Carlo Alfredo Moro nel 1998 dedicò ai molti punti oscuri del sequestro un saggio fortemente polemico, le cui argomentazioni sono riprese nel brano che pubblichiamo in questa pagina...
Con il titolo Vivere nella storia (a cura di Tiziano Torresi, prefazione di Paola Gaiotti de Biase, pagine 366, euro 32) la casa editrice Studium presenta un’ampia raccolta di “scritti di impegno civile ed ecclesiale” del giurista Alfredo Carlo Moro, morto nel 2005 all’età di 80 anni. Fratello di Aldo, figura di spicco della Democrazia Cristiana e vittima del tragico rapimento a opera delle Birgate Rosse nel 1978, Alfredo Carlo Moro è considerato un pioniere nel campo dei diritti dei minori e della famiglia, temi peraltro ampiamente rappresentati nel volume attuale. Difensore appassionato della memoria e dell’eredità morale del fratello, nel 1998 dedicò ai molti punti oscuri del sequestro un saggio fortemente polemico, le cui argomentazioni sono riprese nel brano che pubblichiamo in questa pagina. Il testo, ora presente in Vivere nella storia, risale al 2003 e apparve originariamente sulla rivista «Coscienza» con il titolo “I misteri irrisolti inquinano la vita politica”.
Per ridurre i troppi dubbi che l’opinione pubblica incominciava ad avere su tutta “l’operazione Moro” e per far anche dimenticare la sua strategia politica, si è ricorso anche alla denigrazione della sua personalità presentandolo come un essere spregevole che era interesse di tutti dimenticare al più presto. [...] Ed è divenuto un luogo comune che le lettere dalla prigionia ci propongono un Moro in preda al terrore per la fine imminente e pronto ad usare qualunque mezzo, anche il più ignobile, pur di salvare la pelle.
In realtà sembra che nessuno abbia letto con attenzione tutti gli scritti rinvenuti ed abbia riflettuto sulla reale situazione in cui sono stati stilati e sui condizionamenti che inevitabilmente li hanno, in qualche modo, determinati. E non può essere del tutto privo di significato il fatto che sul mio libro – che per la prima volta proponeva una documentata, diversa lettura di quegli scritti – sia piombato un assordante silenzio.
Documentavo nel mio volume (Storia di un delitto annunciato, Editori Riuniti, 1998, ndr) che molti scritti erano stati sicuramente occultati; che disperatamente il sequestrato cercava di comunicare tra le righe all’esterno, che non era a conoscenza di molti fatti avvenuti al momento e durante il suo sequestro; che gli scritti erano necessariamente concordati con i sequestratori che sceglievano cosa fare conoscere e cosa no (di alcune lettere vi erano varie versioni; in una, ad esempio, si legge: «È in alternativa all’altra, valutare attentamente le circostanze... le righe che seguono sono da rivedere a seconda dell’utilità che possono avere per sua espressa opinione»); che alcune lettere erano numerate all’inizio e non nei fogli successivi per cui deve presumersi che vi siano state manipolazioni e integrazioni; che furono fatte minacce alla vita del nipotino per spingere il sequestrato a collaborare non bastando evidentemente la minaccia della sua morte per piegarlo ai voleri dei sequestratori.
Documentavo anche alcune apparentemente incomprensibili anomalie di certi testi, stridenti con la coerenza, anche stilistica, di tutti gli scritti: l’unica spiegazione possibile è che il prigioniero cercasse di far filtrare messaggi che contraddicevano il testo concordato con i sequestratori o da loro imposto. [...]
Nel mio libro documentavo infine come, da una analisi globale degli scritti della prigionia, emergesse una personalità molto diversa da quella che una certa pubblicistica ha presentato per lungo tempo.
Moro prigioniero non è affatto un uomo confuso e disorientato per la drammatica esperienza che stava vivendo: il ragionamento è sempre logico ed acuto, l’argomentazione stringata e pertinente, i riferimenti precisi.
Né appare travolto dal suo dramma personale e ossessionato dal pericolo incombente: si ricorda di tante minuzie della vita familiare; si preoccupa di raccomandare ai familiari una serie di piccole cose da fare nella quotidianità della vita; ricorda non solo i suoi cari ma anche i suoi studenti dell’Università a cui tiene siano inviati i suoi saluti; raccomanda ai suoi di essere forti e li incoraggia a non fare drammi per la sua imminente uccisione; nelle lettere di addio al nipotino è presente un forte e sereno senso di autoironia; toccanti sono i ricordi familiari.
E, tutt’altro che preoccupato solo dei potenti, trova nella fede del Dio che salva la forza per accettare il suo martirio. Infatti scrive: «Credo che non sarà facile imparare a guardare e a parlare con Dio e con i propri cari... ma c’è speranza diversa da questa?». Ripete spesso: «Sono nelle mani di Dio». Esprime la sua certezza nella comunione dei santi: «Ho tentato tutto ed ora sia fatta la volontà di Dio... Credo di tornare a voi in un’altra forma... Ci rivedremo, ci ritroveremo, ci riameremo». Si rivolge alla moglie: «Vorrei avere la fede che avete tu e la nonna per immaginare i cori degli angeli che mi conducono dalla terra al cielo. Ma io sono molto più rozzo. Ho solo capito in questi giorni che vuol dire che bisogna aggiungere la propria sofferenza a quella di Gesù Cristo per la salvezza del mondo».
Esprime la sua speranza cristiana: «Vorrei capire, con i miei occhi mortali, come si vedrà dopo. Se ci fosse luce sarebbe bellissimo».
Ho trovato francamente indecente che, in occasione dell’anniversario del suo rapimento, vi sia stata una gara tutt’altro che nobile, da parte di alcune forze politiche (persino da parte di qualcuna radicata in una filosofia politica antitetica a quella sempre professata ed incarnata da Moro), ad appropriarsi della figura di mio fratello malgrado la saggia invocazione del presidente della Camera (Pierferdinando Casini, ndr) secondo cui «Aldo Moro è un patrimonio comune del Paese». E non credo sia lecito interrogarsi da che parte sarebbe stato oggi Moro o cercare di capire cosa egli avrebbe detto delle nuove situazioni politiche che si vanno delineando.
Mi sembra che il principale insegnamento che attraverso la sua vita e il suo sacrificio egli ci ha lasciato riguarda essenzialmente un modo peculiare di fare politica. Una politica basata sull’attenzione verso il nuovo che avanza e verso le esigenze più profonde dell’uomo e sull’ascolto delle proposte giuste suggerite da chiunque; una politica che tendeva a tradurre, per quanto possibile, i grandi valori anche del messaggio cristiano nella vita sociale ma mantenendo la distinzione tra fede e storia e tra messaggio di salvezza e autonomia delle realtà terrene; una politica rispettosa della Chiesa ma anche dello Stato e che non cercava di strumentalizzare la religione mercanteggiando privilegi in cambio di consensi; una politica fatta di riflessione ed approfondimento dei problemi e non sostanzialmente pubblicitaria in cui il carisma dell’immagine è a tutto scapito del carisma delle idee e che ricorre spesso alla pubblicità ingannevole; una politica dell’incontro che si contrappone a una politica dello scontro per cui è più significativo essere contro qualcuno che costruirsi una identità e un programma; una politica delle lealtà contro una imperante politica della furbizia tutta imperniata su tatticismi e sul proclamare nei programmi una cosa convinti di realizzarne in realtà un’altra; una politica radicata nella ricerca dei valori e nella capacità progettuale contro una politica ridotta a pragmatica gestione dell’esistente; una politica della graduale tenace costruzione contro una politica dell’improvvisazione e del continuo mutamento a seconda delle convenienze del momento. Mi sembra che questa sia la testimonianza più significativa di Aldo Moro, da raccogliere e ricordare non solo nel momento degli anniversari rituali.
Alfredo Carlo Moro
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