Per la rubrica del nostro ottobre missionario ecco la prima testimonianza: suor Lucia ci racconta della sua missione a Genova...
del 01 ottobre 2018
Per la rubrica del nostro ottobre missionario ecco la prima testimonianza: suor Lucia ci racconta della sua missione a Genova...
Per la rubrica del nostro ottobre missionario ecco la prima testimonianza: suor Lucia FMA ci racconta della sua missione in Liguria, a Genova...
Mi presento brevemente: sono Lucia, una giovane suora di appena 3 anni e qualche mese di professione e, dallo stesso tempo “trapiantata” a Genova. Di cosa mi occupo? Divido le mie giornate non solo come tempi: tra i corsi professionali (CIOFS-FP) alla mattina e oratorio dei salesiani al pomeriggio, ma anche come spazi: da una parte all’altra di Genova. Sì, perché l’oratorio è collocato proprio dalla parte opposta rispetto a quella in cui vivo: Sampierdarena (oggi famosa per il ponte Morandi).
In oratorio gestisco un doposcuola, che ha più l’aria di un centro diurno e raccoglie ed accoglie ragazzi che per lingua o per temperamento “sopra le righe”, vengono segnalati dalle scuole e mandati per un aiuto. Inoltre, insieme ai salesiani, nel tempo che rimane faccio assistenza nel cortile, dove i ragazzi giocano prevalentemente a calcio.
Parlare di Sampierdarena non è mai troppo semplice. È un crocevia di popoli, culture, religioni e lingue differenti e l’oratorio è proprio il riflesso di tutto questo: un piccolo Mondo. La povertà è grande e a volte quella esteriore diventa poi povertà interiore. Così i ragazzi che lo frequentano sono per lo più quelli che non hanno molte altre alternative alla strada. Cosa facciamo? Stiamo con loro, li ascoltiamo, ci interessiamo, a volte si cercano proposte, insomma…in una parola: li amiamo! Tutto qua? Sì, qualcuno potrebbe dire che il nostro “segreto” è banale. A volte sembra niente ma loro sentendosi accolti tornano a cercarci. Succede molto spesso, forse perché si sentono importanti per qualcuno.
È successo così anche con Mohamed, ragazzo marocchino di 19 anni che per qualche tempo è venuto insieme alla sua “banda” di arabi, a giocare a calcio. Di temperamento (all’apparenza) mite ma con due occhi che fin da subito hanno rivelato un buio profondo. Una vita molto sofferta, per lo più passata dentro e fuori il carcere (dove anche oggi si trova). Così ci siamo conosciuti: qualche “battuta”, qualche domanda di interessamento, niente di più. Passavo semplicemente i miei pomeriggi seduta con loro sul muretto del campo da calcio, aspettando il turno di gioco. In uno di questi momenti Mohamed ha iniziato a raccontarmi la sua storia: i reati commessi, i viaggi in giro per il mondo, il disagio nel sentire che ciò che fa non è buono per la sua vita e l’incapacità di opporsi a tutto questo. Mi colpisce sempre quando un giovane si fida così tanto da affidarti tutto della sua vita e non solo: qualche mese più tardi, durante una giornata di Estate Ragazzi, me lo vedo comparire davanti: “suora devo parlarti, ho fatto un casino”. Si viene riconosciuti come punti di riferimento, come persone che accolgono tutto, tanto da andare addirittura a confidare “il casino” commesso.
Questo è il senso che trovo nel dare la vita per gli altri: i giovani. Far sentire loro che sono accolti e amati proprio così con i pregi e i limiti, perché possano nella loro vita trovare almeno un porto sicuro in cui tornare nei giorni di forte burrasca. Con loro ho imparato che dare la vita è scegliere di amare sempre, perché solo chi ama genera alla vita (in tutti gli stati di vita). Questo è il senso di spendere la propria vita: fare in modo che altri possano sperimentare ciò che io ho avuto in dono gratuitamente.
Ne vale la pena? Sì, ne vale proprio la pena, non solo per la vita degli altri, ma soprattutto per la mia, perché diventa una vita di ampio respiro e di intenso sapore.
La Redazione
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