Stefano Sandor - Biografia (parte V)

Biografia di Stefano Sandor, Salesiano coadiutore e martire della fede, proclamato beato a Budapest il 19 ottobre 2013.

Stefano Sandor - Biografia (parte V)

 

Nel carcere militare di Fo Utca

 

Ancora oggi, chi visita la capitale ungherese, nella zona di Buda, percorrendo la Via Principale (questo significa “Fo Utca”) rimane impressionato dalla tetra imponenza dell'edificio del Tribunale Militare, tutto in pietra scura, i cui piani superiori ospitavano il carcere militare. La cella n. 32 del Reparto “Alto Tradimento” vide la presenza del nostro Istvàn dall'imprigionamento fino alla sera dell'8 giugno 1953.

Di questi dieci mesi e più abbiamo qualche notizia da compagni di cella che sopravvissero. Ecco una testimonianza: “Durante le settimane trascorse nella cella comune, facevamo di tutto per poter vivere una vita il più possibile spirituale, nel senso più nobile della parola […] Pregavamo insieme e recitavamo il Rosario di nascosto, perché anche tra i compagni di cella vi era un certo controllo interno. Ogni cella aveva un suo “comandante” responsabile che doveva osservare e denunciare ogni irregolarità, che poi non rimaneva impunita. (Il regime infiltrava apposta qualche elemento che, fingendosi incarcerato, cercava di raccogliere confidenze dai detenuti). Il nostro amico Istvàn cercava di dare forza ai compagni per mezzo di preghiere di consolazione e pensieri spirituali”. Malgrado fosse consapevole del suo destino tragico, egli era apportatore di serenità agli altri carcerati.

Un sacerdote (Jòzsef Szabò), compagno di prigionia, afferma: “Si sapeva che Istvàn era disposto al martirio. Era consapevole che dal luogo in cui si trovava l'unica via di uscita era quella che portava al patibolo. Era comprensibile che, come ogni persona, anch'egli fosse attaccato alla vita e nutrisse la speranza della sopravvivenza, ma non diede nessun segno di voler scendere a compromessi. A me, suo padre spirituale, durante le nostre conversazioni in cella, disse in confidenza e con la massima sincerità di non aver partecipato ad alcun complotto politico. Non ho mai avvertito un interesse politico da parte sua. […] Ricordo che in cella eravamo più di cinquanta. Non era possibile parlare liberamente fra di noi; ognuno faceva parte di un determinato gruppo in cui vi erano delle spie. Essendo in una situazione disperata, tutti noi eravamo sottoposti a condanne gravi. La pena più lieve consisteva in una reclusione di 15 anni, ma numerose erano le condanne all'ergastolo, o le sentenze capitali. In questa situazione la gente era molto aperta ad accogliere pensieri spirituali sotto forma di prediche improvvisate. Parlavo delle verità eterne davanti al gruppo e anche Istvàn Sàndor agiva similmente... Si pregava il Rosario completo con l'aiuto delle dita. Vedevamo quanto conforto desse la preghiera ai condannati a morte. Istvàn mi chiese spesso di andare dai nostri compagni di prigione per confessarli e dare l'assoluzione.[...] I condannati a morte cercavano conforto spirituale presso di lui”.

Un suo ex-compagno di scuola, Mihàly Szantò, alto funzionario del Partito, tentò di convincere Istvàn a collaborare con loro. Conoscevano, infatti, le sue abilità e soprattutto l'influsso che esercitava sui giovani. Ma egli non cedette mai. I compagni di cella sopravvissuti erano unanimi: anche dopo la sua condanna a morte confortava i compagni di cella. In momenti di dura fame condivideva il suo cibo – già così scarso – con i compagni di cella.

 

8 giugno 1953: la testimonianza suprema

 

Dopo la comunicazione ufficiale della sentenza capitale al condannato, questi fu trasferito dalla cella 32 al piano superiore del carcere militare, alla cella dei condannati a morte in attesa dell'esecuzione. Un compagno di cella sopravvissuto, cinquant'anni dopo, confessava di avere ancora impressa nella memoria la triste scena per cui le guardie carcerarie passarono nella cella 32 a ritirare i suoi oggetti personali: uno spazzolino da denti, un pettine e un asciugamano. Per i prigionieri era questo il segno che l'interessato era stato trasferito nella cella di coloro che sarebbero passati direttamente all'esecuzione capitale.

I superstiti affermano che non si poteva sapere con precisione dove avvenivano le esecuzioni. In genere, almeno fino al 1953, venivano eseguite nel cortile del carcere stesso. Per coprire le grida dei condannati si usava portare al massimo il volume di rumore prodotto dallo scappamento del motore del camion usato come palco. Quando dalle celle si udiva tale sinistro fracasso, si intuiva che si stavano eseguendo condanne, sopratutto per impiccagione. Il nostro Istvàn fu impiccato per secondo, come risulta dai verbali.

Il cadavere, insieme a quello degli altri giustiziati, fu poi portato con un camion al cimitero del carcere giudiziario della cittadina di Vàc, dove vennero seppelliti tutti insieme in una fossa comune, senza segni di identificazione. Nonostante parecchie ricerche da parte della famiglia e dei Salesiani, a tuttora non si è riusciti a localizzare con certezza il luogo della sepoltura. D'altra parte, i cadaveri riesumati in seguito, dopo la caduta del regime, presentavano una quantità tale di segni di tortura che ne rendevano difficilissima l'identificazione. Ma chi ha il dono della fede sa che anche il corpo martoriato di Istvàn è in attesa del giorno glorioso della risurrezione.

 

Fama di martirio

 

Nel 1989 cadeva il “Muro di Berlino” e veniva abbattuta la “Cortina di ferro”.

Nel 1990 si tennero libere elezioni politiche in Ungheria e il nuovo Parlamento approvò la legge sulla libertà di coscienza e la libertà religiosa. Pian piano cominciarono a ricostituirsi le comunità religiose abolite nel 1950. Anche i pochi Salesiani rimasti iniziarono a costituire alcune comunità nei pochi locali restituiti dal Governo.

Bisognò attendere alcuni anni perché i figli di don Bosco raggiungessero un numero sufficiente di personale disponibile, in modo da potersi occupare della raccolta di documentazione e dar inizio, nel 2006, al processo canonico per riconoscere il martirio di Istvàn . Il 10 dicembre 2007 a Budapest fu chiuso il processo diocesano e la parola passò a Roma, alla Congregazione delle Cause dei Santi.

Intanto il popolo di Dio è andato prendendo conoscenza delle tragiche vicende e della condotta eroica di tanti cristiani in Ungheria, sotto il durissimo regime comunista. A livello ufficiale, ed anche popolare, molte vicissitudini di cui prima solo si poteva supporre e sussurrare appena, vengono ora in pena luce. Alcuni superstiti, prima costretti a tacere, ora hanno contribuito a ricostruire, almeno in parte, i fatti reali. Nel nostro caso, per esempio, un parroco, don Jòzsef Szabò, spiega ai suoi fedeli che, essendo egli stato compagno di cella di Istvàn, sa molto bene che questi fu giustiziato a causa della sua fede che gli faceva svolgere una intensa attività pastorale presso gruppi di giovani. E' un martire modello di pastorale giovanile originata da un intenso rapporto con Dio, vissuto in una profonda semplicità e spontaneità, tanto lontana da forme esterne bigotte, quanto solidamente ancorata su costanti motivazioni di fede e preoccupata, pertanto, di donare ai giovani quell'amore di Gesù che sente nei propri confronti.

Sono molte le persone che manifestano quanto può giovare il riconoscimento ufficiale del martirio di questo giovane uomo, particolarmente per i giovani. E' un esempio di vita riuscita, maturata nella essenzialità che, se contrasta con la instabilità odierna, è però attuale e stimola a porsi degli interrogativi sul nostro modo di vivere, sulle vere motivazioni del nostro agire. Il confronto con i moventi che hanno guidato il martire ad affrontare e superare tante sofferenze inflittegli ingiustamente, spinge a rivedere la nostra situazione agli occhi di Dio. In modo particolare è motivo di riflessione per coloro che devono in qualche modo occuparsi dei giovani in tempi difficili, come sono anche in altro modo i nostri. La causa a cui egli dedicò tutta la vita, la formazione di una sensibilità cristiana nel mondo del lavoro giovanile, è quanto mai attuale.

Coloro che lo conobbero testimoniano che la sua condotta esemplare non era un atteggiamento che veniva assunto occasionalmente, bensì frutto della convinzione che lo sosteneva costantemente. Il martirio è stata la conclusione coerente di tutta una vita di fede semplice e di amore profondo per i giovani, piena sempre di fiduciosa speranza, anche in circostanze non favorevoli. E' la disposizione che san Giovanni Bosco ispira ai suoi figli: “Darò la mia vita per i giovani fino all'ultimo mio respiro”.

 

 

 

János SzöKe

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