parte, ad essere realmente – diciamo – penetrati nel cuore della “confessione”, così il nostro cuore è formato, e dal cuore trovare anche, insieme con la grande storia della Chiesa,la parola e il coraggio della parola, e la parola che indica il nostro presente, questa “confessione” che è sempre tuttavia una. “Mens”: la “confessione” non è solo cosa del cuore e della bocca, ma anche dell’intelligenza; deve essere pensata e così, come pensata e intelligentemente concepita, tocca l’altro e suppone sempre che il mio pensiero sia realmente collocato nella “confessione”. “Sensus”: non è una cosa puramente astratta e intellettuale, la “confessio” deve penetrare anche i sensi della nostra vita. San Bernardo di Chiaravalle ci ha detto che Dio, nella sua rivelazione, nella storia della salvezza, ha dato ai nostri sensi la possibilità di vedere, di toccare, di gustare la rivelazione. Dio non è più una cosa solo spirituale: è entrato nel mondo dei sensi e i nostri sensi devono essere pieni di questo gusto, di questa bellezza della Parola di Dio, che è realtà. “Vigor”: è la forza vitale del nostro essere e anche vigore giuridico di una realtà. Con tutta la nostra vitalità e forza, dobbiamo essere penetrati dalla “confessio”, che deve realmente “personare”; la melodia di Dio deve intonare il nostro essere nella sua totalità.

“Confessio” è la prima colonna – per così dire – dell’evangelizzazione e la seconda è la “caritas”. La “confessio” non è una cosa astratta, è “caritas”, è amore. Solo così è realmente il riflesso della verità divina, che come verità è inseparabilmente anche amore. Il testo descrive, con parola molto forti, questo amore. È ardore, è fiamma, accende gli altri. C’è una passione nostra che deve crescere dalla fede, che deve trasformarsi in fuoco della carità. Gesù ci ha detto: Sono venuto per gettare fuoco alla terra e come desidererei che fosse già acceso. Origene ci ha trasmesso una parola del Signore: “Chi è vicino a me è vicino al fuoco”. Il cristiano non deve essere tiepido. L’Apocalisse ci dice che questo è il più grande pericolo del cristiano: che non dica di no, ma un sì molto tiepido. Questa tiepidezza proprio discredita il cristianesimo. La fede deve divenire in noi fiamma dell’amore, fiamma che realmente accende il mio essere, diventa grande passione del mio essere, e così accende il prossimo. Questo è il modo di evangelizzazione: “Accendat ardor proximos”, che la verità diventi in me carità e la carità accenda come fuoco anche l’altro. Solo in questo accendere l’altro attraverso la fiamma della nostra carità, cresce realmente l’evangelizzazione, la presenza del Vangelo, che non è più solo parola, ma realtà vissuta.

San Luca ci racconta che nella Pentecoste, in questa fondazione della Chiesa da Dio lo Spirito Santo era fuoco che ha trasformato il mondo, ma fuoco in forma di lingua, cioè fuoco che è tuttavia anche ragionevole, che è spirito, che è anche comprensione; fuoco, che è unito al pensiero, alla “mens”. E proprio questo fuoco intelligente, questa “sobria ebrietas”, è caratteristico del cristianesimo. Sappiamo che il fuoco è all’inizio della cultura umana; il fuoco è luce, è calore, è forza di trasformazione. La cultura umana comincia nel momento in cui l’uomo ha il potere di creare il fuoco: con il fuoco può distruggere, ma con il fuoco può trasformare, rinnovare, rinnovare. Il fuoco di Dio è fuoco trasformante, fuoco di passione – certamente – che distrugge anche tanto in noi, che porta a Dio, ma fuoco soprattutto che trasforma, rinnova e crea una novità dell’uomo, che diventa luce in Dio.

Così, alla fine, possiamo solo pregare il Signore che la “confessio” sia in noi fondata profondamente e che diventi fuoco che accende gli altri; così il fuoco della sua presenza, la novità del suo essere con noi, diventa realmente visibile e forza del presente e del futuro» [Benedetto XVI, Meditazione nel corso della prima Congregazione Generale della XIII Assemblea Generale del Sinodo, 9 ottobre 2012].          

I nemici dell’evangelizzazione sono al di fuori della Chiesa, ma anche dentro al Chiesa, soprattutto nel post - Concilio che, come ha rilevato l’arcivescovo di Washington Donald William Wuerl nella sua relazione introduttiva, ci sono stati “due nemici dell’annuncio cristiano”:

-    esterno alla Chiesa la “secolarizzazione”, uno “tsunami – maris aestuantis impetus” ha detto citando in lingua latina – che ha scardinato tutto il paesaggio culturale, portando via indicatori sociali come il matrimonio, la famiglia, il concetto di bene comune e la distinzione fra bene e male”. Si tratta dell’attuale drammatica frattura tra fede e cultura che provoca non solo una scristianizzazione ma anche una desertificazione umana.

-    internamente “l’ermeneutica della discontinuità che ha permeato gran parte degli ambienti dei centri di istruzione superiore e che ha avuto anche riflessi in aberrazioni nella pratica della liturgia”. L’ermeneutica della discontinuità rischia di finire nel ridurre il Cristo a un personaggio del passato da imitare con un moralismo impossibile e senza l’entusiasmo dell’incontro con Lui vivo, presente nella Chiesa che suscita la fede, un nuovo orizzonte di vita e quindi in una rottura tra Chiesa preconciliare e Chiesa postconciliare. Essa asserisce che i testi del Concilio come tali non sarebbero ancora la vera espressione dello spirito del Concilio. Sarebbero il risultato di compromessi nei quali per raggiungere l’unanimità (Anche Lefebvre ha votato si a tutti i sedici documenti) nei quali per raggiungere l’unanimità, si è dovuto trascinarsi dietro e riconfermare molte cose vecchie ormai inutili. Non in questi compromessi, però si rivelerebbe il vero spirito del Concilio, ma invece negli slanci verso il nuovo che sono sottesi ai testi: solo essi rappresenterebbero il vero spirito del Concilio, e partendo da essi e con essi bisognerebbe andare avanti. Proprio perché i testi rispecchierebbero solo in modo imperfetto il vero spirito del Concilio e la sua novità, sarebbe necessario andare coraggiosamente al di là dei testi, e con concilio permanente facendo spazio alla novità nella quale si esprimerebbe l’intenzione più profonda, sebbene ancora indistinta, del Concilio considerato quasi una Costituente.

In una parola: occorrerebbe seguire non i testi del Concilio, ma il suo spirito. In tal modo ovviamente, rimane un vasto margine per la domanda su come allora si definisce questo spirito e, di conseguenza, si concederebbe spazio ad ogni estrosità. Di fronte a questo rischio lo straordinario Sinodo del 1985 ha chiesto un Catechismo per tutta la Chiesa uscito dopo vent’anni nel 1992. Paolo VI il 29 giugno del 1972 ha affermato che stando ai testi la Chiesa prorompe nell’inno di gioia per aver ricevuto in pienezza la coscienza di sé e che qualcosa di preternaturale, il fumo di satana, sarebbe venuto a turbare, a soffocare i frutti del Concilio. Pur silenziosamente ma sempre più visibilmente soprattutto attraverso il carisma di movimenti come Comunione e Liberazione e nuove comunità l’ermeneutica del rinnovamento nella continuità dell’unico soggetto Chiesa, che il Signore ci ha dato; è un soggetto che cresce nel tempo e si sviluppa, rimanendo però sempre lo stesso, unico soggetto del Popolo di Dio in cammino. “Se il magistero ordinario (che prepara, si esprime, realizza il Concilio) – Luigi Giussani, Perché la Chiesa, pp.68-69 – è la garanzia del declinarsi della comunità in quanto vive, lo strumento più grande della comunicazione del vero nella vita della Chiesa è la sua stessa continuità. Si chiama Tradizione. La Tradizione è la coscienza della comunità che vive ora, ricca della memoria di tutta la sua vicenda storica”. E citando De Lubac: “La Tradizione è sempre ricordata prima della Scrittura, per rispettare l’ordine cronologico, dal momento che, all’origine di tutto, c’è questa Tradizione che viene dagli Apostoli ed è all’interno di una comunità già costituita che i libri santi sono stati composti o ricevuti”.

Don Gino Oliosi

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