Custodire. Che cosa significa esattamente questo verbo, tornato un po' d'attualità grazie ai primi interventi di Papa Francesco?
Siamo in Brianza, ma dalla grande finestra si vedono i lampi rossi e bianchi dei grattacieli di Garibaldi Repubblica: ammoniscono gli aerei a non abbassarsi troppo presto, rivendicando al contempo il record cittadino di altezza dal suolo. Proprio lì sotto, si agita una porzione importante della movida milanese: locali, divertimento, alcol. E droghe. Mi viene un po’ da sorridere.
Sono il custode della comunità, per stanotte.
Mi aggiro nei corridoi con il mazzo di chiavi del mondo, come un secondino; busso piano alle porte per porgere la buona notte, come fa un buon padre di famiglia; ascolto i richiami lievi e misteriosi che solo i muri antichi riservano. Sto all’erta, la pallida copia di una sentinella.
I “ragazzi” dormono, la villa è assopita, il parco tranquillo nella penombra dei lampioni. Sulla residua ghiaia del viale puoi immaginare carrozze e cavalli, anche se appena fuori dal cancello le auto lisciano l’asfalto.
Perché le notti qui sono un po’ sospese nel tempo, mondo a parte nel mondo a parte che è, in fondo, una comunità terapeutica.
Custodire. Che cosa significa esattamente questo verbo, tornato un po’ d’attualità grazie ai primi interventi di Papa Francesco? L’ultima mezz’ora della giornata la passo a scrutare quest’espressione; sul soffitto della stanza s’involano domande, flash e frasi miliari: sono forse io il custode di mio fratello?
Chi o cosa custodiamo qui in comunità?
Scatta, inevitabile in questi casi, il gioco dei sinonimi: aver cura, avvolgere, coprire, proteggere, velare, nascondere, conservare, sorvegliare, preservare, difendere. Contrari: trascurare, abbandonare.
Custodire. Assaporo il verbo e trovo una sfumatura negativa, passiva. Il custode gioca in difesa – anzi, in porta - contro eventi negativi: si custodisce un palazzo perché non sia preda dei ladri, un prigioniero perché non fugga, un bambino perché non si faccia del male, un animale perché non provochi danni. Dare in custodia, agente di custodia, angelo custode. “Custodire i sensi”, raccomanda(va) la morale cattolica, contro le tentazioni. Si conserva, perché qualcosa non si rovini. Si custodisce un segreto, perché non si disveli, degradandosi a chiacchiera.
Ma noi, chi custodiamo? E, soprattutto, da cosa?
Le persone con problemi di dipendenza qui vengono effettivamente velate al resto della società, nascoste alla vista degli altri, con tutta l’ambivalenza di chi intende innanzitutto difendere e riscattare le persone da se stesse e dai propri guai, ma finisce anche per preservare i “regolari” là fuori – un po’ tutti noi – dai casini che i “tossici” combinano a raffica. Eppure il velo che viene posto attorno agli uomini e alle donne accolti é una delle condizioni fondanti per il loro disvelamento; consente loro di far vedere parti di sé che hanno tenuto compresse e nascoste per anni, sovente anche a se stessi. E quindi permette di cercare una strada autentica di progresso, di cambiamento.
Sul limitare del sonno concludo che il custode, in fondo, è per sua natura ambivalente. E’ un portiere - e l’area in cui può operare è limitata - ma da lì ha una grande visione del campo di gioco. Come se guardasse costantemente al futuro, a ciò che potrebbe essere, da lì in avanti.
Sta all’erta per contrapporsi ai pericoli, ma ha dalla sua parte il tempo dilatato per progettare e creare condizioni positive; in fondo ha in mano le chiavi per chiudere e per aprire, per coprire e scoprire.
Alla fine scopro che nella nostra lingua madre, il toscano, custodire è anche sinonimo di mantenere, nutrire: “deve pensare a custodire la famiglia”. Un altro verbo ambivalente: perché l’azione di nutrire un altro fonda e si fonda sulla dipendenza; ma al contempo, pone la basi per la crescita, aprendo e alimentando futuri possibili.
Oliviero Motta
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