Zingaro e Santo 5Il Martirio

Mia madre gli portava da mangiare in carcere e

Zingaro e Santo 5Il Martirio

da Quaderni Cannibali

del 02 novembre 2009

 

II. IL MARTIRIO (2)

 

2.Atteggiamento del servo di Dio di fronte al martirio

 

Quando negli anni '60 raccoglieva notizie per scrivere il libretto sul Pelé, il P. Fandos poté interrogare tre compagni di prigionia del servo di Dio, che si salvarono all'ultimo momento. Essi assicurano che in prigione il servo di Dio si dedicava alla preghiera. Scrive P. Fandos:

 

'Sopravvivono ancora alcuni di coloro che furono suoi

compagni di prigione, come il commerciante

D. Vicente Bruno, l'impiegato D. Mariano Sanz e l'agricoltore

D. José Subías. Parlano del suo raccoglimento e

del suo vivere in un clima di orazione'48.

 

Rufino Bruno Vidal sentì dire da suo fratello Vicente Bruno, uno dei compagni di prigione del servo di Dio, che 'in prigione (...) pregavano e recitavano il rosario' (Summ., p. 23, 20). Vari testimoni seppero da Pepita, la figlia adottiva che gli portava tutti i giorni il cibo in carcere, che passava ore a recitare il rosario, fino al punto di mettere in pericolo la vita per dimostrare la propria fede. Pepita lo supplicò molte volte in lacrime di non recitare il rosario né di farsi vanto della sua fede perché lo avrebbero ucciso.

 

Ricorse perfino all'anarchico Eugenio Sopena, uno dei membri più influenti del comitato rivoluzionario, affinché salvasse la vita del Pelé, che egli stimava molto. Sopena cercò più di una volta di convincere il servo di Dio a consegnargli la corona del rosario e a dissimulare la sua condizione di cattolico, ma non vi riuscì. Il gitano non volle consegnarli il rosario perché, come afferma il testimone Andrés Jiménez Jiménez, gitano, 'il rosario significava la fede in Cristo, il recitarlo pregare' (Summ. p. 54, 9), e continuò a recitarlo in carcere.

 

Maruja, figlia di Pepita, che aveva 12 anni, visse tutto il dramma e ricorda la sofferenza della madre:

 

'Mia madre gli portava da mangiare in carcere e

a volte la accompagnava la Teliné. Seppi che recitava

il rosario in carcere e che Pepita chiese ad Eugenio Sopena,

molto amico della famiglia, di aiutarlo ad uscire e di

farsi consegnare il rosario. Eugenio Sopena rispose

che aveva cercato di farlo molte volte,

ma che il Pelé non lo ascoltava affatto'

(Summ., p. 21, 14).

 

Clotilde Jiménez, la Teliné, era figlia di Pepita ed aveva 10 anni, in quanto era nata nel giugno del 1926. Anche lei ricorda perfettamente il dramma vissuto in famiglia quando Pelé era in carcere. Trascriviamo la dichiarazione che fece di fronte a P. Gabriel Campo Villegas, CMF, a Castelldefells il 3.XII.1993:

 

'Eugenio Sopena era “una bella persona”.

Viveva con la madre all'ultimo piano della nostra casa. La casa era affittata dal nonno Menino, fratello del Pelé. Il Pelé stava con D. Nicolás.

Mia madre, la Pepita, diceva a Sopena: “Eugenio, prendigli la corona del rosario”.

E Pepita andava e gli diceva: “Zio, non pregare tanto.

Dammi il rosario. Gettalo, gettalo, che possa passarti qualcosa”.

E Pepita usciva con il mal di testa. Non aveva potuto convincerlo.

Gli ripeteva: “Ti uccideranno”. Eugenio Sopena chiese molte volte al Pelé di consegnargli la corona del rosario. Ma non vi riuscì'

(Summ., pp. 54-55, 2).

 

Amparo Cenizo, nuora di Pepita, udì molte volte la suocera dire che, quando il Pelé era in carcere, gli portava da mangiare e che gli disse molte volte 'di consegnare il rosario perché lo avrebbero ucciso; anche Sopena insistette molte volte affinché gli desse la corona. Ed egli sempre rifiutò dicendo che era l'unica che possedeva. E forse si sarebbe salvato dalla morte se l'avesse consegnata. Penso che così come stavano le cose in quel momento, il servo di Dio sapeva che lo avrebbero fucilato se non avesse rinnegato la propria fede. Tuttavia, non apostatò dalla sua fede. Piuttosto preferì morire'. (Summ., p. 27, 14).

 

Quasi unanimamente gli altri testimoni affermano che il servo di Dio recitava il rosario in carcere, mettendo in pericolo la propria vita (Cf. Summ., pp. 6, 15; 15, 14; 13-18; 42; 44; 49, 14). Aggiungono che un personaggio influente del comitato, per salvarlo gli chiese di consegnargli la corona del rosario e di non mostrare la sua religiosità, ma il servo di Dio preferì affrontare la morte (Cf. Summ., pp. 6, 15; 15, 14; 30, 13; 34, 13-15; 44, 15; 46; 49, 14).

 

Sulla base di fonti attendibili, P. Fandos afferma che il servo di Dio morì gridando: 'Viva Cristo Re'49. Effettivamente, Telesforo Jordán de Urriés, parente di Nicolás de Otto, scrisse nel 1965 al P. Fandos dandogli alcune notizie sul Pelé; tra l'altro gli diceva che era voce comune a Barbastro, subito dopo la guerra, che il servo di Dio fosse morto al grido di: 'Viva Cristo Re'50.

 

Confermano il fatto vari testimoni, tra cui José Cortés, che lo udì 'in un commento fatto da alcuni nemici della religione' (Summ., p. 7, 22); Isabel Jiménez Cenizo, nipote di Pepita, secondo quanto le raccontò sua nonna (Summ., 30, 22); e le sorelle Trinidad, Clotilde e Laura Jiménez, figlie di Pepita (Summ., pp. 46; 55, 4).

Il Rev.do Andrés Carrera Puértolas, che era seminarista e che il primo agosto venne mandato come soldato a Barbastro, ricorda perfettamente 'i commenti che si facevano in quei giorni sul gitano Pelé: “Quando lo portavano a fucilare con molti altri nel cimitero, non smetteva di gridare: Viva Cristo Re, e morì con il rosario in mano”' (Summ., p. 60).

 

3. Il martirio materiale

 

Non esiste la certezza assoluta neanche per quel che riguarda la data del martirio. P. Gabriel Campo, seguendo P. Fandos, sostiene che il Pelé fu martirizzato assieme ai tre padri claretiani il 2 agosto 193651. P. Fandos afferma che il servo di Dio fu condotto al cimitero e fucilato 'il 2 agosto 1936, verso le tre del mattino, insieme a 19 tra sacedoti, religiosi e selezionatissimi cristiani'52.

 

Anche Simón Sánchez, ex religioso claretiano, afferma che il servo di Dio fu assassinato il 2 agosto 1936 (Summ., p. 9, 17). Román Celaya sa soltanto che il martirio ebbe luogo nei primi giorni di agosto' (Summ., p. 12, 17).

Uno dei testimoni che dichiararono nella causa penale contro A. Avellana, Conrado Mur Peropadre, afferma di essere stato arrestato il 22 luglio, di essere stato prima nella prigione del partito e poi trasferito nel convento delle Cappuccine, e prosegue:

 

'Una notte presero venticinque prigionieri per fucilarli;

tra di loro ricordo che c'erano Fernando Gagas, Don Tom√°s Andanuy,

sacerdote, i Perrelas, padre e figlio, P. Crisanto, scolopio,

il gitano conosciuto come il Pelé, un altro conosciuto come il

Creus, alcuni padri missionari ed altri che non ricordo, che

l'Avellana andava chiamando nelle loro celle'

(Summ., pp. 77-78).

 

La lista delle persone indicate dal testimone coincide quasi completamente con la lista, meno precisa, della relazione che si fa nella Causa Generale, dove si scrivono giorno per giorno i nomi dei fucilati nella città di Barbastro.

 

'Il 2 agosto 1936, per ordine del comitato levarono dalla prigione del partito con l'autorizzazione suddetta, l'Ill.mo Sig. don Mariano Sesé, c

anonico, il Rev. Sr. don Tomás Andanuy, beneficiato, il Rev.do Sr. don José Martínez, tenore della cattedrale, il Rev.do don Mariano

Frago, della parrocchia di San Francesco, il Rev.do Sr. don Victorino Puyol, della parocchia di Nostra Signora dell'Assunzione, il

Rev.do Sr. don Manuel Falceto, sacerdote, il Rev.do Sr. don Mariano Puig, sacerdote, e i Revv. PP. Felice Mun√°rriz, Juan

Díaz e Leoncio Pérez, assieme a Salvador Perrela Estadinti, meccanico, Salvador Perrela Blasco, meccanico, e Fernando Gabas García, proprietario, i quali furono assassinati nel Cammino Vecchio di Saragozza nella zona denominata

“La Forca”, sita nel confine municipale di Barbastro'53.

 

Il documento si sbaglia nell'indicare il luogo della fucilazione, in quanto si sa che questa avvenne nel cimitero, e dimentica i nomi del padre scolopio Crisanto Domínguez, di Gonzalo Creus, sottufficiale dell'esercito, e del servo di Dio Zeffirino Jiménez Malla, che indica tra i fucilati in data sconosciuta nella prima quindicina di agosto54, e che, secondo il testimone Conrado Mur, già citato, furono fucilati lo stesso giorno dei padri claretiani.

Ebbene, si sa con certezza che i PP. Felipe de Jusús Munárriz, Juan Díaz Nosti e Leoncio Pérez, furono martirizzati il 2 agosto e pertanto anche il servo di Dio sarebbe stato fucilato lo stesso giorno.

 

D'altra parte il testimone Alejandro Sesé afferma di sapere che egli fu 'tra i primi che uccisero' (Summ., p. 33, 14-22). E in una dichiarazione extragiudiziale fatta di fronte a P. Gabriel Campo, aggiunge: 'Siccome la morte del Pelé fu tra le prime, la notizia si seppe e circolò subito. Ancora non vi eravamo abituati. Poiché era tra i primi, produsse un colpo maggiore' (Proc. p. 177). Anche la testimone Dolores Ibarz afferma che lo uccisero 'al muro del cimitero e durante i primi giorni della rivoluzione' (Summ., p. 51, 14-23).

Nonostante questo, don Mario Riboldi sostiene che il servo di Dio non fu martirizzato il 2 agosto, bensì l'8 o più probabilmente il 9 dello stesso mese. In effetti se, come detto prima, il Pelé fu arrestato il 25 luglio e rimase in carcere quindici o sedici giorni, come afferma Maruja55, deve essere stato martirizzato l'8 o il 9 agosto56.

 

Scrive don Mario Riboldi:

 

'Nella notte del 9 agosto 1936, tra il sabato e la domenica, venne ammazzato il vescovo Florentino, con lui probabilmente il padre benedettino Mariano Serra Almazor e altri ancora: erano tredici persone in tutto. C'era pure Zeffirino Jiménez Malla tra i fucilati? Forse si, se i calcoli fatti non ci ingannano'57.

 

D'altra parte, come dichiarò Román Celaya nella sua testimonianza del 13-14 febbraio 1993, nei primi giorni evitavano di uccidere gitani e stranieri (Cf. Proc., f. 180). Sarebbe stato strano che fosse proprio il gitano uno dei primi ad essere fucilato.

Anche qui possiamo concludere dicendo che poco importa che sia stato fucilato il 2 o l'8 agosto. Importante è sapere che fu martirizzato per aver professato la fede.

 

Fucilato nel cimitero di Barbastro

 

Benché non si possa indicare con certezza assoluta la data, si sa che il servo di Dio fu fucilato nel cimitero di Barbastro assieme ad altre persone.

Secondo quanto racconta il testimone José Castellón, figlio del 'Ferruchón', intimo amico del Pelé, questi non morì sotto la prima scarica e fu un tal Bellostas a dargli il colpo di grazia. Lo sentì molte volte per bocca di suo padre, il quale a sua volta lo sentì da uno di coloro che intervennero alla fucilazione:

 

'Colui che influì sufficientemente sulla sua morte fu un tal “Bellostas” che viveva nella stessa strada del Pelé; quando fucilarono i sacerdoti e i laici, il

Pelé non morì alla prima scarica di colpi e quindi “Bellostas” disse:

“Il gitano vive ancora, è il migliore”, e gli sparò di nuovo uccidendolo:

fu il colpo di grazia. Questo lo seppi perché me lo raccontò mio

padre molte volte ed egli lo udì da uno che aveva preso parte direttamente

alla fucilazione e che aveva una pena molto grande

perché tra il gruppo dei fucilati c'era il Pelé. Questo stesso testimone

disse che il Pelé era morto con il rosario in mano'

(Summ., p. 49, 15-22).

Dagli atti del processo penale contro i criminali di guerra istruito dal procuratore generale negli anni '40, si sa che generalmente le vittime, prima di essere gettate nella fossa comune, venivano spogliate di tutto quel che avevano addosso, a volte perfino della dentatura. Poi, ammassate in una fossa comune, erano coperte di calce viva e di acqua perché la calce facesse effetto. Quindi venivano coperte con la terra. Così confessa, tra gli altri, Mariano Carruesco Arnal, che aiutava il becchino in questo triste compito (Cf. Proc. f. 206).

 

Non c'è da meravigliarsi del fatto che quando procedettore al riconoscimento delle salme, nonostante i loro sforzi i gitani non poterono identificare il servo di Dio. Così racconta Maruja, figlia di Pepita: 'Da quel che ho sentito dire, fu sepolto in una fossa comune del cimitero e coperto di acqua e calce viva. Non fu possibile recuperare i resti benché mio padre, dopo la guerra, fosse andato al cimitero, ma non poté identificarlo' (Summ., p. 21, 18).

 

4. La causa del martirio ex parte tyranni

 

E' sufficientemente provato che durante la guerra civile ci fu in Spagna una vera persecuzione religiosa e che furono uccisi migliaia di sacerdoti e di religiosi, compresi molti laici, soltanto per odio verso la religione.

Per quel che riguarda la città di Barbastro, nei processi istruiti per le cause dei martiri claretiani e del Vescovo della città, Florentino Asensio Borroso, è stato provato che tanto i sacerdoti quanto il Vescovo furono uccisi esclusivamente per odio verso la fede. Nel caso dei claretiani la causa del martirio è fuori discussione, in quanto essi sono stati dichiarati beati il 25 ottobre 1992. Anche per quanto riguarda il caso del Vescovo, si sa che egli fu martirizzato in odium fidei:

 

'Dalle dichiarazioni processuali si deduce con tutta evidenza e unanimità di criteri che l'assassinio del Servo di Dio è da imputarsi esclusivamente al fatto di essere Vescovo e Sacerdote; cercavano di distruggere la religione'58.

 

Nel nostro caso, secondo quanto affermano unanimamente i testimoni, non ci furono né vendetta personale, né motivi politici (il servo di Dio non entrò mai in politica), né questioni d'interesse né odi accumulati per inganni o per cattivi affari da parte del Pelé, poiché egli era un uomo pacifico, onesto ed incapace di far del male a chicchessia. Lo arrestarono e poi lo uccisero perché era un uomo estremamente religioso, che manifestava pubblicamente la propria fede, e perché amava portare con sé la corona del rosario e recitarlo in carcere.

 

Trascriviamo alcune dichiarazioni dei testimoni.

Rom√°n Celaya Puyuelo, nato nel 1913, che conosceva bene il servo di Dio, dichiara:

 

'Non mi risulta che partecipò ad alcun partito politico. Non ho mai

sentito dire che lo abbiano ucciso per odio personale o per vendetta.

Sono convinto che sia stato condannato a morte per il fatto di essere stato

un cristiano e una buona persona'

(Summ., p.12, 19).

 

Rufino Bruno Vidal, del 1904, che conobbe il Pelé fin da quando era bambino, afferma:

 

'L'unico motivo che avevano per ucciderlo era la sua religiosità,

che aveva manifestato pubblicamente varie volte. Ricordo di averlo

visto aprire le processioni portando un grande cero. Era, inoltre,

un cattolico riconosciuto come tale in città. Non appartenne a nessun p

artito politico né venne accusato per odio o vendetta di alcun tipo'

(Summ., p. 23, 18).

 

La testimonianza di Angel Tornés non è meno esplicita e significativa:

 

'Aggiungo alla mia dichiarazione che il servo di Dio fu condannato per la

sua religiosità e non mi risulta che ci siano stati altri motivi, né politici,

 né d'interesse, né sociali, né di odio personale. Credo

che l'ambiente di quei giorni era tale che sia stato ucciso per la

stessa ragione per cui avevano ucciso i sacerdoti e i religiosi,

cioé per odio verso la fede, così come uccisero anche

altri laici per lo stesso motivo'

(Summ., p. 26).

 

Gli altri testimoni affermano la stessa cosa.

 

Trascriviamo alcune frasi: 'Per essere cattolico ed amico dei curati' (Summ., p. 6, 19); 'Per essere un buon cattolico' (9, 19); 'Perché portava la corona del rosario ed era un cattolico praticante' (22, 19);'Per aver difeso un sacerdote e perché portava il rosario con sé' (27, 19); per la 'sua religiosità'; per il 'suo fervore religioso' (30, 19; 34, 16-22); 'Per odio nei confonti della religione' (31, 22b).

 

E' certo che uno dei carnefici, Antonio Avellana, che incitò i compagni a levare il servo di Dio dal carcere per fucilarlo, quando lo giudicarono dopo la guerra, disse per difendersi di averlo fatto perché 'aveva dell'animosità verso di lui in quanto il Pelé aveva imbrogliato un suo parente di nome Antonio, conosciuto come il cavallerizzo di Corzán, quando gli vendette un cavallo' (Summ., p. 78). A ciò risponde molto bene Maruja, figlia di Pepita, dicendo che il Pelé non poté ingannare nessun parente di Avellana 'perché da molti anni non trattava più affari di cavalli; era povero e viveva con D. Nicolás, come persona di fiducia, e questi gli passava uno stipendio' (Summ., p. 56).

 

Aggiungiamo che sembra molto strano che A. Avellana solo allora si sia ricordato della presunta truffa del Pelé, mentre prima non aveva detto nulla. D'altra parte non poté provare di fronte al tribunale tale inganno.

 

 

 

 

 

 

48 FANDOS, p. 23; Summ., p. 69.

 

49 FANDOS, p. 24, Summ., p. 70.

 

50 FANDOS, p. 29; Summ., p. 72.

 

51 Cf. Esta es nuestra sangre, Madrid, 1992, p. 222.

 

52 FANDOS, p. 24; Summ., p. 70.

 

53 Barbastren, CPM, Appendix, p. 61.

 

54 Ibid., p. 64.

 

55 In una dichiarazione fatta di fronte a P. Riboldi e a P. Gabriel Campo, disse in realtà che rimase in carcere 15 o 16 giorni. Cf. Riboldi 'Un vero kalò', p. 137.

 

56 Ibid.

 

57 RIBOLDI, p. 150.

 

58 Barbastren, CPM, Informatio, p. 145.

 

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Romualdo Rodrigo

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