Di bioeconomia è sempre più necessario parlare, alla luce di una crisi che si è manifestata innanzitutto come deriva di senso, nella prassi di sacrificare l'umano al «primato economicista». Ne è convinto l'economista Stefano Zamagni, d'accordo nel leggere che vi sia ormai un sistema...
L’etica della vita alla base dell’economia. È la «bioeconomia». Il termine, introdotto dal cardinale Agelo Bagnasco nella Prolusione al Consiglio permanente della Cei, richiama i concetti di «biopolitica», o anche di «biodiritto», che tanto spazio trovano oggi nei programmi politici di tanti schieramenti, in Italia come all’estero. Ma di bioeconomia è sempre più necessario parlare, alla luce di una crisi che si è manifestata innanzitutto come deriva di senso, nella prassi di sacrificare l’umano al «primato economicista». Ne è convinto l’economista Stefano Zamagni, d’accordo nel leggere che vi sia ormai un «sistema che va posto in discussione», un modello «da rivoluzionare» perché «ha mostrato l’assoluta inadeguatezza morale e pratica».
«Il cardinale Bagnasco ha il coraggio di uscire allo scoperto e di proporre un intervento di forte originalità – spiega Zamagni –. Perché dire che oltre alla biopolitica e al biodiritto si deve parlare anche di bioeconomia è gettare un sasso nello stagno. Una questione, per così dire, vitale. È dire cioè che non tutti i modelli di economia di mercato sono amici della persona umana. Certo, all’economia di mercato non c’è alternativa. Ma alcuni modelli sono più compatibili di altri con la Dottrina sociale della Chiesa. Il cardinale rimarca il passaggio della Caritas in veritate in cui si afferma che «la questione sociale è diventata radicalmente questione antropologica».
È il tema centrale. Affrontare la questione sociale vuole dire fissare l’attenzione sulle cause più profonde della crisi, e non solo sugli effetti. Bagnasco tira le orecchie a chi vuole far credere che, superata la fase critica della crisi, si potrà tornare a fare affari esattamente come prima. Ma è un’illusione, e va detto con forza. Se non si intacca l’assunto antropologico basato sul presupposto dell’individualismo e dell’auto-interesse, per cui il discorso economico regola se stesso, non si tocca l’origine vera di questa crisi. Insomma non ci sarà ripresa fino a che le coscienze «respirano una cultura che esalta il successo e la ricchezza facile»?
Il punto è che se non vi è più un fine che non sia legato al desiderio individuale, all’interesse o al piacere del singolo, si arriva abbastanza facilmente a certe posizioni su vita, famiglia, matrimonio, aborto, eutanasia. O, appunto, economia. Su questi temi i cattolici, purtroppo, troppo spesso sono andati a rimorchio delle altre posizioni, mediando per ottenere in cambio qualche misura in più per aiutare i poveri o le famiglie. Ma si tratta di cerotti, di pezze, non della cura del male di cui soffre l’organismo. In questa fase il mondo cattolico deve avere il coraggio e la volontà di elaborare un pensiero che mostri gli errori della visione individualista e auto-interessata. Non basta affermare la legge naturale: è compito nostro riuscire a mostrare le ragioni per cui la legge naturale è superiore all’assunto individualista e auto interessato. Bagnasco ha centrato il cuore del problema. Il modello economico deve cambiare, in quale direzione?
Si tratta di guardare a soluzioni che mettono al centro la persona non solo nel momento della distribuzione della ricchezza, ma anche nel modo in cui è prodotta. Oggi non basta più pagare la giusta mercede ai lavoratori o dare le ferie: il processo produttivo non deve essere umiliante per la persona e per la sua dignità. Il concetto di sviluppo umano integrale è legato a tre fattori: Pil, beni socio-relazionali, beni spirituali. Quello che vuol dire il cardinale Bagnasco è che per far crescere il prodotto interno lordo non si possono sacrificare le altre due componenti. In nome dell’economia, cioè, non è bene mettere slot-machine nelle scuole, oppure abolire le feste. Dall’etica della vita si può arrivare a parlare di lavoro e consumi?
In una prospettiva nuova dobbiamo privilegiare un modello di sviluppo che consideri i beni relazionali, i servizi alla persona, i beni comuni. Il modello fondato solo sul consumo di beni privati è un sistema pernicioso, non può più reggere. Non possiamo mettere sullo stesso piano gli interessi economicistici con i valori non negoziabili. Non si può accettare il principio che ti dò più soldi, ma in cambio tu rinunci a realizzare il tuo potenziale di lavoro. Faccio un esempio più chiaro. Se si detassano i redditi delle donne, l’effetto è quello di aumentare il potere d’acquisto, ma anche di disincarnare la donna dalla famiglia. Ora, se la donna è madre non le interessa avere più soldi, ma più tempo. Il tema dell’armonizzazione dei tempi di lavoro con la vita familiare vale anche per i papà. Che senso ha aumentare le retribuzioni se poi l’organizzazione del lavoro ti impedisce di essere genitore? In un passaggio viene espresso «stupore» per l’incomprensione che ha colpito l’economia sociale e il Terzo settore. Cosa ne pensa?
L’Italia ha un modello di economia che va oltre il modello dicotomico basato solo sullo Stato e sul privato. Noi abbiamo anche la dimensione del "civile". Il problema è che alla sfera dell’economia civile non possono andare solo le briciole o la pubblica beneficenza: questo è un universo a cui va permesso di esprimere il suo vero potenziale, anche sotto il profilo economico. Scuole, ospedali, case di riposo, cooperative sociali. Considerare il civile come tappabuchi è un errore. Eppure fino a oggi l’economia civile di mercato è sempre stata trattata come una ruota di scorta. È tempo che lo Stato smetta di "concedere" e incominci invece a "riconoscere", accettando il principio di sussidiarietà, e avendo la capacità di spiegare in Europa la forza e il valore di un modello.
Massimo Calvi
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