Squid Game non è solo violenza gratuita e interpella gli adulti a una risposta sul male, sul sacrificio, sull'indifferenza un po' più profonda del: "Non devi guardarlo!".
C’è ancora qualcosa da dire su Squid Game? A quanto pare è stato detto fin troppo. E’ la serie coreana che su Netflix ha fatto un botto di ascolti stratosferico, un caso mondiale e una tendenza che si sintetizza nel “i ragazzi sono impazziti per questa storia violentissima dove i giochi dell’infanzia diventano massacri violenti senza censura”.
Stanno davvero così le cose? In parte. Ormai il punto non è più vederla o non vederla. Il punto è che i buoi sono scappati dal recinto e ragazzi fin troppo piccoli si sono confrontati con un contenuto che non hanno la struttura emotiva per decifrare. Chi dà la colpa a Netflix si nasconde dietro il facile paravento di puntare il dito contro la medicina velenosa lasciata sul tavolo alla portata del bambino piccolo.
Il punto dolente è un mondo di adulti che latita dal suo ruolo di guardia e di educazione nei confronti dei propri ragazzi. E poi schiva la responsabilità di rendere ragioni adeguate. Infatti, ora che i buoi sono scappati, non c’è toppa peggiore della voce seria che dice dall’alto: “Quella serie è pessima, perché dicono tutti che c’è del sangue ed è orribile”. Da madre mi sono sporcata le mani, l’ho guardata insieme ai miei figli grandi perché mi sono accorta che non dovevo loro un veto astratto, ma il bene di una compagnia nel giudizio.
Ne è nata una esperienza familiare preziosa.
Sarebbe molto bello se esistessero sceneggiatori con un centesimo del genio di Tolkien e fossimo riempiti di storie credibili nel bene. Saremmo tutti d’accordo e io metterei un punto qui alle mie parole. Possiamo lamentarci, voltare le spalle alla svelta da ciò che ci repelle senza confrontarci direttamente col contenuto, oppure possiamo infangarci.
A me pare che molti adulti si siano infangati poco con Squid Game, ma abbiano solo rimbalzato i toni scandalistici dei giornali, un sentito dire che ha solo accresciuto l’aura truce e perciò morbosamente accattivante attorno a questa serie.
Facciamo un gioco, allora ( …visto che il tema della fiction è questo). Chi è la ragazza che ho messo in copertina? Se sai rispondere hai visto davvero Squid Game e, forse, concorderesti con me nel dire che vale la pena infangarsi per tirare fuori dal pantano un personaggio così commovente e vulnerabile.
Premesse dovute. Squid Game è così violento? Sì. La violenza gratuita è il messaggio della serie? L’opposto. Non è adatto a essere guardato da adolescenti senza la presenza dei genitori. Ma è così pericoloso il rischio di emulazione di certi giochi? Il rischio maggiore è il contraccolpo emotivo che può nascere dal confrontarsi con le storie umane terribilmente drammatiche. Non è il sangue che fa male in Squid Game, ma l’ipotesi concreta di un mondo senza misericordia.
Ed è esattamente questo il sottile crinale su cui una nerboruta voce morale può dare ragione del cielo che si vede sopra la testa e non del burrone che sta sotto i piedi. Mi spiego. Chesterton disse in Cosa c’è di sbagliato nel mondoche i delitti peggiori oggi vengono commessi in stanze pulite in cui non c’è traccia di sangue. Se cito i nome di Charlie Grad e Alfie Evans c’intendiamo subito.
Il nostro campo da gioco reale è molto meno insanguinato di quello di Squid Game, ma proprio per questo è più violento. Ed è crudele al punto di perpetrare nefandezze indicibili in una cornice costruita così bene da avere mille bollini verdi ed essere mandata in onda in fascia protetta. In queste stanze pulite l’umanità è stata addormentata al punto da aver abbracciato la fuffa del “andrà tutto bene” mentre sfilavano interminabili cortei di camion pieni di cadaveri. Era il tempo del “ho paura” senza aggettivi.
Nell’impalcatura fragile e finta di queste stanze pulitissime ci muoviamo allegramente coi nostri “l’amore è l’amore”, “lo facciamo per pietà”, “è per il suo maggiore interesse”, “se non posso amarlo davvero, non lo metto al mondo” e pestiamo anime, uccidiamo e seminiamo disperazione senza traccia di sangue. Sovrappensiero, persino accarezzati da un senso di zuccheroso altruismo.
E’ più crudele lasciare sola un’adolescente in un bagno con una pastiglia in mano avendole detto che è libera, piuttosto che vedere una scena splatter in cui gli uomini vengono uccisi a raffica mentre giocano a un, due, tre, stella. Nel secondo caso è chiaro che ci sono delle vittime, e lo spettatore le riconosce.
Solo ed esclusivamente rispetto a questo orizzonte del discorso, io sono tra coloro che dà il benvenuto a qualunque stanza sporca faccia capolino in questo mondo impegnato a ripulire ogni traccia di dramma per poter perpetrare violenze in silenzio. Nelle stanze sporche di Squid Game non tiene nessuno dei moralismi e dei perbenismi che ci iniettano quotidianamente, e casca l’asino.
Un adulto si trova di fronte all’evidenza che se vuole difendere gli spunti luminosi che ci sono – bellissimi! – dentro le molte carneficine, deve tirare fuori dal cassetto un’ipotesi di bene radicata in un’esperienza, non uno slogan. E qui casca l’asino.
Prima ho detto di una nerboruta voce morale. Ecco, sì. Il cristiano che – proprio in moltissime serie Netflix – è additato come una figura patetica da deridere, può entrare nel campo da gioco di Squid Game tenendo la spina dorsale dritta e osare una voce chiara.
Chi ha visto La passione di Mel Gibson sa che anche il Calvario fu un gioco al massacro e nessuna crudeltà fu risparmiata al Dio fatto uomo. La Croce del bene non fu piantata in un campo di fiori. E, personalmente, ogni tanto mi chiedo cosa videro Maria e Giovanni in quelle 6 ore di puro patimento crocifisso. Agonia insaguinata e cinismo truce dei carnefici. Grida e carni massacrate esposte senza veli. Bollino rosso? Certamente. Fu sul Calvario che l’alternitiva al homo homini lupus ebbe la risposta in un volto e non in una teoria.
La micidialità di certe storie attuali molto soft e ammiccanti (cronache, programmi TV, libri, film) è proprio il subdolo tentativo che di indurci a pensare che la drammaticità della vita può essere arginata con un bene fatto di arcobaleni teorici, che non ha patito la graticola del sacrificio.
Invece è solo la voce non spezzata e uscita dal Calvario che implora inconsapevolmente chi guarda Squid Game. Dimmi perché la vita non si riduce alla dura legge della sopravvivenza (puntata: Inferno). Dimmi perché mi commuove che in mezzo alla crudeltà ci sia chi è capace di sacrificio (puntata: Gangbu). Come si può perdonare anche un amico cattivo (puntata: Un giorno fortunato).
Nelle stanze pulite ci hanno abituato a mettere in letargo queste domande. L’oppio dei popoli lo fumiamo ogni istante.
Questa è la parte dove metto sul tavolo una proposta. Penso che una famiglia possa proporre la visione condivisa di Squid Game ai suoi figli, dai 15 anni in su. In casa mia lo ha visto anche il figlio che fa le medie perché era ossessionato dai discorsi dei suoi compagni e noi genitori ci siamo presi il tempo e la responsabilità di guardare e parlare a lungo durante e dopo ogni puntata. Penso che un insegnante possa proporre, diciamo nel triennio delle superiori, un percorso mirato per rendere questa serie occasione di confronto su tanti temi (solitudine VS compagnia; violenza VS sacrificio; gioco VS realtà; soldi VS valore).
Le puntate che contengono gli spunti più profondi sono a mio avviso 3: Inferno – Gganbu – Un giorno fortunato. Elenco qui sotto alcuni squarci di riflessione che nella nostra famiglia abbiamo aperto.
I protagonisti di Squid game sono centinaia di persone disperate che accettano di essere parte di una serie di giochi al massacro la cui promessa finale è quella di guadagnare abbastanza per pagare i propri debiti.
Il debito enorme che pesa su ciascuno li rende disposti a tutto. Il massimo che il mondo di chi ha i mezzi mette loro a disposizione è un gioco mortale per riscattarsi. Non offre solidarietà, ma li sfrutta ancora di più. Il debito è una colpa da espiare senza appoggiarsi all’aiuto di nessuno. Non è poi così lontana dal vero questa mercificazione degli scarti. Vogliamo parlare di quante donne sole, senza mezzi sono morte per dare pance surrogate ai ricchi?
Alcune domande per attraversare la visione delle puntate. Chi si dimostra più umano in questa cornice disumana? Perché l’ipotesi di essere squadranasce solo tra i giocatori destinati a morire mentre chi regge il gioco al massacro resta isolato dietro una maschera?
Ai giocatori viene assegnato un numero da cui sono identificati. E’ una chiara strategia di disumanizzazione. Anche le guardie che controllano i giocatori sono identificate solo da simboli che indossano sopra le maschere.
Alcune domande per attraversare la visione delle puntate. Perché il male ha bisogno di nascordersi dietro l’anonimato delle maschere? Come mai ad un certo punto alcuni giocatori sentono la necessità di chiamarsi per nome? Perché questa vulnerabilità del nome – ti dico chi sono – diventa un punto di forza capace di disinnescare alcune logiche del male disumano?
Se dovessi ridurre tutto Squid Game a una puntata, sceglierei Gganbu. Terribile e bellissima. Mi concedo uno spoiler. I giocatori sono sottoposti a una sfida in coppia. Ciascuno ha scelto un compagno di gioco, ignaro che lo scopo del gioco sarebbe stato quello di batterlo e quindi destinarlo alla morte. In molti scelgono di stare in coppia con un amico.
La trama diventa quella di sconfiggerel’altro per sopravvivere, giocando a biglie. In questo sfondo di estrema crudeltà, in cui non ci sono paracaduti di sicurezza, ogni sfumatura umana emerge. C’è il cinico che riesce a tradire l’amico senza pietà. Ma c’è il buono che pure inganna a malincuore l’amico per sopravvivere.
Noi siamo capaci di cattiveria. Come stiamo di fronte ai nostri tradimenti?
E poi c’è la giovanissima Jiyeong che gioca in coppia con l’altra giovanissima Saebyok. Sono entrambe ragazze dal cuore algido, diffidenti, ciniche fino al midollo. Potrebbero essere l’apoteosi della cattiveria. Sono la luce che deflagra in questa puntata. Hanno l’età di quei ragazzi che ora guardano questa serie pieni solo della morbosità suscitata dal clamore.
Nella vita fuori dal gioco la giovane Jiyeong ha ucciso suo padre accoltellandolo, dopo averlo visto ubriaco accoltellare sua madre. In un cuore così dilaniato dovrebbe crescere solo odio. Anche Saebyok ha visto morire i propri genitori e ha sulle spalle un dolore degenerato nel gelo di una maschera di anaffettività.
Queste due vulnerabilità collidono, s’incontrano e sono capaci di un miracolo. Una perde per salvare l’altra. Non le salva solo la vita, le toglie il gelo del cinismo dal cuore. Ed è su questo squarcio che io punterei tutto. Dimmi perché un’anima che è solo stata tradita dalla vita è capace di sacrificarsi per un’altra.
E, soprattutto, dimmi – arrivato in fondo alla serie – se non implori che il bene abbia un volto, scuota la coltre dell’indifferenza, ci raccolga dai marciapiedi e abbia pietà di tutti i nostri debiti.
tratto da aleteia.org
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