Triste la vita di chi invidia...

Un costume sociale venutosi a creare attorno al periodo natalizio e affrancatosi dal riferimento alle celebrazioni proprie dei cristiani ci porta a rileggere il nostro rapporto con gli altri, a cercare di appianare o per lo meno sospendere le tensioni e le litigiosità, a ripensare ai nostri comportamenti quotidiani...

Triste la vita di chi invidia...

da L'autore

del 01 gennaio 2002

Un costume sociale venutosi a creare attorno al periodo natalizio e affrancatosi dal riferimento alle celebrazioni proprie dei cristiani ci porta a rileggere il nostro rapporto con gli altri, a cercare di appianare o per lo meno sospendere le tensioni e le litigiosità, a ripensare ai nostri comportamenti quotidiani. Il successivo cambio di calendario, poi, pare quasi obbligarci a stendere un bilancio dell'anno trascorso e a formulare propositi più o meno convinti per quello che sta per iniziare. Non è raro allora finire preda di una condizione di spirito che sovente ci assale anche in altre circostanze e che cerchiamo di sopraffare stordendoci con diversivi di ogni tipo: la tristezza. Questo 'demone', chiamato nella spiritualità cristiana 'verme del cuore', si insinua nell'anima di una persona e ne corrode lentamente tutta la vita, come fa la tignola con il vestito: se non viene combattuta, essa finisce per abitarci come un inquilino stabile e sempre più difficile da scacciare.

Sì, la tristezza è il non-piacere per eccellenza, essa 'spoglia da ogni piacere e fa inaridire il cuore', diceva Evagrio: è alla radice della depressione nervosa, perché conduce al sentimento del non-senso della vita, a uno stato di letargo in cui la vita appare senza luce, senza speranza, in una parola, invivibile. Perché questo tarlo permane come un'ombra nel nostro profondo, come un brusio che non cessa di tormentarci? Di volta in volta sono le sofferenze ingiustamente patite, le contraddizioni reali alla nostra vita, la constatazione della frustrazione dei nostri desideri, anche quelli più nobili e giusti, a generare in noi la tristezza. Ora, è evidente che la vita e la realtà ci contraddicono in molti modi, sovente anche inattesi; ma è altrettanto evidente che pensare di poter vivere in un mondo dorato e privo di frustrazioni è illusorio, così come è dannoso per noi stessi nutrirci di nostalgie immaginarie o di attese impossibili!

In questo senso credo si possa dire che il proprium della tristezza consista nel suo essere una patologia riguardante il rapporto con il tempo: si idealizza il passato come stagione senz’altro migliore di quella attuale e lo si evoca con accorati accenti di nostalgia, non privi di ingenuità se non addirittura di ottusità. Specularmente, ci si pone in modo irreale di fronte al futuro: o si sogna di realizzare in un avvenire mitico ciò che, per l’appunto, è destinato a cominciare sempre domani, oppure si teme il tempo che sta per venire a motivo delle incognite che può riservare. Insomma, in un modo o nell’altro ci si rifugia in un mondo immaginario per non aderire alla realtà: così facendo, però, non si coglie il presente come l’ora irripetibile che ci è data da vivere, con tutta la responsabilità ma anche il fascino che questo comporta.

Si comprende perché la spiritualità unisca strettamente la gioia – antidoto principe alla tristezza – alla capacità di vivere in modo adeguato il rapporto con il tempo, di vivere il momento presente: la gioia è una virtù escatologica, che unifica il tempo umano nell’oggi di Dio, anticipando nel presente la dimensione finale attesa. Una gioia, però, che non è la spensieratezza dell’irresponsabile, ma al contrario l’impegno, l’accettazione di una modalità altra di porsi di fronte agli eventi. L’apostolo Paolo arriva a formulare l’invito alla gioia come un vero e proprio imperativo cui prestare obbedienza: quanto di più lontano si possa immaginare rispetto alla spontaneità cui siamo soliti connettere le nostre gioie superficiali. Sì, occorre obbedire risolutamente al comando di rallegrarsi ed esercitarsi nella gioia vivendo in pienezza il momento presente, così da sperimentare che né il passato né il futuro possono imprigionarci, ma determinante è solo l’oggi in cui ci è chiesto di vivere, grati verso ciò che è stato e aperti verso quanto il futuro ci riserva...

E’ significativo che i padri del deserto accostavano alla tristezza l’invidia, ricordando che se la prima provoca una sorta di paralisi di senso nell’oggi, la seconda è un’afflizione che nasce dal bene degli altri. L’etimologia di invidia ne rivela il legame con il “vedere”: in-videre significa avere un occhio cattivo fino a non vedere più l’altro, fino a volerne la sparizione, e così l’invidia può condurre all’omicidio. Sì, c’è anche una tristezza che nasce dalla constatazione della felicità altrui, reale o presunta che sia: terribile sentimento che nasce ancora una volta dal fuggire il presente,solo che anziché rifugiarci in un passato idealizzato o in un futuro sognato, ci volgiamo verso un presente che non appartiene a noi ma ad altri… Nasce allora il desiderio di avere noi, qui e subito, la “roba” degli altri, anche se a volte si vorrebbe semplicemente che l’altro non avesse quei beni, quelle caratteristiche, quei determinati doni. Per questo l’invidia è un sentimento che si cerca di nascondere, un sentimento inconfessabile, di cui non ci si vanta ma ci si vergogna perché equivarrebbe a una dichiarazione pubblica di inferiorità. Più in profondità, l’invidia è un riflesso che consiste nel paragonarsi sistematicamente agli altri, nell’incapacità personale di ammettere con gratitudine i doni rispettivi di cui ciascuno è dotato. Ci sono sempre qualità che gli altri hanno e io no; fissandomi su queste, finisco per cadere nella profonda tristezza verso la vita quale essa è e si presenta.

Oggi i sociologi dicono che l’invidia è un male sociale assai diffuso, soprattutto verso chi chi guadagna di più e dispone di più ricchezze. Ma l’invidioso dovrebbe sapere di essere condannato all’isolamento: infatti, non appena gli altri si accorgono di questo suo sentimento, lo abbandonano perché ai loro occhi diviene insopportabile. Non a caso anche la gelosia – patologia che si declina in mille modi, non solo nei rapporti coniugali – appartiene a questa medesima suggestione, a questa tentazione della tristezza: essa nasce dal vivere gli uni accanto agli altri, dal confronto continuo, dal verificare ciò che gli altri sono e fanno e, di conseguenza, l’approvazione e il riconoscimento che essi ricevono. Va detto con estremo realismo: questi sentimenti, se lasciati crescere senza freno, trasformano anche somaticamente chi ne è preda e si manifestano con il pallore del volto, con labbra tese e piatte, con lo sguardo glaciale…

Chi ha raffigurato bene l’invidia è Giotto nella Cappella degli Scrovegni, dove appare una donna anziana, avvolta dalle fiamme che indicano il suo tormento interiore e dalla cui bocca esce un serpente che si ritorce contro i suoi occhi; le sue orecchie spropositate narrano la sua attitudine alla curiosità, ad ascoltare maldicenze per nutrirsi di contestazione e antagonismo, concorrenza e gelosia: un male veramente triste che si contrappone alla comunicazione, alla gioia che viene dal condividere con gli altri la ricerca di senso e il tesoro della nostra comune condizione umana.

Enzo Bianchi

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