In questa prima parte della Proposta Pastorale, questo primo capitolo ci sintonizza con i cammini della Chiesa.
«Sceso dalla barca, egli vide una grande folla, ebbe compassione di loro, perché erano come pecore che non hanno pastore, e si mise a insegnare loro molte cose»
(Lc 4,18-19)
L’anno 2025 segna per la Famiglia Salesiana un anniversario di grande importanza: intorno alla metà di novembre del 1875 i primi missionari salesiani salpavano da Genova, accompagnati da don Bosco, per raggiungere la Patagonia. Sono passati 150 anni da quell’epico e avventuroso momento, e da allora migliaia di missionari e missionarie sono partiti per annunciare il Vangelo di Gesù in ogni parte del mondo.
Per noi tutti questo ricordo sarà un’occasione duplice. Anzitutto sarà un tempo privilegiato per riscoprire lo spirito missionario che è insito nel carisma salesiano. Fin dall’inizio della sua missione don Bosco è uscito per le strade di Torino per incontrare i giovani che rimanevano esclusi dai circuiti ecclesiali tradizionali. Erano i giovani più poveri, abbandonati e pericolanti, e per loro don Bosco è stato un autentico missionario. Poi, in secondo luogo, saremo chiamati a rinvigorire la passione missionaria, quella che ci spinge a lasciare la nostra terra per annunciare il Vangelo ai popoli che ancora non lo hanno conosciuto.
Ci dedichiamo qui maggiormente a riscoprire lo spirito missionario di don Bosco, lasciando alla proposta pastorale del prossimo anno l’attenzione specifica verso le prime spedizioni missionarie salesiane.
Gesù continua ad essere il primo e il più grande evangelizzatore. Effettivamente lo spirito salesiano trova il suo modello e la sua sorgente nel cuore stesso di Cristo, apostolo del Padre. Senza di lui, davvero, non possiamo fare nulla e, viceversa, con lui non c’è nulla che non possiamo fare.
Il Signore Gesù è venuto perché tutti abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza (cfr. Gv 10,10). Per questo egli non ha avuto paura di incontrare giovani che vivevano in situazione di degrado e di morte, per ridare loro vita, gioia e speranza. “Incontrando” il figlio unico di una madre vedova durante il rito funebre accade qualcosa di straordinario, che lo porta a relazionarsi con questa donna disperata: «Vedendola, il Signore ne ebbe compassione e le disse: “Non piangere!”» (Lc 7,13). Egli davvero patisce insieme a questa madre, entra in quella situazione e la fa propria. Agisce con misericordia perché ha un cuore vero, vivo e profondo. Ascolta empaticamente la situazione, vi entra con tutto se stesso.
Passando a un altro incontro, notiamo come l’episodio dell’epilettico indemoniato ci aiuta a riconoscere quanto la potenza di Gesù sia davvero generativa, ovvero al servizio della vita piena di ogni giovane:
Quando Gesù incontrava i giovani, in qualsiasi stato e condizione si trovassero, persino se erano morti, in un modo o nell’altro diceva loro: “Alzati! Cresci!”. E la sua parola realizzava quello che diceva (cfr. Mc 5,41; Lc 7,14). Nell’episodio della guarigione dell’epilettico indemoniato (cfr. Mc 9,14-29), che evoca tante forme di alienazione dei giovani di oggi, appare chiaro che la stretta della mano di Gesù non è per togliere la libertà ma per attivarla, per liberarla. Gesù esercita pienamente la sua autorità: non vuole altro che il crescere del giovane, senza alcuna possessività, manipolazione e seduzione (SINODO SUI GIOVANI, Documento finale, n. 71).
Ancora, nell’incontro con il “giovane ricco” (cfr. Mt 19,16-22; Mc 10,17-22) emerge prima di tutto l’amore di Gesù per i giovani: «Gesù, fissatolo, lo amò» (Mc 10,21). Un amore che spiazza e stupisce, indicando la via dell’amicizia come via regale di un Vangelo che non ci vuole servi, ma amici, collaboratori e corresponsabili (cfr. Gv 15,15). La “pastorale giovanile” di Gesù è immediatamente pensata e attuata in chiave vocazionale e orientata al dono totale di sé: al giovane ricco Gesù propone di passare dalla logica dell’avere a quella dell’essere; dalla logica chiusa e comoda del progetto a quella aperta e rischiosa della vocazione; dalla logica del trattenere per sé a quella del donare con generosità.
Possiamo dire che il Signore desidera camminare insieme con tutti i giovani, nessuno escluso. Come nell’episodio dei discepoli di Emmaus (Lc 24,13-35), egli si mette accanto ad ogni giovane per fare strada con lui e accompagnarlo verso una vita piena e abbondante.
Gesù incarna in pienezza la passione del Padre suo per gli uomini. Lo vediamo bene quando si accorge che essi sono come pecore senza pastore, da radunare perché figli dispersi, confusi e senza punti di riferimento; da sfamare nel corpo, e soprattutto bisognosi di un pane di vita che porti a compimento la loro fame di infinito:
34Sceso dalla barca, egli vide una grande folla, ebbe compassione di loro, perché erano come pecore che non hanno pastore, e si mise a insegnare loro molte cose. 35Essendosi ormai fatto tardi, gli si avvicinarono i suoi discepoli dicendo: “Il luogo è deserto ed è ormai tardi; 36congedali, in modo che, andando per le campagne e i villaggi dei dintorni, possano comprarsi da mangiare”. 37Ma egli rispose loro: “Voi stessi date loro da mangiare”. Gli dissero: “Dobbiamo andare a comprare duecento denari di pane e dare loro da mangiare?”. 38Ma egli disse loro: “Quanti pani avete? Andate a vedere”. Si informarono e dissero: “Cinque, e due pesci”. 39E ordinò loro di farli sedere tutti, a gruppi, sull’erba verde. 40E sedettero, a gruppi di cento e di cinquanta. 41Prese i cinque pani e i due pesci, alzò gli occhi al cielo, recitò la benedizione, spezzò i pani e li dava ai suoi discepoli perché li distribuissero a loro; e divise i due pesci fra tutti. 42Tutti mangiarono a sazietà, 43e dei pezzi di pane portarono via dodici ceste piene e quanto restava dei pesci. 44Quelli che avevano mangiato i pani erano cinquemila uomini (Mc 6,34-44).
Ecco la passione missionaria di Gesù: uno che sa intravedere con sguardo profondo le necessità pratiche e i desideri spirituali di ogni uomo, che sa abbandonare la sua zona di comfort e va con coraggio incontro a tutti, specialmente verso coloro che sono particolarmente disagiati nel corpo e nello spirito.
Di fronte al presunto scandalo che egli dà sedendo a tavola con pubblicani e peccatori, risponde mostrando loro qual è il vero volto del Dio che lo ha inviato con un compito ben preciso: «Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati. Andate a imparare che cosa vuol dire: Misericordia io voglio e non sacrifici. Io non sono venuto infatti a chiamare i giusti, ma i peccatori» (Mt 9,12-13).
Don Bosco partecipa dell’empatia, della compassione e della commozione di Gesù. Le fa sua in forma originale rispondendo con il medesimo amore del Signore alle povertà giovanili del suo tempo.
Egli pensa e agisce come un “missionario dei giovani”. L’oratorio che immagina, e che piano piano prende corpo negli anni iniziali del suo ministero, sarà una “parrocchia” per coloro che non hanno parrocchia e una “famiglia” per chi non ha più famiglia. Pur riscontrando delle analogie, l’oratorio salesiano sarà diverso rispetto al modello “carismatico” di san Filippo Neri e a quello “istituzionale” di san Carlo Borromeo. Quello di don Bosco è fin dall’inizio un oratorio missionario, accogliente, aperto e in uscita.
Per comprendere tutto ciò ritorniamo alle fonti, andando a rivedere le ragioni profonde delle scelte vocazionali di don Bosco. Un primo momento decisivo lo possiamo individuare nella guida sapiente di don Cafasso e nell’incontro con i giovani carcerati. Dopo l’ordinazione sacerdotale don Bosco non si è buttato a capofitto nell’attività pastorale, ma ha frequentato per ben tre anni il convitto ecclesiastico (1841-1844). Anni di approfondimento della teologia morale nell’attività accademica, tempo di esperienze pastorali mirate e pensate per gli studenti, anni di vicinanza a figure spirituali di imponente statura.
Don Bosco dirà, ricordando quella bella esperienza che gli ha forgiato il cuore pastorale, che mentre nei seminari si studia il dogma e la speculazione, al convitto “si impara ad essere preti”. Don Bosco qui completò il regolare programma biennale di studi e poi, sotto il sapiente consiglio di don Cafasso, si fermò per un terzo anno. In questi anni, secondo le Memorie dell’oratorio, incominciano le prime esperienze oratoriane di don Bosco, i suoi primi “esperimenti pastorali” che pian pano matureranno fino a diventare una scuola di santità per i giovani e per gli educatori.
La prima cosa che emerge dal racconto è che, come sempre, don Bosco non agisce in solitudine né di testa sua, ma fa riferimento costante ad una guida: «Don Cafasso, che da sei anni era mia guida, fu eziandio mio direttore spirituale, e se ho fatto qualche cosa di bene lo debbo a questo degno ecclesiastico nelle cui mani riposi ogni mia deliberazione, ogni studio, ogni azione della mia vita». Egli segue il suo maestro, vivendo con fiducia le esperienze che questo uomo santo gli fa vivere. Sono esperienze pastorali in uscita, tra cui si distingue quella particolarmente drammatica delle carceri:
Per prima cosa egli prese a condurmi nelle carceri, dove imparai tosto a conoscere quanto sia grande la malizia e la miseria degli uomini. Vedere turbe di giovanetti, sull’età dei 12 ai 18 anni; tutti sani, robusti, d’ingegno svegliato; ma vederli là inoperosi, rosicchiati dagli insetti, stentar di pane spirituale e temporale, fu cosa che mi fece inorridire. L’obbrobrio della patria, il disonore delle famiglie, l’infamia di se stesso erano personificati in quegli infelici. Ma quale non fu la mia meraviglia e sorpresa quando mi accorsi che molti di loro uscivano con fermo proposito di vita migliore ed intanto erano in breve ricondotti al luogo di punizione, da cui erano da pochi giorni usciti (Memorie dell’oratorio, Seconda decade, 11).
Vede la malizia e la miseria degli uomini, si stupisce davanti alla sanità e all’ingegno di questi giovani, inorridisce nel vederli inoperosi e rosicchiati dagli insetti. Si commuove per l’infelicità di quei ragazzi, che erano proprio come pecore senza pastore, senza nessuno in grado di radunare questo gregge disperso. E studia la questione, si accorge che c’erano buoni propositi in loro, ma non erano accompagnati da alcuno fuori dal carcere. E pensa, e prega. Non improvvisa soluzioni frettolose, ma si mette in autentico discernimento.
È qui che si vede come il convitto ecclesiastico non fosse solo luogo di esperienza pastorale, ma anche di discernimento pastorale e vocazionale sulla realtà incontrata. Don Bosco cerca con pazienza e trova con intelligenza le ragioni del fallimento e anche una possibile soluzione:
Fu in quelle occasioni che mi accorsi come parecchi erano ricondotti in quel sito perché abbandonati a se stessi. “Chi sa, diceva tra me, se questi giovanetti avessero fuori un amico, che si prendesse cura di loro, li assistesse e li istruisse nella religione nei giorni festivi, chi sa che non possano tenersi lontani dalla rovina o almeno diminuire il numero di coloro, che ritornano in carcere?”. Comunicai questo pensiero a don Cafasso, e col suo consiglio e co’ suoi lumi mi sono messo a studiar il modo di effettuarlo abbandonandone il frutto alla grazia del Signore senza cui sono vani tutti gli sforzi degli uomini (Memorie dell’oratorio, Seconda decade, 11).
Il giovane sacerdote piemontese trova alcune vie pastorali percorribili, si confronta con la sua guida spirituale e segue i suoi consigli, mettendosi a studiare e ponendo il suo impegno nelle mani di Dio, che solo può rendere feconda ogni azione umana. Così è stata generata la prima idea di “oratorio salesiano” nel cuore di don Bosco: un’esperienza educativa inedita, in uscita rispetto alle istituzioni ecclesiali del suo tempo. Missionaria nel senso più autentico del termine.
Arriviamo alla scelta irrevocabile di don Bosco: quella di essere missionario per i giovani. È bello riprendere a questo proposito il dialogo drammatico e risolutivo tra il giovane don Bosco e la marchesa di Barolo, al cui servizio egli si trovava nei primi anni del suo ministero. In quel momento emergono definitivamente le intenzioni del giovane prete torinese, che decide una volta per sempre di essere solo per i suoi ragazzi.
Questa santa donna è sinceramente in ansia per la salute di don Bosco, tanto da sentirsi in dovere di spingerlo ad una scelta precisa, perché «non è possibile che possa continuare la direzione delle mie opere e quella dei ragazzi abbandonati, tanto più presentemente, che il loro numero è cresciuto fuori misura». La proposta della marchesa è abbastanza chiara: chiede a don Bosco di «sospendere ogni sollecitudine pei fanciulli». La preoccupazione della marchesa è sincera, materna e delicata, oltre che decisa, quando afferma:
Io non posso più tollerare che ella si ammazzi. Tante e così svariate occupazioni da volere o non volere tornano a detrimento della sua sanità e dei miei istituti. E poi, le voci che corrono intorno alla sua sanità mentale; l’opposizione delle autorità locali mi costringono a consigliarla […] o a lasciare l’Opera dei ragazzi, o l’Opera del Rifugio. Ci pensi e mi risponderà (Memorie dell’oratorio, Seconda decade, 22).
Tutte le ragioni sono contro don Bosco: la sua salute, la mancanza di mezzi, le voci sulla sua presunta pazzia, la carenza di collaboratori, l’opposizione delle autorità. Ma il Vangelo, lo sappiamo, nei momenti decisivi non è ragionevole, ma è amorevole! Don Bosco, in realtà, ci aveva già pregato e pensato, e la sua risposta è limpida come l’acqua e dura come un diamante:
La mia risposta è già pensata. Ella ha danaro e con facilità troverà preti quanti ne vuole pe’ suoi istituti. Dei poveri fanciulli non è così. In questo momento se io mi ritiro, ogni cosa va in fumo, perciò io continuerò a fare parimenti quello che posso pel Rifugio, cesserò dall’impiego regolare e mi darò di proposito alla cura dei fanciulli abbandonati (Memorie dell’oratorio, Seconda decade, 22).
La motivazione vocazionale è dettata dall’amore per i giovani: se don Bosco non si occuperà di quei poveri fanciulli nessun altro lo farà al suo posto. Questo dice l’unicità e l’insostituibilità di una chiamata che viene da Dio. Essa ha bisogno di essere onorata in prima persona singolare e in prima persona plurale, perché ogni autentica vocazione diverrà sempre e comunque una convocazione per molti.
La motivazione vocazionale di don Bosco è inequivocabile: se lui non si prende questo impegno – che nella preghiera ha riconosciuto come richiesta di Dio per la sua vita – i giovani saranno davvero abbandonati a loro stessi. Questa è la sua vocazione, e di nessun altro. Questa è la sua chiamata singolare e irripetibile, che egli ha il dovere di accogliere fino in fondo, costi quel che costi. Egli sarà chiamato, sempre e in ogni occasione, ad essere un missionario per i giovani!
Tutto il resto del dialogo è una conseguenza logica di questa posizione vocazionale irrevocabile e irremovibile. Don Bosco avrà – come ben profetizza la marchesa di Barolo – problemi di sopravvivenza materiale, avrà la salute rovinata, sarà pieno di debiti, avrà difficoltà con le autorità sia civili che ecclesiastiche, e così via. A nulla valgono le diverse parole di questa donna che, a un certo punto, riconosciuto il valore di don Bosco, lo apostrofa dicendo: «Non le darò mai un soldo pei suoi ragazzi». E poi invece rilancia, se starà con lei: «Io le continuerò lo stipendio, e l’aumenterò se vuole».
Niente da fare. Don Bosco non ha altro da dire, se non ripetere ciò che ha già detto: «Ci ho già pensato, signora marchesa. La mia vita è consacrata al bene della gioventù. La ringrazio delle profferte che mi fa, ma non posso allontanarmi dalla via che la divina Provvidenza mi ha tracciato». L’esito è un licenziamento in tronco: «Dunque preferisce i suoi vagabondi ai miei istituti? Se è così, resta congedato in questo momento». Dopo un breve dialogo, arrivano a deliberare di chiudere il tutto in tre mesi: «Accettai il diffidamento, abbandonandomi a quello che Dio avrebbe disposto di me».
E poi l’episodio si conclude, logicamente, con don Bosco ritenuto pazzo: rinuncia ad una vita agiata e sicura per mettersi in strada insieme ai suoi ragazzi! D’altra parte essere missionario comporta la necessità di uscire per le strade del mondo, e anche di rimanere in strada. Don Bosco vive la situazione originaria della fede, che è quella di una radicale sottrazione di sicurezza che invita a confidare in Dio solo.
Qui abbiamo un don Bosco che sceglie, similmente ai due discepoli di Emmaus, di stare dalla parte del Signore, di rischiare e di osare di tener fede alla vocazione ricevuta dalle mani del Signore Gesù, che ha agito attraverso la mediazione di Maria fin dal sogno dei nove anni. Come quei due misteriosi viandanti, anche don Bosco entra nella notte per restare dalla parte del Signore e dei giovani poveri e abbandonati. Notte che, sappiamo bene, si manifesterà nella sua vita in molti modi: incomprensioni dentro e fuori dalla Chiesa, fatiche fisiche e difficoltà economiche, abbandoni e fraintendimenti, e tanto altro ancora.
Ma nulla ha mai potuto veramente distogliere don Bosco dalla sua missione: «Ho promesso a Dio che fin l’ultimo mio respiro sarebbe stato per i miei poveri giovani». Questo ha vissuto don Bosco. È quello che dovrebbe accadere sempre di nuovo in ogni nostra realtà salesiana. È ciò che va di nuovo promesso a Dio con rinnovato entusiasmo, riscoprendo lo spirito “missionario” che caratterizza la nostra grande famiglia apostolica. È un uscire fuori dalle proprie comfort zone per andare verso i giovani più poveri e abbandonati, rischiando la propria vita per la loro salvezza.
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