Da ieri c'è più pace nelle Americhe e, dunque, nel mondo. E presto per un pezzo importante di umanità ci sarà anche più libertà, meno infelicità, meno sofferenza e più giustizia.
Da ieri c’è più pace nelle Americhe e, dunque, nel mondo. E presto per un pezzo importante di umanità ci sarà anche più libertà, meno infelicità, meno sofferenza e più giustizia (perché questo produce la pace, quando è ben governata e non è guerra sotto falso nome).
C’è più pace nelle Americhe e, dunque, nel mondo perché l’altra America di Barack Obama e la Cuba dell’altro Castro – Raúl, sinora solo l’ombra del líder maximo Fidel – hanno compiuto un reciproco e coraggioso "passo" che chiude i conti con più di mezzo secolo di dura, anzi bloqueada, ostilità e che annuncia la riapertura di uno di quei bracci di mare che, in ogni dove, gli esseri umani sanno purtroppo trasformare in "muri", d’acqua e di dolore, di sospetto e di odio.
Il 17 dicembre 2014 è, insomma, un giorno che resterà nella storia. E per un caso niente affatto casuale – tutti l’hanno potuto subito capire grazie alla pubblica testimonianza resa dai protagonisti dell’intesa e al loro: «Grazie, Papa» – coincide emblematicamente con il compleanno di Francesco, primo vescovo di Roma venuto dalle Americhe e pontefice, cioè costruttore di ponti, nel senso più pieno dell’antico e suggestivo termine. Soprattutto ai nostalgici delle «guerre fredde» e ai cultori (ce sono su ogni fronte e su ogni frontiera) delle separatezze arcigne forse sembrerà esagerato, ma si può ben dire che ieri, per il settantottesimo compleanno, papa Bergoglio il regalo più bello l’ha ricevuto proprio attraverso il coronamento dell’impegno suo personale (e della Chiesa cubana e della diplomazia vaticana...) per la fine del più ideologico dei conflitti che questo secolo aveva ereditato dal Novecento. Conflitto ideologico eppure mai finto, mai recitato, mai sospeso. L’ideologia, totalitaria, del regime e quella, asfissiante, dell’embargo si sono rivelate, anno dopo anno, tenacemente distruttive della libertà e della speranza dei più piccoli e dei più poveri, dei "sudditi" di un’isola magra, musicale e bellissima.
L’abbiamo documentato più volte sulle nostre pagine, dando eco e forza alle "voci di dentro" da una terra che per tanti cittadini del mondo era diventata sinonimo di Revolución e per tanti altri di Cárcel, prigione. La terra di un popolo che ha continuato a pagare in prima persona il prezzo della incomunicabilità pregiudiziale tra la «libera» America e la «liberata» Cuba.
Ci voleva la fede in Dio e nella buona volontà degli uomini, ci voleva la visione, ci voleva l’umiltà cristiana di una "diplomazia" che mette innanzi a tutto le persone (dei detenuti da liberare) per costruire il ponte capace di mettere in comunicazione non solo i capi di due nazioni, ma quei due "mondi". Francesco, anche stavolta, ha avuto e ci ha insegnato il coraggio del seme: il seme della pace che va gettato senza timidezza quando è tempo di farlo. Ma ci ha anche ricordato quanto sia importante avere il senso delle stagioni. Cioè dei momenti che non possono essere ignorati e persi, prima, per preparare il raccolto e, poi, per mietere e mettere a frutto. Sarà un lavoro lungo e non facile, ma è cominciato. I lavoratori sono, una buona volta, in campo.
Per fare la pace occorrono, infatti, uomini che sanno che cos’è la pace, o che l’imparano. Quelli che sanno, seminano. E assieme agli altri, quelli che imparano, raccolgono. A quest’ultima categoria hanno dimostrato di saper appartenere – lo diciamo con il rispetto che merita la loro storica scelta – Barack Obama (che ieri ha finalmente meritato il Nobel per la pace ricevuto nel 2009) e Raúl Castro (che da ieri può non essere più il rigido timoniere di una transizione impossibile). La prima categoria – propria dei maestri che sono soprattutto testimoni – è invece quella di uomini come Francesco, il pontefice. Colui che ha visto e costruito il ponte che serviva. E che ora, sullo stretto della Florida, c’è.
Marco Tarquinio
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