Non si dice “aspetto una cosa”, ma “aspetto qualcuno”. Non ho mai sentito una donna dire diversamente. Perché l'esperienza, quel che dovrebbe guidare la ragione, indica con chiarezza fin nelle parole di cosa si tratta. Nell'inizio c'è tutto.
Una donna non dice: "Aspetto un embrione". Dice: "Aspetto un figlio". E affermandolo spalanca le porte ad una storia irripetibile che contiene in sé tutto un mondo di diritti e lo stesso inizio del diritto. A un figlio - addirittura - siamo disposti a riconoscere più diritti del necessario. Perché è il futuro, perché è fragile, perché lo amiamo più di noi stessi.
Non ho mai sentito una donna dire: “Aspetto un embrione”. Per quanto inaspettato o addirittura indesiderato, diciamo: “Aspetto un figlio”. Perché quella è la realtà che inizia, che nasce dentro un’altra (da cui in greco il verbo en-bruo, che origina la parola embrione). Si chiama figlio. Ovvero la prima parola con cui noi esseri umani veniamo indicati da chi ci ha concepito. Prima ancora del nome proprio. La prima parola. La parola dell’inizio umano.
Non si dice “aspetto una cosa”, ma “aspetto qualcuno”. Non ho mai sentito una donna dire diversamente. Perché l’esperienza, quel che dovrebbe guidare la ragione, indica con chiarezza fin nelle parole di cosa si tratta. Nell’inizio c’è tutto. In ogni inizio c’è in nuce tutto quel che si svilupperà da quel seme.
Avviene così per le piante, per gli uomini. Avviene così anche per i personaggi teatrali o cinematografici. Quando appare Amleto sulla scena o quando compaiono certi attori di memorabili interpretazioni, nella prima battuta o gesto è contenuto tutto lo sviluppo del personaggio. Per questo l’inizio è delicato e importante. C’è in gioco già tutto. Per questo non tutelare l’inizio non è solo una spaventosa dimenticanza di qualcosa, anzi, di qualcuno che già c’è, che già entra in scena, ma una amputazione di futuro. Nel negare diritto di esistenza all’inizio, si compie una negazione di ogni diritto successivo. Il diritto all’inizio è l’inizio dei diritti.
La negazione del diritto a nascere non è solo negazione dei capelli, delle labbra, dei baci, del dolore, dell’amore, del sangue, e nervi e muscoli che saranno, non solo nega il personaggio alla scena, la sua unica e irripetibile parte nella scena del mondo, ma anche negazione di tutti i diritti. In quel che non chiamiamo cosa, ma figlio quando è nella nostra carne, nel nido del nostro ventre e invece, con orrendo spostamento lessicale, con assassinio nelle parole, chiamiamo “embrione” come un oggetto, quando vogliamo allontanarlo, tenerlo là nel bidone, o nel bidone o cloaca gettarlo, “cosandolo”, “reificandolo” nel nome prima ancora che nell’atto di spegnerlo. Perché si può forse accettare di spegnere un embrione, ma un figlio...
La violenza, come insegna la storia, inizia nelle parole. Nel cambiare il nome alle persone. Le menzogne antropologiche agiscono sul linguaggio, cioè sulla conoscenza. Le parole che si nutrono di vita, di esperienza sono continuamente contrastate dalle parole che si nutrono di ideologia, di astrazione. È qui che si ha per così dire la negazione dell’inizio degli inizi. Del primo elementare modo per indicare, per prender atto della realtà che abbiamo di fronte.
Se lo chiamiamo embrione invece di figlio (se pur nella nostra pancia, nella carne di chi amiamo, o della carne in cui siamo stati, noi stessi fin da subito “figli”, chiamati così e non in altro modo da chi ci ha generati) si può come indossando un guanto o una pinzetta, una lontananza disinfettante, manipolare, eliminare. Se lo chiamiamo ebreo o negro o zingaro invece di Joseph, Amin o Ruben è più facile trattarlo a parole o nei fatti in modo brutale o violento. Se lo chiamiamo embrione è più facile dire che non ha diritti. Ma qui, tra le parole della vita, non lo chiamiamo così. Lo chiamiamo figlio, e in questa parola dolce e tremenda, come primo nido tremante dell’esistere, nascono tutti i diritti.
A un figlio - addirittura - siamo disposti a riconoscere più diritti del necessario, di solito. Perché è il futuro, perché è fragile, perché lo amiamo più di noi stessi. E invece se lo chiamiamo in un altro modo? Il diritto all’inizio è nido, paglia, abbeveratoio, radice e bacio di tutti gli altri diritti. Affermare questa cosa che oggi sembra rivoluzionaria è affermare un principio di realtà. Affermare una esistenza, una entrata in scena che merita attenzione almeno come e quanto i problemi che può portare con sé. Essendo una battaglia per l’inizio di tutti i diritti non è una battaglia contro nessun altro autentico diritto. Anzi diventa la affermazione che li fonda tutti, altrimenti sarebbero affermati - come ora avviene spesso - su un grande vuoto, su una tremenda ombra. Perciò l’affermazione che è uno di noi è linfa vitale per ogni vera passione per tutti i reali diritti.
Davide Rondoni
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