Quello che più ammiravo in quei ragazzi e ragazze era l'intelligenza e il dinamismo con cui affrontavano la vita. Ero ammirato dalla loro forza di volontà e dal loro bel sorriso.
del 01 gennaio 2002
Nell'area indigena satere-maué c'è una comunità di indios chiamata Nova America. Vicino a questo villaggio c'era una famiglia che spesso andavo a trovare. Era una famiglia dall'aspetto comune, ma purtroppo i figli erano colpiti da una malattia ereditaria. Dai genitori, apparentemente sani, nascevano figli che diventavano progressivamente paralitici nelle gambe e in parte nelle articolazioni delle mani.
Dopo analisi e diagnosi, la risposta fu che l'atrofia era dovuta a una causa genetica irreversibile. Per il resto della vita quei ragazzi sarebbero rimasti fisicamente menomati.
Quello che più ammiravo in quei ragazzi e ragazze era !'intelligenza e il dinamismo con cui affrontavano la vita. Uno di loro, Luigi, riusciva a trascinarsi sino alla piccola canoa di tronco d'albero per andare a pescare col filo e l'amo da pesca. Quei ragazzi avevano il libretto dei canti religiosi che imparavano in lingua saterê e portoghese. Riuscivano a confezionare oggetti di artigianato da scambiare con lenze da pesca, ami, indumenti, batterie, amache e quanto necessario per la loro sopravvivenza. Ero ammirato dalla loro forza di volontà e dal loro bel sorriso.
I mesi e gli anni passavano e a volte trovavo alcuni di loro ammalati ma sempre riuscivamo a superare il peggio.
In una delle mie visite Lenita, la maggiore delle figlie, che aveva già circa 18 anni, mi chiese se alla prossima visita le portavo un ombrellino colorato. Le chiesi se era sicura di volere proprio quello. E lei mi rispose:
- Sì, padre. Fin da piccola ho sempre desiderato un ombrellino colorato; vorrei scambiarlo con delle collane.
Risposi che avrei fatto il possibile, ma non potevo assicurarle che sarei riuscito a trovarlo. Annotai nel mio quaderno la richiesta, mentre lei mi osservava attentamente con uno sguardo pieno di speranza. Lenita, la mia piccola india paralitica quasi immobile in un'amaca, che sognava un ombrellino colorato.
Dopo la visita alle comunità, tornai alla sede della parrocchia, Barreirinha. Altri impegni e attività mi occuparono per varie settimane. Quando fissai la data per un altro viaggio all'area indigena del Rio Andirá, già erano passati tre mesi. Mentre stavo facendo gli ultimi preparativi per il viaggio, sfogliando il quaderno degli appunti, mi ricordai della richiesta di Lenita. Come fare per trovarle l'ombrellino colorato? In quei mesi c'era in Barreirinha p. Gabriele Modica, un mio confratello di missione che aveva da poco ricevuto del materiale dall'Italia; andai subito da lui e gli parlai del caso. Nella sua stanza, con mia sorpresa, c'era appeso un ombrellino bianco, rosso e azzurro; l'unico rimasto di tutti gli oggetti che erano arrivati. P. Gabriele me lo consegnò.
Partii per l'area indigena. Nella notte precedente il mio arrivo a Nova America, alcuni parenti di Lenita mi vennero incontro avvisandomi che la ragazza stava molto male. Il mattino presto quando giunsi presso la sua abitazione, tutti erano molto tristi; suo fratello mi venne incontro in canoa fino al battello e mi raccontò che non c'era più speranza per lei. Una forte polmonite con anemia la stava distruggendo.
Entrai in casa: i suoi genitori mi accompagnarono presso l'amaca. Guardando la ragazza compresi che la sua vita era alla fine. Mi rattristai e con grande sforzo trattenni le lacrime. Pregammo insieme per la morente. Poi chiamai Lenita, ella aprì gli occhi e mi riconobbe. Le dissi che avevo portato l' ombrellino colorato e lo aprii. In quel momento un fascio di luce solare irruppe attraverso il tetto di paglia e entrò nella casa illuminando l'ombrellino e l'ammalata. Lenita sorrise, alzò lentamente il braccio e con la mano toccò l' ombrellino, poi il braccio le ricadde. Le diedi l'Unzione degli Infermi con le preghiere di raccomandazione dell' anima e chiesi agli Angeli che la conducessero in cielo. La tristezza e la commozione era sul volto di tutti. Poco tempo dopo la ragazza moriva.
Durante la notte andai a dormire sulla barca a motore, ma il sonno tardava a venire. Quando finalmente presi sonno, sognai. Non ho mai dimenticato quel sogno: era un cielo pieno di angeli in vesti bianche che cantavano una melodia celestiale e in mezzo a loro ce n'era uno che teneva in mano un ombrellino colorato e sorrideva felice. Aveva il volto di Lenita.
'In verità. vi dico che tutte le volte che avete fatto ciò a uno dei più piccoli di questi miei fratelli. lo avete fatto a me!' (Matteo 25.40).
don Enrico Uggè
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