A 12 anni di distanza, dopo aver visto in tv la messa di Papa Francesco in Terra Santa, ricordo con grande emozione e commozione il suono delle campane di Betlemme nel giorno della Domenica delle Palme...
A 12 anni di distanza, dopo aver visto in tv la messa di Papa Francesco in Terra Santa, ricordo con grande emozione e commozione il suono delle campane di Betlemme nel giorno della Domenica delle Palme. Nella Chiesa di Santa Caterina, adiacente alla Basilica della Natività, eravamo in tanti ad innalzare ramoscelli di ulivo e palme intrecciate, la comunità cattolica di Betlemme al completo e noi, una Delegazione della Conferenza Episcopale Italiana di 25 membri, per la maggior parte giovani laici.
Dal 21 al 28 marzo del 2002 abbiamo vissuto un’esperienza che allo stesso tempo è stata un pellegrinaggio, un’azione politica nel senso più genuino del termine, un viaggio spirituale, un accostarsi alle comunità cristiane di Terra Santa, col fine di consegnare ai leaders politici e religiosi la lampada della pace consegnataci da Giovanni Paolo II, segno dell’incontro dei rappresentanti di tutte le religioni convenuti ad Assisi nel gennaio di quell'anno.
Al di là delle cose che abbiamo fatto e dei luoghi visitati, desidero qui raccontare le mie sensazioni, le emozioni di un gruppo di giovani che hanno lasciato le proprie sicurezze (erano i mesi in cui nessuno andava per Terra Santa per i numerosi attentati e le rappresaglie) per una settimana al fine di mettersi in discussione. Sapevamo bene che non avremmo cambiato il mondo, abbiamo scoperto alla fine che in quel mondo, in una ricchissima settimana, ha cambiato qualcosa in noi stessi. Abbiamo accolto l’invito del Santo Padre, del Cardinale Ruini e quello del Patriarca Michel Sabbah di andare in Terra Santa, di non aver paura, per vivere quello che tanti cristiani vivono giorno per giorno. Ci sono state piccole difficoltà, qualche rischio, ma sono state le stesse che vivono tutti i giorni i nostri fratelli cristiani.
Dopo aver passato i primi giorni a Gerusalemme, abbiamo incontrato a Ramallah Yasser Arafat (fummo gli ultimi a farlo ufficialmente prima che il suo quartier generale fosse distrutto) e i giovani cristiani della città; una città che sabato 23 pareva tirare un sospiro di sollievo dopo i fatti che avevano causato la morte, tra gli altri, del fotoreporter Raffaele Ciriello. Non sembrava, a prima vista, che ci fossero stati scontri così duri, ma bisognava guardare le strade segnate dai cingoli dei carri armati ed entrare nei campi profughi dove, per passare da una stanza all’altra di una casa, non si usano più le porte, ma i grossi fori praticati nei muri dalle armi israeliane.
Qualche giorno dopo Ramallah fu posta sotto assedio, a seguito dell'occupazione della Basilica di Betlemme, e vedere le immagini di quelle ore e ripensarsi lì, vedere la morte e la distruzione che tocca un popolo intero, mi fece rabbrividire; non ho mai pensato a quello che poteva accadere al nostro gruppo, ma ho sofferto per i giovani del luogo che ho conosciuto, con i quali ho condiviso momenti di festa, di preghiera, di fraternità attorno ad una tavola imbandita.
Mi chiedo ancora dove si vuole arrivare e quale sia il futuro dei bambini e dei giovani che non sono liberi di vivere in pace nella propria città! In quei giorni abbiamo ascoltato anche la parte israeliana, incontrando un ambasciatore presso il Ministero degli Esteri israeliano. Sembrava che le due parti avessero ragione entrambe, ma in fondo nessuna delle due nel momento in cui si usa la violenza. Molto dipendeva anche dalla incomunicabilità personale tra i capi di Stato, ci diceva il Nunzio Apostolico Mons. Pietro Sambi e forse è così ancora oggi. Certamente non può essere lasciata la sorte della pace nelle sole mani di questi. Capivo e capisco la paura della gente, ma la paura viene dalla mancanza di fiducia, dall’incomprensione, dall’incapacità di guardare all’altro senza sospetto, dal pensare che “io” sono superiore a “te” o da “questo è mio” e non “nostro”.
È importante trovare occasioni per riscoprire la fiducia reciproca, per dare coraggio alla volontà di pace della popolazione. Nella terra in cui tutti credono in Dio, non tutti credono però che l’uomo sia figlio di Dio e si fanno la guerra. Ci potrà essere pace in Terra Santa solo quando sia i palestinesi che gli ebrei, a tutti i livelli, avranno fiducia reciproca; la sicurezza dei due popoli è strettamente legata.
Si possono e si devono, intanto, sostenere le tante iniziative di solidarietà per coloro che soffrono, senza distinzione di alcun tipo, ed in favore di quanti già da anni lavorano in Terra Santa per costruire la concordia, la fiducia e la pace dei due popoli attraverso le piccole azioni. Per questo il viaggio-pellegrinaggio di Papa Francesco è un segno chiaro, un faro spirituale e per la politica.
Marco Pappalardo
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