Tutta la povertà che ci riguarda

Poco o nulla sappiamo su ciò che accade veramente nel mondo, sulle ragioni dei conflitti e delle povertà, sugli effetti che un mercato globale non regolato ha sulla vita delle persone. Nel Sud come nel Nord del mondo.

Tutta la povertà che ci riguarda

da Quaderni Cannibali

del 08 ottobre 2009

 

 

Poco o nulla sappiamo su ciò che accade veramente nel mondo, sulle ragioni dei conflitti e delle povertà, sugli effetti che un mercato globale non regolato ha sulla vita delle persone. Nel Sud come nel Nord del mondo.

 

 

 

Sappiamo poco o niente di quello che succede realmente nel mondo. Infatti il sistema mediatico planetario – facendo la media tra società moderne e altre attardate – comunica appena il 20 per cento delle notizie che tutti saremmo tenuti a conoscere. Lo scrive Sergio Zavoli in un saggio dal titolo La Questione, eclissi di Dio o della Storia? (Mondadori 2007), citando fonti statunitensi. Un esempio? Che fine ha fatto l’Africa sulla stampa nostrana? Ecco che allora scoppia l’ennesima sanguinosa guerra nella Repubblica Democratica del Congo e praticamente nessuno ci fa caso, a parte un manipolo di volenterosi lettori appartenenti al mondo missionario o, più in generale, al Terzo Settore.

 

Il paradosso è evidente: viviamo in un «villaggio globale» dove, sulle ali delle moderne tecnologie, dovremmo essere in grado di ricevere in tempo reale informazioni su quanto accade a Timbuctu o a Dar es Salaam, eppure il disinteresse rispetto a quello che succede fuori dallo Stivale regna sovrano. L’Italia in particolare, rispetto ad altre nazioni industrializzate, continua a essere un Paese caratterizzato da un provincialismo cronico elevato all’ennesima potenza. In un sondaggio SWG pubblicato in un rapporto di ricerca sui conflitti dimenticati di Caritas Italiana, «Famiglia Cristiana» e «Il Regno», emerge addirittura che il 20 per cento dei nostri connazionali non è in grado di indicare alcun conflitto armato del pianeta risalente agli ultimi cinque anni: né Iraq, né Afghanistan, né Palestina/Israele...

 

Eppure gli interessi in gioco sono così tanti che sarebbe vantaggioso per tutti noi conoscere la verità dei fatti. Da questo punto di vista, la sfida nelle relazioni tra i popoli, prim’ancora che essere sociale, politica o economica, è culturale. È arrivato il momento di smantellare i pregiudizi che dipingono un Nord civilizzato e un Sud in preda alle barbarie per elaborare insieme un sapere che tenga conto del punto di vista dell’altro, nella consapevolezza che l’umanità ha un destino comune.

 

La responsabilità dei media

 

Su questo stato di cose i media hanno una grande responsabilità. Dal Rapporto sull’attenzione alle aree di crisi mondiali, realizzato da Medici senza frontiere in collaborazione con l’Osservatorio di Pavia e pubblicato nel marzo scorso, il nostro giornalismo televisivo esce con le ossa rotte. Nella migliore delle ipotesi molte notizie vengono ospitate nell’ultimo notiziario notturno o in poche righe tra le brevi, nella peggiore non appaiono neppure.

 

Per carità, il criterio della vicinanza geografica avrà sempre un peso discriminante, ma impressiona l’incapacità di riconoscere i grandi drammi del nostro tempo. Ed è un fatto che il piccolo schermo si rivela sempre più come un contenitore casereccio nel quale troppe tragedie – poco importa se dovute a guerre, carestie o epidemie – trovano spazio solo quando vengono direttamente coinvolti alcuni nostri connazionali. E allora, spesso, tutto finisce per ridursi a una sorta di discutibile rotocalco. Se poi, per causa di forza maggiore, i temi sono di respiro internazionale e di fatto non si possono radicalmente ignorare, allora vengono ridotti ai soliti stereotipi stile Western, dove fin dalle prime battute si sa chi sono i buoni (i cowboy) e chi i cattivi (gli indiani), e tutto comunque è classificato e descritto per contrapposizioni estreme. Il che porta inevitabilmente a banalizzare realtà invece assai complesse e articolate.

 

L’informazione, invece, prima ancora degli aiuti, è la base di ogni forma di solidarietà. Per questo occorre cambiare marcia, nella consapevolezza che le questioni internazionali hanno decisamente a che fare col destino della casalinga di Voghera o del metalmeccanico di Poggibonsi. Il fatto che proprio un’azienda come la Rai abbia permesso alla radiofonia di creare dei programmi attenti ai temi della solidarietà, come Oggi Duemila o Radio Tre Mondo, dimostra che questa via è ben percorribile e soprattutto che l’interesse degli italiani a essere informati davvero non è un’invenzione dei missionari o delle Ong.

 

Alla radice dei conflitti

 

Detto questo, cerchiamo insieme di comprendere cosa c’è dietro un conflitto. Prendiamo ad esempio quello congolese a cui la stampa italiana, tranne alcune lodevoli eccezioni, ha dato in questi mesi poco spazio; una guerra peraltro paradossalmente legata al nostro modus vivendi.

Chissà quante mamme e quanti papà, senza saperlo, proprio in queste feste appena trascorse hanno contribuito a procrastinare nel tempo l’annoso conflitto che attanaglia il settore orientale dell’ex Zaire. Nessuno li ha informati che dietro a certe diavolerie elettroniche come i cellulari della next generation, videocamere o playstation 2, 3, 4 si celava un’insidia… Parte dei soldi dell’acquisto, per vie traverse, sono finiti nelle tasche dei famigerati signori della guerra dai nomi altisonanti come «Nkunda» o «Mutebusi». Naturalmente stiamo parlando di «signori» con la «s» minuscola, la stessa di «scellerati» e «sanguinari», assassini di stuoli di innocenti, magari con l’ausilio di legioni di bambini soldato.

 

Dentro a questi oggetti tanto reclamizzati c’è il coltan, una lega naturale di columbio e tantalio. Dal punto di vista strettamente economico ha un’importanza strategica immensa se si considera che, una volta debitamente trattato, proprio il tantalio serve a ottimizzare il consumo della corrente elettrica nei chip di nuovissima generazione. Per esempio i condensatori al tantalio consentono un risparmio energetico e quindi una maggiore versatilità tecnologica. In questi anni, nei rapporti pubblicati dalle Nazioni Unite, il coltan è stato riconosciuto tra le cause del finanziamento della guerra congolese e non poche organizzazioni per la difesa dei diritti umani e la tutela di quelli ambientali (visti anche i gravi danni alle foreste) hanno denunciato lo scandalo.

 

Sta di fatto che in Congo la guerra si combatte non solo per il coltan, ma anche per il controllo dei giacimenti di oro, cassiterite, diamanti, rame, petrolio e quant’altro; tutte ricchezze che, volente o nolente, sono poi finite sui mercati occidentali, di quei Paesi cioè che hanno l’ardire d’impartire lezioni di democrazia all’universo mondo.

 

Ma non è tutto qui: come ben evidenziato nei rapporti dell’Unctad, l’agenzia delle Nazioni Unite preposta allo studio dello sviluppo e del commercio, sono molti di più i soldi che l’Africa restituisce regolarmente al Nord del Mondo che quelli elargiti dai Paesi ricchi. Insomma per ogni sms che inviamo per finanziare un progetto in terra africana, quel continente ne restituisce decine e decine. Il motivo è semplice: i governi africani sono strangolati dal debito e soprattutto dagli interessi imposti dall’alta finanza. Se poi a tutto questo si aggiunge il fatto che le materie prime, nonostante brevi fasi di rialzo, vengono praticamente svendute con la complicità dei governi locali, c’è davvero da mettersi le mani nei capelli.

 

Per carità, qualcuno potrebbe obiettare che se i dittatori africani non fossero corrotti le cose andrebbero meglio. Non v’è dubbio, però a pensarci bene la corruzione prevede sempre due complici: colui che intasca il denaro e colui che lo consegna. Quindi se alle statistiche dei corrotti si affiancasse anche la «dimensione dell’offerta», la graduatoria vedrebbe in testa Paesi come la Svizzera, la Gran Bretagna, gli Stati Uniti e la Cina.

 

E ora la crisi finanziaria

 

Come se non bastasse, la bolla speculativa è ormai scoppiata, il modello economico-finanziario globale è scosso alle fondamenta da una crisi di fiducia, le grandi banche rischiano il fallimento, altre hanno addirittura già chiuso i battenti e i debiti sono diventati insostenibili, soprattutto per i Paesi del Sud del mondo. Si tratta di un terremoto senza precedenti, causato dai cosiddetti derivati finanziari (Otc), cioè le scommesse sugli interessi, sui cambi, sul mercato a termine o sulle azioni che due controparti stipulano tra loro. Il valore di questi prodotti tossici, che non figurano sui bilanci delle banche e non sono negoziati sui mercati ufficiali, è arrivato alle stelle: stando ai dati pubblicati sul bollettino trimestrale della Banca dei regolamenti internazionali (Bri) di Basilea (Bank for International Settlements, Bis), alla fine del giugno scorso risultava che i titoli derivati Otc ammontavano a 600 mila miliardi di dollari. Più che un buco è una voragine, determinata da oltre un decennio di finanza allegra all’insegna della deregulation, del mercato cioè senza regole.

 

Premesso che queste politiche stanno causando disastri anche nelle cosiddette economie forti – il fenomeno della disoccupazione in Italia la dice lunga – viene spontaneo chiedersi come andranno a finire le cose nei Paesi poveri. Per quanto concerne l’Africa, il problema fondamentale è che i governi locali dipendono dagli aiuti stranieri: in alcuni Stati essi costituiscono addirittura il 40 per cento del bilancio. Denaro che a questo punto diminuirà sensibilmente, perché l’attuale crisi finanziaria internazionale sta già avendo delle fortissime ripercussioni sulla cooperazione allo sviluppo.

 

Una curiosità: il Comptroller of the Currency statunitense, l’ente ufficiale di monitoraggio finanziario, nel resoconto del 31 dicembre 2007 affermava che le banche Usa particolarmente esposte alla crisi erano la JP Morgan Chase con un totale di derivati pari a 85 mila miliardi di dollari, la Citigroup con 37 mila miliardi e la Bank of America con 33 mila miliardi.

 

Se si considera che nello stesso periodo il Pil complessivo dell’Africa sub-sahariana ammontava a 990 miliardi di dollari (nonostante registrasse una crescita del 6 per cento), viene spontaneo pensare a quanto il mondo dell’alta finanza sia tutto da rifare. Economisti e politici illuminati auspicano pertanto la convocazione di una nuova «Bretton Woods», ovvero di una conferenza internazionale in cui decretare la penalizzazione di ogni forma di speculazione per stabilire parità monetarie che consentano un sano sviluppo del commercio a lungo termine finalizzato allo sviluppo di tutti i popoli, anche perché nell’attuale congiuntura sono i poveri a pagare il prezzo più alto, poco importa se vivono nelle baraccopoli di Nairobi o a Castel Volturno.

 

 

Condividere la responsabilità

 

A questo punto qualcuno potrebbe avere la tentazione di gettare la spugna e dire che siamo tutti destinati a soccombere. L’abbiamo già detto: viviamo nell’epoca della globalizzazione, una realtà che ha bisogno di redenzione, cioè di evangelizzazione intesa come «globalizzazione perspicace di Dio». D’altronde essere cattolici significa respirare a pieni polmoni lo spirito dell’universalità. La posta in gioco è alta perché se da una parte oggi le merci circolano globalmente e riusciamo a trasferire digitalmente capitali a dismisura, dall’altra il mondo è sempre più diviso tra ricchi e poveri. Come se non bastasse, assistiamo inermi al rigurgito dei nazionalismi e dei provincialismi. Non v’è dubbio, allora, che la dimensione di comu­nione deve essere decisamente rilanciata essendo le nostre comunità, in piccolo, quello che dovrebbe essere il villaggio globale in grande. Questo in sostanza significa coniugare la so­lidarietà tout court con la sussi­diarietà intesa come corresponsabilità di fronte ai problemi del mondo, vicini e lontani.

 

Non basta mettere mano al portafoglio per sentirsi con la coscienza a posto. L’assunzione personale di nuovi stili di vita, in un mondo dove dalle piazze finanziarie si gettano al vento miliardi di euro quasi fossero coriandoli, è quantomeno un segno del cambiamento che sogniamo. Potrà sembrare utopistico, ma non v’è dubbio che a questo punto, in considerazione della bancarotta delle borse, alla luce anche delle sollecitazioni impresse dal magistero sociale della Chiesa, è inevitabile, prima che sia troppo tardi, la definizione di un sistema alternativo, incentrato sul primato della persona sul mercato.

 

Non è più tollerabile un’economia che per crescere acuisce il divario tra i ceti sociali. Un’ingiustizia di fronte alla quale non è lecito rimanere in silenzio. Parafrasando Martin Luther King, «non abbiamo paura delle parole dei malvagi, ma del silenzio degli onesti».

 

 

I numeri

 

963 milioni di persone nel mondo soffrono la fame;

 

40 milioni in pi√π rispetto al 2007;

 

907 milioni di persone sottonutrite vivono nei Paesi in via di sviluppo, di cui il

 

65%vive in soli 7 Paesi: India, Cina, RD Congo, Bangladesh, Indonesia, Pakistan, Etiopia;

 

+20%il prezzo degli alimentari dell’Indice Fao rispetto a ottobre 2006;

 

583 milioni di persone soffrono la fame in Asia;

 

236 milioni nell’Africa sub-sahariana;

 

30 miliardi di dollari l’anno è l’impegno finanziario necessario per ottenere il dimezzamento della fame nel mondo entro il 2015.

 

 

(Dati tratti dal rapporto Fao 2008).

 

 

 

Giulio Albanese, Giulia Cananzi, Alberto Friso

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