Parlare del male e del perdono ai ragazzi di Parigi non è stato facile, per gli insegnanti...
Non è stato facile, per gli insegnanti delle banlieue francesi, aprire la porta dell’aula e presentarsi davanti agli studenti il giorno dopo il terribile attentato alla sede del giornale satirico Charlie Hebdo. Lo conferma a tempi.it il racconto di I. R., giovane professoressa di francese in una scuola media pubblica nella periferia di Parigi , dove convivono persone di diversa estrazione etnica, sociale e religiosa, la maggioranza delle quali nate in Francia.
Professoressa, dov’era lei nel momento dell’attentato?
Mercoledì è l’unico giorno in cui al pomeriggio non ci sono lezioni. Quando l’ho saputo ero appena uscita da scuola. La mia reazione è stata di sgomento: non mi capacitavo di come fosse stato possibile, visto che la redazione era sotto protezione. E poi, di fronte alle immagini, mi pareva impossibile che tanta violenza fosse accaduta proprio qui, a casa mia.
Il giorno dopo che clima c’era a scuola?
Ho trovato un mondo adulto in isteria totale. Sapevamo che era previsto un minuto di silenzio a mezzogiorno, ma la preside ci ha chiesto di non affrontare la cosa e di lasciare che fosse lei a introdurre il gesto. Però è stato impossibile non parlarne con gli alunni.
Cosa avete detto ai ragazzi?
I miei colleghi sono in prevalenza figli della stessa ideologia libertina di Charlie Hebdo, perciò proponevano lo slogan “Je Suis Charlie” mostrando le vignette satiriche. Ma anche questa è una visione violenta. Lo ha dimostrato subito la reazione verso uno studente universitario algerino che lavora da noi come sorvegliante: aveva fatto una battuta e prima ancora di capire cosa avesse detto tutti volevano che fosse licenziato. Peccato che qualcuno gli avesse attribuito una frase da jihadista che lui non aveva mai pronunciato, al contrario è emerso che vive in Francia perché la sua famiglia era stata sterminata dai fondamentalisti. Perciò, prima di entrare in classe ero doppiamente preoccupata. Poi però, quando ho messo piede in aula, ho visto davanti a me una grande attesa. I miei alunni volevano capire, spiazzati come di fronte a un mistero inspiegabile. Avevano già dibattuto e molti si chiedevano come mai una reazione tale per l’accaduto in Francia, mentre quando capita lo stesso altrove la gente tace. Altri musulmani invece giustificavano l’attentato. Nella maggioranza di loro, però, ho visto una tensione al dibattito che mi ha molto colpita. Ripeto, mi sono trovata davanti a una domanda aperta, una voragine, a cui il nostro mondo adulto “laicizzato” non sa rispondere.
Una voragine riempita da un minuto di silenzio. Come hanno reagito gli studenti a questa proposta?
Nella mia classe lo hanno rispettato tutti, ma nelle altre no. Non solo: il giorno successivo abbiamo trovato sotto un banco la foto di uno dei terroristi. Ma non se ne è parlato, perché, ancora una volta, se non si sa come affrontare i problemi li si nasconde. Finché non tornano a esplodere e si ricade nell’isteria e nella denuncia sterili e senza alternative.
Può spiegarsi meglio?
Ci sono ragazzi, una minoranza sicuramente ma significativa, che giustificano l’estremismo. Altri hanno una domanda enorme di senso a cui il libertinismo, privo di una verità e di un contenuto per cui valga la pena vivere, non risponde. È a loro che bisogna parlare perché non diventino prede del fondamentalismo. Spero che quello che è accaduto serva almeno a risvegliare le coscienze, come quando si è imposta l’ideologia gender attraverso l’introduzione della legge sul matrimonio fra persone dello stesso sesso. Allora rimasi colpita da tutti coloro che si impegnarono politicamente e socialmente. Anche se mancava e manca ancora un punto importante della riflessione, da cui ora è evidente che non si può più prescindere.
Ossia?
Non avevano capito che il problema non è solo il gender, è un problema educativo nel suo senso più profondo: l’uomo non sa più chi è. Per questo occorre ripartire dalla scuola. Adesso è evidente.
Come si affrontano alunni che giustificano il terrorismo?
Ho visto una mia collega musulmana piangere. Bisogna partire da questa umanità comune. Mi sono accorta di come ne abbia bisogno anche io, perché la risposta al mio dolore non me la riesco a dare da me: ho bisogno dell’altro, del mio alunno o collega, di ogni più piccolo briciolo della sua umanità che mi conforti.
Il ministro dell’Istruzione, invece, ha ribadito che bisogna trasmettere i valori della laicità: libertà, uguaglianza e fraternità. Ma a queste parole ognuno dà il significato che preferisce. Come trovare un punto in comune?
La gente percepisce che sono parole vuote ormai, perché non è stupida anche se magari difende il discorso ideologico. Le persone capiscono che il modello laicista non regge. Non a caso, pur essendo appese in classe le carte della laicità, non si possono toccare certi argomenti di storia senza che esplodano conflitti. Insomma, non si riesce più a convivere. Quanto accaduto deve farci domandare che cosa sia la laicità. E bisogna arrivarne a una.
Altrimenti?
Vedo tanti ragazzi con situazioni alle spalle così tremende e disperate, a cui non sappiamo rispondere, che a volte mi dico: “Potrebbero diventare kamikaze o distruggersi nel libertinismo sfrenato”. C’è un vuoto totale che li spinge a cercare qualcosa per cui valga la pena vivere, e se non lo trovano possono cadere facilmente verso risposte false.
Come fare se gli adulti non hanno una proposta?
Noi cristiani abbiamo un contenuto. Se maturiamo, se riscopriamo che siamo portatori di una grandezza e di una speranza che il mondo si sogna eppure attende, abbiamo tutto da proporre. Forse lo dimentichiamo troppo spesso, ma se maturiamo su questo possiamo cambiare molto. L’alternativa è la violenza: un mondo senza Cristo è senza verità, non ha limiti e si esprime con la violenza, quella delle vignette dissacranti di Charlie Hebdo o quella dei terroristi.
E come ha proposto questa verità in aula?
Ho parlato ai miei alunni del mio dolore di fronte alla violenza e al fatto che uno possa alzarsi al mattino per andare a lavorare ed essere ucciso brutalmente, oppure per andare a uccidere. Ho spiegato loro perché la violenza, anche se su scala ridotta e non esplicitamente teorizzata, può essere anche in noi. A questa affermazione si sono ribellati, ma quando ho fatto degli esempi rispetto ai rapporti fra loro o di noi insegnanti verso gli alunni, hanno capito. “Che fare davanti a questo male in noi e fuori di noi?”, ho domandato. E poi ho raccontato che in groviglio di violenza ho incontrato un’altra possibilità, quella che permette il perdono. A questa parola ho visto i loro volti alzarsi verso di me. Ora posso solo continuare a parlare di questo.
Benedetta Frigerio
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