Dostoevskij, o la coscienza di essere umani

Nasceva duecento anni fa il grande scrittore russo, che ha saputo riportare nella pagina scritta l’abisso e la luce che tessono la trama dell’animo umano.

Fëdor Michajlovič Dostoevskij: non c’è forse scrittore che ha saputo riconsegnare più profondamente e più lucidamente l’io a se stesso, con verità, con intelligenza, con spietatezza anche. Perché Dostoevskij, di cui oggi ricorre il 200° anniversario dalla nascita, è stato colui che per primo, e forse più di tutti, o certamente come i grandissimi, è stato in grado di scendere nell’abisso del proprio io, nel “sottosuolo”, e indagarlo portandovi luce, ma pure guardando il buio, senza mai cessare di scavarvi dentro. C’è in quel buio che abita il fondo di ogni cuore una consuetudine universale ˗ l’essere al mondo come denominatore di tutti ˗ e al tempo stesso singolare ˗ poichè ognuno è uno. C’è la verità del chiaroscuro, del duro prendere atto che nell’umanità vivono e persistono la fiamma e la cenere, la luce e l’ombra, eternamente tesi e eternamente sovrapposti, nella danza della libertà che è sfida e talvolta peso da deporre (così Il grande Inquisitore, indimenticabile dramma che tutto fa ruotare sui cardini della gravosa libertà donata).

A chi volesse concedersi la possibilità della lettura di uno dei grandi romanzi di Dostoevskij, capiterebbe l’occasione di una più piena conoscenze di sé: anche io, anche tu siamo plasmati di quella terra. Tutti, in un modo o nell’altro, viviamo della tentazione, della giustificazione del male (Delitto e castigo), della ricerca della purezza. Tutti viviamo tra fallimenti e avanzamenti. Tutti sentiamo il dramma del bivio o l’urto dello scandalo:

Certe volte, specialmente davanti ai peccati degli uomini, ti sentirai perplesso e ti chiederai: “Devo ricorrere alla forza o all’umiltà e all’amore?”. Decidi sempre di ricorrere all’umiltà e all’amore. Se prenderai una volta per sempre questa decisione potrai dominare il mondo intero. L’umiltà e l’amore sono una forza inaudita: la più grande che vi sia, non ve ne è un’altra che la eguagli. Ogni giorno, ogni ora, ogni istante scruta te stesso e sorvegliati, perché la tua immagine sia bella.

Queste parole dello stàrets Zosima ci sono compagne, perché rimandano a ciò che non raramente possiamo aver visto attraversare, nel dubbio, le nostre giornate: forza o umiltà? Alto o basso? Nelle pagine così intense dedicate al monaco, la via è quella della piccolezza e della fede, della mistica accettazione del minimo come sola rivelazione del grande.

Non che lo scrittore avesse fatto vita ordinata e santa; ma Dostoevskij sentiva quella sete, quell’arsura che conduceva alla spoliazione e all’abbandono, anche senza farli suoi, mai negando o nascondendo ˗ in pagine anche dal tono autobiografico (Memoria dalla casa dei morti) ˗, la necessità della giustizia e lo sforzo di resistenza per la pena del mondo, per lo scandalo del male, per l’abisso del nulla. Così, egli faceva sintesi della grande tradizione spirituale ortodossa, passata tra l’incudine della personale sofferenza e il martello del tempo e del luogo, arrivando a delineare, nella polifonia delle voci (Bachtin) anche contorni di santità, come il principe Myškin, quell’Idiota che assume i gradi del povero di spirito, del buono, del bello, del puro.
In una esistenza segnata da turbini e malattie, da perdite e incoerenze, da umiliazioni e atti di coraggio, Dostoevskij riesce a fare spazio all’alternativa, sa riportarci sul braciere della nostre incostanze dando fiducia alle nostre costanze. Ma, soprattutto, sa condurci per mano nel ritmo della coscienza, nelle sue fibrillazioni, riservando all’arte, alla bellezza, alla letteratura uno spazio e un peso tanto decisivi da farne strumenti di salvezza, sia per il qui e ora, sia per l’oltre. Così avendo la forza di intingere la penna nella parte più contraddittoria dell’anima, e farne parola, e aprendola a tutti, incarnando nella pagina quanto vive uno dei suoi personaggi più inquietanti e affascinanti, quello che compone le Memorie dal sottosuolo:

Io in vita mia ho solamente portato all’estremo quel che voi non avete osato portare nemmeno a mezza strada, considerando per di più la vostra vigliaccheria come una forma di buon senso – e in tal modo vi siete consolati, ingannando voi stessi.

Tra i ‘demoni’ che eccedono ogni quotidiano e la speranza di una strada buona, Dostoevskij conduce la sua battaglia di vita e di arte, vergando, nell’ultima pagina dell’ultimo romanzo, ciò che diviene distillato di una poetica e lascito morale ai lettori, di ieri e di oggi, che con gratitudine si accostano alla sua scrittura:

Non abbiate paura della vita! Come è bella la vita quando si fa qualcosa di buono e di vero!


tratto da vinonuovo.it

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