Le porte del calcio si aprono e chiudono velocemente. Basta passare al momento sbagliato per sbatterci contro la faccia e ritrovarsi a terra, con le speranze finite in mille pezzi...
Le sliding doors del calcio si aprono e chiudono velocemente. Basta passare al momento sbagliato per sbatterci contro la faccia e ritrovarsi a terra, con le speranze finite in mille pezzi. Allora può venir la voglia di costruirsi un’illusione e di nascondersi dentro. Verso di te si allunga una mano, ma ti accorgi tardi che non è un’offerta di aiuto. Cocaina. Ti dicono che aiuta a tenersi su e tu hai bisogno di crederci. All’inizio funziona. Poi, tutto precipita. E ti ritrovi in un pozzo nero da cui sembra impossibile risalire.
Nella stagione 1999-2000 il centravanti del Bologna si chiama Kenneth Andersson. Lo svedesone, però, si fa male e Guidolin cerca una punta robusta che gli faccia da momentanea controfigura. Nella Primavera sta sbocciando un ragazzone di Lugo di Romagna. Si chiama Mattia Sebastiani, è cresciuto nelle giovanili insieme a Gamberini e Zaccardo, spiando da vicino l’idolo Roby Baggio. Ha 16 anni e promette bene, nell’Under 16 azzurra fa coppia con Gilardino. «Proviamolo...», dice il tecnico.
«Entro in campo a dieci minuti dalla fine nell’amichevole del giovedì – ricorda Mattia – e segno subito una doppietta. Guidolin mi chiama anche la settimana dopo. Gioco e segno di nuovo. L’allenatore si convince, mi tiene fino alla fine della stagione». Sfiora l’esordio in Serie A, sembra l’inizio di una carriera luminosa. La luce, però, si spegne all’improvviso. «L’anno dopo torno nella Primavera di Walter Mazzarri. A fine stagione il Bologna non mi propone un contratto da professionista e devo ripartire dal Baracca Lugo, in serie D. Segno 12 gol e mi nota il Forlì, che mi porta in C2. L’anno dopo vado al Ravenna, dove conquisto la promozione in C1. Ma anche lì per me non c’è più spazio. Scendo di nuovo nei dilettanti, mi vuole il Rovigo. Segno il gol dello storico ritorno tra i professionisti dopo più di 50 anni, ma non basta per mantenere il posto. Cerco un altro contratto in serie C, nel frattempo in Eccellenza firmo con il Faenza di Giancarlo Minardi, quello della Formula Uno. Debutto in Coppa Italia e mi rompo i legamenti della caviglia. Un crac in tutti i sensi».
Mattia stavolta non ce la fa a ripartire in contropiede. «Inizio a prendermela con tutti e a dare agli altri la colpa di quello che era successo. E inizio a usare la cocaina. L’avevo già provata una volta, due anni prima. Ho pensato che ne avevo bisogno per tirarmi su». Una debolezza momentanea che si trasforma presto in marcatura stretta. «All’inizio la prendevo in compagnia, poi mi sono isolato. La usavo come una medicina, mi serviva per gestire rabbia e frustrazione». In qualche modo, però, si riprende, ricomincia a giocare. Si laurea in giurisprudenza e appende le scarpe al chiodo. Vuole fare l’avvocato, passa l’esame scritto. Ma il vizio non se ne va. «Giocare a pallone mi obbligava a tenermi in forma, anche se non rendevo più come prima. Quando ho smesso ho perso il controllo. Due anni fa ho toccato il fondo e ho iniziato un percorso di riabilitazione. Credevo di esserne fuori, invece avevo solo indossato un’altra maschera...».
La cocaina continua a dominarlo. «All’inizio ti fa sentire all’altezza di una società competitiva, che ti chiede prestazioni continue. Ne hai sempre più bisogno, è come una ruota che continua a girare in discesa, sempre più forte. Finché cadi nella depressione. Vivi nell’ansia, nella paranoia. Perdi ogni stima di te stesso e scopri di essere all’inferno».
Otto mesi fa Mattia vede nascere sua figlia. E cambia tutto. «Mi sono messo davanti a uno specchio e mi sono detto che non potevo andare avanti così. La maschera è finalmente caduta. Ho chiamato il dottor Giovanni Greco, del Sert di Ravenna, che aiutò anche Pantani. Vai da Mondonico, mi ha detto...».
In un campetto di Rivolta d’Adda, il “Mondo” guida da anni una squadra molto particolare, formata dai pazienti del servizio dipendenze dell’Asl di Crema, diretto dal dottor Giorgio Cerizza. Medico e allenatore sono convinti che lo sport spinga a vincere la partita contro se stessi. «La prima cosa che mi ha detto il mister è stata: visto che tu sai giocare, mettiti a disposizione dei compagni, aiutali a tenere la posizione giusta in campo». Mattia smette di pensare al singolare e torna ad accorgersi che esistono anche gli altri. «A 31 anni ho finalmente capito che la squadra è fondamentale. Mi ero illuso di poter raggiungere gli obiettivi da solo. Invece puoi farcela soltanto se condividi le fatiche con chi ti sta accanto. Quando ricominci a sacrificarti per i compagni, ritrovi anche te stesso».
Oggi Mattia sta bene, ha recuperato la stima in se stesso e guarda avanti. Mondonico gli ripete che con lui non sarebbe mai titolare, ma pazienza. Lavora nell’azienda di famiglia, ama la figlia e la compagna, va nelle scuole per raccontare i suoi errori. Quando pensa a quel che poteva essere e non è stato, scopre di avere un solo rammarico: «Potevo lottare di più per realizzare i miei sogni. Ora so che cercare scuse ti avvicina solo alla sconfitta. Accettare i propri limiti, invece, è la vera vittoria».
Marco Birolini
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