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Tempo di scuola (da «Don Bosco con Dio, cap. II»)

La vita di Giovanni Bosco ebbe un brusco cambiamento quando lasciò i luoghi dov'era nato e si trasferì a Chieri. Da contadino di paese divenne studente di città... Giovanni trovò le novità insidiose di un ambiente più raffinato. Cominciò a vivere indipendente dalla sua famiglia. Entrava nell'adolescenza...


Tempo di scuola (da «Don Bosco con Dio, cap. II»)

da Don Bosco

del 21 gennaio 2006A Chieri

 

La vita di Giovanni Bosco ebbe un brusco cambiamento quando lasciò i luoghi dov’era nato e si trasferì a Chieri. Da contadino di paese divenne studente di città. Chieri non era una grande città come Torino, ma era una città. Giovanni trovò le novità insidiose di un ambiente più raffinato. Cominciò a vivere indipendente dalla sua famiglia. Entrava nell’adolescenza.

Un ragazzo di campagna, cresciuto sotto gli occhi dei suoi familiari, vissuto nella cerchia della sua gente, che conosce solo le occupazioni e le soddisfazioni dell’ambiente contadino, abituato a parlare e a trattare solo con la gente non istruita della campagna, entra di colpo in un centro della vita evolutiva, tra persone e atteggiamenti di un mondo diverso, sconosciuto tra sconosciuti. Supponiamo che questo ragazzo entri allora nella fase critica dell’adolescenza, abbia intelligenza vivace, si senta pieno di forza, e debba tuffarsi in una popolazione scolastica scanzonata e furba. Si può dire con verità che questo ragazzo si trovò al bivio della sua vita.

Fu un bene per Giovanni che si affacciasse ai rischi improvvisi della nuova vita protetto dalla meta che già aveva fissato per i suoi studi, da una strettissima povertà, e specialmente da una vita spirituale intensa che è per la gioventù lo scudo contro cui si infrangono le frecce del male.

 

 

Amici

 

Questa vita spirituale guidò Giovanni fin dai primi passi che di solito sono i più pericolosi. Lo orientò nel fare le prime conoscenze e nella scelta dei primi amici.Lui stesso ci dice come.

“La prima persona che conobbi fu il sacerdote D. Eustachio Valimberti, di cara ed onorata memoria. Mi invitava a servirgli la Messa, e approfittava di quei momenti per dami ottimi consigli sul modo di comportarmi e di tenermi lontano dai pericoli della città. Mi condusse egli stesso dal Delegato governativo degli studi. Mi presentò pure ai vari professori”.

“Ho dovuto imparare a mie spese a trattare con i compagni. Li avevo divisi mentalmente in tre categorie: buoni, indifferenti, cattivi. I cattivi, appena conosciuti, li evitavo assolutamente e per sempre. Gli indifferenti li avvicinavo se c’era bisogno, e li trattavo con cortesia. I buoni cercavo di farmeli amici, li trattavo con familiarità. All’inizio non conoscevo nessuno. Tenevo quindi una certa distanza con tutti… Mi sono liberato dai compagni squallidi evitando rigorosamente la loro compagnia man mano che scoprivo di che pasta erano fatti”.

 

 

La guida spirituale

 

Quando fu abbastanza orientato nelle relazioni con i compagni di scuola, la vita spirituale lo guidò molto bene nella ricerca di ciò che cercava in modo speciale. Scrive: “In quegli anni scelsi come mio confessore stabile il canonico Meloria della collegiata di Chieri. Fu l’avvenimento che più mi fece del bene. Ogni volta che mi recavo da lui, mi accoglieva con grande bontà. In quel tempo chi andava alla confessione e alla Comunione più di una volta al mese, era guardato come un mezzo santo. Molti confessori non permettevano di ricevere i Sacramenti frequentemente. Don Meloria, invece, mi incoraggiò sempre a moltiplicare i miei incontri con il Signore. Se ebbi le forza di non lasciarmi trascinare al male dai compagni peggiori, come purtroppo capita nei grandi collegi, lo devo a questo suo costante incoraggiamento”.

“Collegi”, in questo caso, significa “scuole pubbliche”, così infatti venivano chiamate in quel tempo.

 

 

Società dell’allegria

 

Non solo Giovanni non fu trascinato dai compagni a “disordini”, ma fu Giovanni stesso a trascinare e a tenere diversi giovani sulla strada buona.

Un giovane di serie vita cristiana che primeggia nella scuola, non è superbo, è disinvolto, non ci mette molto a farsi uno squadrone di amici. Giovanni, in breve tempo, fu circondato dalla stima e dalla simpatia di molti studenti. Tanto che riuscì a fondare la Società dell’allegria, un’associazione che aveva un regolamento di un cristiano, e compiere con esattezza i doveri scolastici e religiosi.

Ogni “socio”aveva l’obbligo di cercare libri e insegnare giochi che alimentassero l’allegria. Proibita ogni malinconia e ogni azione contraria alla legge di Dio.

Tutte le feste la Società andava ad ascoltare la lezione di catechismo nella chiesa dei Gesuiti.

Durante la settimana si radunavano ora in casa di uno, ora in casa di un altro. Chiunque poteva liberamente partecipare. Passavano serenamente il tempo dei giochi, discussioni spirituali, letture religiose, preghiere. Si davano buoni consigli, suggerimenti per aiutarsi a vicenda a correggere i difetti che avevano osservato o di cui avevano sentito parlare. “Non facevamo soltanto riunioni – scrive Don Bosco -. Andavamo anche insieme ad ascoltare la parole di Dio, alla confessione e alla santa Comunione”.

L’allegria, dunque, era da lui cercata come un buon mezzo per “servire il Signore nella gioia”

 

 

Ambizioso? Cercatore di popolarità?

 

In questo libro non voglio “proclamare le grandezze” di Don Bosco, ma semplicemente indicarlo come modello. Esponendo i fatti, è difficile trattenere l’ ammirazione.

Di giovani seriamente cristiani, grazie a Dio, se ne incontrano non pochi. Ma giovani di una spiritualità così operosa che, non contenti di camminare con Dio, sentono costantemente l’impulso, quasi il bisogno imperioso di portare Dio nelle anime degli altri, di avvicinarle maggiormente a Dio, capita molto raramente di incontrarli.

Giovanni Bosco aveva una spiritualità che non rimaneva in lui, ma si diffondeva intorno.

Vedere una persona e pensare subito a renderla buona o migliore nel senso cristiano della parola, sarebbe diventato un giorno il programma della sua vita sacerdotale. Ma era già la tendenza dei suoi anni verdi.

L’abbiamo osservato mentre agisce tra ragazzi della sua età e della sua scuola. Se si volesse dire tutto, dovrei ripetermi e ripetermi. Ma qui non sto scrivendo una biografia: mi preme soltanto additare l’ aurora lontana di quella che sarà una caratteristica della sua spiritualità.

A questo punto, qualche lettore diffidente potrebbe fare una lettura diametralmente opposta della giovinezza di Giovanni Bosco. Puntando l’attenzione sulla propensione innata a mettersi in pubblico, riandando alle sue clamorose prodezze di giocoliere e di acrobata, potrebbe sospettare che alla radice di questi atteggiamenti ci fossero almeno in parte ambizione, ricerca di popolarità, gusti teatrali. Tutte cose inconciliabili con una forte spiritualità che, secondo l’estetica tradizionale, ha tra i suoi precetti “fuggi il chiasso” e “ama essere dimenticato”.

Per dissipare questi dubbi basterebbe osservare attentamente nel suo agire il fine, in modo, le circostanze, gli effetti. Ma tralasciamo tutto questo. Limitiamoci a un dato di fatto. A tu per tu con persone di vario genere, in lui è sempre identico lo spirito che lo anima: l’ardore di un’anima fortemente cristiana che si interessa del bene spirituale della persona con cui è in contatto.

Il figlio della padrona di casa, scapestrato, è la disperazione di tutti. Giovanni se lo fa amico, lo rimorchia pian piano in chiesa, finchè non ne cava fuori un giovanotto per bene.

Frequentando il duomo, conosce il capo-segretario, già adulto. Il suo sogno è diventare prete, ma non ha potuto studiare, ha poco ingegno e pochi mezzi economici. Giovanni, senza chiedergli un soldo, con carità eroica gli fa un po’ di scuola tutti i giorni. E questo per due anni, finché è pronto a dare l’esame per l’entrata in seminario.

Diviene amico di un diciottenne ebreo, desta in lui la volontà di diventare cristiano, lo istruisce di nascosto sulle verità cristiane, lo aiuta a vincere le opposizioni ostinatissime dei parenti e di altri ebrei, finché non gli è accanto mentre riceve il Battesimo.

 

 

Luigi Comollo

 

Il bel proverbio “Dimmi con chi vai e ti dirò chi sei” si applica bene all’amicizia di Giovanni con uno studente santo. Questa era la fama che aveva preceduto l’arrivo di Luigi Comosso a Chieri.

Appena lo seppe, Giovanni volle subito conoscerlo. Quando lo conobbe volle diventargli amico. E vide che la realtà superava le parole. Raccogliamo alcune sue affermazioni:”L’ebbi sempre per intimo amico…Ho messo piena confidenza con lui, e lui in me…Mi lascia guidare dove come egli voleva…Andavamo insieme a confessarci, comunicarci, fare della meditazione, la lettura spirituale, la visita al SS. Sacramento, a servire la S. Messa”.

L’accenno alla meditazione ci fa capire che Giovanni non aveva smesso di rinnovare e arrichire ogni giorno la sua vita spirituale con quel valido mezzo.

Le loro conversazioni possono essere descritte da una frase del vangelo:”Ciascuno esprime con la bocca quel che ha nel cuore”.(Mt 12,34).

Parlavano e si confrontavano su argomenti spirituali. Don Bosco scrive:”Trattare e parlare con lui di tali argomenti mi era di grande consolazione. Ragionava con entusiasmo dell’immenso amore di Gesù nel darsi a noi in cibo nella santa Comunione.

Quando discorreva della Beata Vergine, si vedeva tutto pieno di tenerezza, e dopo aver raccontato o udito raccontare la grazia della guarigione concessa a Lei a qualche malato, tutto eccitato esclamava:”Se Maria aiuta tanto questo miserabile corpo, quanti saranno i favori che concederà alle anime che la invocano? Oh, se tutti gli uomini fossero veramente devoti di Maria, che felicità ci sarebbe in questo mondo!”.

Don Bosco attribuisce a se stesso, narrando queste cose, la parte dell’uditore. Nella realtà, non era certo un uditore sempre muto. Conversazioni di questa natura non è possibile che si tengano, e tanto meno che si ripetano per tanto tempo, se da una parte e dall’altra non ci sono menti e cuori capaci di capirle e di gustarle.

 

 

Diventare prete. Ma come?

 

I 4 anni di ginnasio finirono con esito molto positivo. Risultato negli esami ottimo. Rapporto di stima amichevole coi professori. Amicizia e ammirazione da parte dei compagni. Larghe simpatie tra la popolazione di Chieri. L’alba aveva i colori che annunciano una giornata bella.

Ma quanta povertà in quegli anni, quante difficoltà, quanti pericoli, quante cose a cui aveva dovuto rinunciare. La costanza non si spezzò mai solo perché, mediante la preghiera, trovava rifugio nel “Dio di ogni consolazione”. La Provvidenza così disponeva perché egli un giorno potesse “consolare quelli che si trovano in ogni genere di afflizioni” (2 Cor 1.3-4).

Nel secondo biennio cominciò per lui la “crisi di vocazione”.

Che fin da ragazzino volesse diventare prete è cosa certa. Vi si sentiva talmente attratto che gli sembrava di essere nato per questo. Ma nel penultimo anno del ginnasio viene assalito da due timori, che giorno dopo giorno lo spingono in un mare di perplessità e di ansia.

Da una parte, ora che comprende meglio la dignità divina del sacerdozio, se ne sente indegno, gli pare di non possedere le virtù necessarie. Dall’altra parte, se si fa chierico in seminario, ha paura di andare a naufragare sugli scogli del mondo che ora ben conosce.

Il peso notevole di questa scelta decisiva traspare dalle parole accorate che anni dopo scriverà:”Quante volte avrei voluto avere una guida spirituale che mi aiutasse in quei momenti. Per me sarebbe stato un vero tesoro, ma questo tesoro mi mancava”.Il suo confessore, ottimo sacerdote, pensava a fare di lui un buon cristiano, ma nella scelta della vocazione non volle mai entrare.

Costretto a decidere da solo, lesse libri che parlavano di questo argomento. A un certo punto gli sembrò che un raggio de luce lo illuminasse:”Ragionai così: se divento prete in mezzo al mondo, corro il rischio di fallire. Diventerò prete, ma non vivrò in mezzo alla gente. Mi ritirerò in un convento, mi dedicherò allo studio e alla meditazione. Nella solitudine mi sarà più facile combattere le passioni, specialmente l’orgoglio, che ha gia messo profonde radici nel mio cuore”.

Chiese quindi l’ammissione tra i Francescani, i quali, intuendone l’ingegno e la spiritualità, lo accettarono volentieri.Ma non aveva il cuore tranquillo. Inoltre persone buone e serie con le quali si era confidato, facevano ogni sforzo per farlo tornare sulla sua decisione, e lo consigliavano vivamente a entrare in seminario. E così le ansietà crescevano.

La Provvidenza volle che si lasciasse persuadere a consultare il santo don Cafasso, allora giovane sacerdote ma già molto stimato per il dono del consiglio. Don Cafasso lo ascoltò attentamente, gli disse di andare avanti negli studi e alla fine di entrare in seminario.

Durante questo tempo di ansietà, la sua vita esteriore si svolgeva come se nulla lo disturbasse, fra studio, preghiera, opere di carità e lavori manuali per guadagnarsi da vivere. Nessuno quindi si rendeva conto del dramma che lo travagliava. Il pensiero di Dio, quando domina su tutto, rende l’anima padrona di sé e quindi abitualmente calma nelle sue manifestazioni esteriori, anche quando nel segreto è turbata.

L’autorità di Don Cafasso lì per lì mise fine ai dubbi. Ma in seguito Giovanni fece nuove letture sulla vocazione, e fu da capo assalito dall’incertezza. Sarebbe tornato ad offrirsi ai Francescani, se un avvenimento (non sappiamo quale) non avesse accelerato la decisione definitiva. Don Bosco ci raccontava solo che, moltiplicandosi gli ostacoli, decise di esporre tutto all’amico Comollo. Veramente ci meraviglia un po’ che passasse tanto tempo e Giovanni facesse diversi tentativi prima di confidare all’amico il suo dramma interiore. Ma la profonda bontà non sempre rende un individuo saggio consigliere, specialmente in materie così delicate. D’altra parte Giovanni, ricco di idee e buon comunicatore, non era affatto un chiacchierone.

Dopo che si confidato con Comollo, pregarono insieme, insieme si accostarono ai santi sacramenti, e di comune accordo consultarono per inscritto un ottimo sacerdote, zio di Comollo.

Proprio nell’ultimo giorno di una novena alla Madonna, in sacerdote rispose così al nipote: “Tutto considerato, io consiglierei al tuo amico di non entrare in convento. Entri in seminario, e mentre proseguirà gli studi verrà a conoscere sempre meglio ciò che Dio vuole da lui. Non abbia paura di perdere la vocazione.Con il raccoglimento e la preghiera supererà ogni ostacolo”.

Studio, raccoglimento, preghiera: non era sempre stata così la sua vita a Chieri?

Anche il parroco di Castelnuovo, come don Cafasso, pensava che la cosa migliore fosse l’ingresso in seminario, rimandando a età più matura la decisione riguardo alla vita tra i religiosi.

 

 

La veste nera e 7 propositi

 

Rasserenato così l’orizzonte, ”mi sono seriamente applicato in cose che potessero giovare a prepararmi alla vestizione chiericale”.

Indossare la divisa dei chierici non fu per Giovanni Bosco una semplice cerimonia. Mentre si dedicava a una cinquantina di ragazzi che lo amavano e lo obbedivano, lo afferma lui stesso, come fosse loro padre, si seppe concentrare in un tempo di raccoglimento e di preghiera. Ne uscì preparato spiritualmente e concentrato sull’importanza del gesto sacro che stava per compiere.

I pensieri spirituali che dominarono la sua mente durante la funzione sacra palpitano vivi nella pagina che ne conserva il ricordo: “Prima di Messa solenne parroco di Castelnuovo, don Cinzano, benedisse l’abito da chierico e me lo fece indossare. Mi comandò di posare gli abiti mondani con queste parole: “Il Signore ti svesta dell’uomo vecchio con le sue abitudini e i suoi modi di agire”.E io dissi nel mio cuore:”Quanta roba vecchia c’è da togliere nella mia vita! Mio Dio, distruggere le mie cattive abitudini”. MI consegnò la veste da chierico dicendo:”Il Signore ti vesta dell’uomo nuovo, creato secondo il cuore di Dio nella giustizia, nella verità e nella santità”. Mi sentii profondamente commosso, e dissi tra me:”Mio Dio, che io cominci davvero una vita nuova, nel pensiero, nelle parole e nelle opere. Maria, siate voi la mia salvezza”.

Per coronare l’opera egli scrisse per sé un regolamento di vita chiericale in 7 punti. Il sesto prescriveva: “Ogni giorno pregherò il Signore. E ogni giorno farò un poco di meditazione e di lettura spirituale”.

Affinché questi buoni propositi non restassero lettera morta, volle che la sua fosse una promessa solenne. Quindi, inginocchiatosi davanti a un’immagine della Beata Vergine, lesse i singoli articoli, e dopo una fervente preghiera fece “ a Lei promessa formale di osservarli a costo di qualsiasi sacrificio”.

È facile notare nelle cose dette fin qui che vita spirituale e spirito di preghiera si alternano  e si compenetrano come fossero una cosa sola.

Per avere le idee chiare, occorre tener presente che lo Spirito di preghiera si concretizza ordinariamente in quel complesso di azioni con le quali si onora Dio e che viene chiamato “vita spirituale”, per cui l’una cosa si fonde con l’altra. Se proprio si vuole distinguere, diremo che lo spirito di preghiera alimenta una vita spirituale profonda e sentita.

Poiché siamo entrati in questo argomento, aggiungiamo ancora un’osservazione, secondo noi opportuna. Nella vita spirituale si può notare la prevalenza di un elemento sugli altri. La vita spirituale stessa, in questi casi, riceve una qualifica speciale. Si è creduto così di poter classificare la vita spirituale di diversi Ordini religiosi: la vita spirituale dei Benedettini viene chiamata “liturgica”, quella francescane “affettiva”, quella dei Domenicani “dogmatica”, quella ei figli di S. Alfonso “spiritualità delle massime eterne”.

Se usiamo questo criterio, come si preannuncia nella giovinezza di Giovanni Bosco la futura spiritualità salesiana? Non si sta affacciando una spiritualità “sacramentale”, per l’eminenza che per Giovanni hanno la Confessione e la Comunione? Infatti, mediante questi due Sacramenti ricevuti con una frequenza mai vista in passato, il fondatore dei Salesiani farà trionfare nelle sue opere l’amicizia con Dio.

Eugenio Ceria

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