Drammatiche carestie e problemi di obesità, colture biologiche e agromafie, montagne di cibo sprecato e mense per i poveri. Mangiare è anche un grande affare.
Il cibo del futuro
Che sarebbe stato il cibo del futuro la NASA l’aveva già capito nel 1975, quando inserì la quinoa nella dieta tipo di un astronauta in missione spaziale. Carica di tutti gli amminoacidi essenziali, ricca di minerali e proteine, in quegli anni di corsa verso la Luna, sembrava il prodotto perfetto da portarsi in orbita al posto dei cibi liofilizzati e sottovuoto. Non andò così e gli astronauti si mangiarono (e si mangiano ancora) strani preparati, ma il lancio della quinoa era ormai compiuto.
Da allora, complice la mancanza di glutine che la rende free ai celiaci e il suo utilizzo da parte di chef rinomati, i semi della quinoa sono stati cucinati in tutte le salse. In insalata, come hamburger e pure nei pancakes.
E pensare che prima del boom a livello mondiale, le piante rossicce della Chenopodium quinoa wild (questo il nome ufficiale) sono state coltivate in silenzio per 5000 anni dai popoli delle Ande. I primi a scoprirne le potenzialità furono gli Inca che la chiamavano addirittura “madre di tutti i semi”. Poi, dalla prima piantagione tra Bolivia e Perù, la quinoa si è estesa in tutta la regione.
E ora che l’alimentazione mondiale guarda ai prossimi anni quando rischieremo di essere troppi e affamati, anche i nutrizionisti la recuperano, col risultato che se ne sente parlare ovunque. Tanto che l’ONU ha dichiarato il 2013 anno della quinoa, sottolineandone il potenziale dietetico e la sua sostenibilità.
Purtroppo però il successone della quinoa non ha risolto la piaga della fame. Infatti quasi tutto il raccolto viene esportato nelle cucine di mezzo mondo, e il poco che rimane in America Latina (il 10% del totale) non basta. Risultato? Un paradosso: sulle Ande s’importa e si cucina la pasta; mentre noi occidentali mangiamo quinoa! Sì, perché per ora la quinoa si coltiva solo qui... Pare che sia difficile impiantarla altrove, anche se alcuni ricercatori di Dubai ci stanno provando, selezionando le varietà migliori per il clima dell’Arabia.
Il magico ritrovato però non piace a tutti e sul web la satira infuria: un blog canadese ha trovato 5 ragioni per odiare la quinoa, tra cui il nome poco british, il suo aspetto disgustoso e pure la difficoltà a togliersela dai denti (se non con 12 m di filo interdentale!).
Ma i nemici della quinoa non sono gli unici che cercano nuove pietanze da mettere in tavola. La FAO, l’organismo Onu che si occupa di agricoltura, da anni incoraggia un menù a base... d’insetti. Nessuna meraviglia, visto che già in Congo e in Repubblica Centrafricana si mangiano vermi con polenta, in Uganda locuste fritte e in Camerun e Angola addirittura grilli.
L’idea un po’ balzana nasce dalla presa d’atto che fra 40 anni sul pianeta saremo 9 miliardi e la carne non basterà più: ecco dunque gli insetti, economici, gustosi, ma anche proteici e salutari. Inoltre così facendo risparmieremmo l’uso dei terreni agricoli e dell’acqua oggi usati per l’allevamento di animali.
Insomma, chissà se davvero le cavallette salteranno nel nostro piatto... La questione è tanto seria che un team di esperti sta verificando le oltre mille specie commestibili come alternativa alle nostre cattive abitudini alimentari.
Quanto si spreca!
Sì, perché anche se ci lamentiamo della crisi, noi italiani buttiamo via 76 kg di cibo a testa all’anno. Cioè, un quarto del carrello della spesa, per un totale di 7 euro settimanali a famiglia. La nostra cara Italia in recessione si gioca così 8 miliardi di euro, ovvero il doppio della contestatissima Imu sulla casa. Vero: alcune tonnellate marcite vengono dalla grande distribuzione, ma la metà resta cibo scartato dalle famiglie.
Su questo punto il rapporto sullo spreco alimentare dell’anno scorso non fa sconti, gli sciuponi sono tanti e diversi. I migliori gettano solo cibo ammuffito, cestinando comunque 4 euro settimanali. A seguire, chi non conosce bene le cause dello spreco (ma non sarebbe ora d’informarsi?), i menefreghisti e i patiti di frutta e verdura super-fresca.
Chi non mangia roba riscaldata e i cuochi esagerati riempiono così il sacchetto dell’umido con pasta e pane, ma anche carne o costoso pesce. Le famiglie piccole attratte dalle maxi-confezioni buttano nel bidone più di 9,5 euro settimanali, mentre il titolo di sprecone Doc va all’accumulatore ossessionato dal frigo pieno modello “carestia imminente”, tipologia che ritrae il 9% degli italiani.
Secondo la statistica i grandi spreconi sono maschi, giovani, laureati e residenti in città; mentre a tirare la cinghia sono pensionati, donne con bassa scolarità e persone per lo più disinformate... Un ritratto in perfetta linea con l’abominio mondiale fotografato dalla FAO, secondo cui i cinque continenti mandano al macero 750 miliardi di dollari, cioè il Pil di Turchia e Svizzera insieme.
Mica briciole. La sensibilizzazione continua, ma non basta a svuotare il sacco. Si pensa allora a una doppia etichetta sui prodotti: la prima con la data di vendita (l’odierna “da consumarsi preferibilmente entro”), l’altra con la scadenza vera e propria del cibo. In più, oltre alla pratica della rotazione dei prodotti in frigo per rinfrescarsi la memoria, torneranno utili i ricettari salva-scarti delle nonne, ricchi di idee per consumare anche le dure foglie dei carciofi o gli “inutili” ciuffi di carote.
Un piatto caldo
Resta proprio tanto da fare, anche perché quest’anno i tradizionali aiuti dell’UE agli affamati europei rischiano di essere ridotti a un terzo. Un bel problema per le associazioni caritatevoli che sfamano il 70% dei bisognosi alle porte di casa nostra e nelle nostre città.
Per rimediare, una recente legge ha rafforzato la norma 155 del 2003 detta del “buon samaritano”, che regolamenta il recupero e la distribuzione gratuita a poveri (tramite fondazioni no profit) di alimenti cotti e freschi provenienti da mense ospedaliere, scolastiche e da grandi produttori, non più vendibili per difetti di packaging o per scadenza imminente ma ancora commestibili. Una norma intelligente, promossa da una mamma qualunque, che era rimasta sconvolta dalla quantità di cibo sprecata nella mensa scolastica della figlia.
Una spinta importante fu data anche dalla Fondazione Banco Alimentare, associazione nata nel 1989 per volere di don Luigi Giussani e di Danilo Fossati, fondatore del colosso alimentare Star, e oggi attiva a livello nazionale come fornitore principale di 8800 strutture caritative. Ma l’obiettivo è azzerare gli sprechi ancora elevatissimi di industrie e famiglie.
Sì: grazie ai nostri scarti qualcuno mangia. Succede ogni giorno nelle mense dei poveri d’Italia, alle cui porte bussano in molti per un piatto caldo. Certo, alcuni sono stranieri, ex badanti o muratori rimasti senza lavoro, ma la maggioranza è italiana: tanti genitori disoccupati o cassintegrati con figli piccoli, neomamme sole e laureati senza contratto, con qualche lavoretto saltuario se va bene.
Gli “indigenti alimentari” italiani dal 2010 sono aumentati del 47%. Tanti, tantissimi. Gente in difficoltà che viene alla mensa con un po’ di vergogna tipica di chi non è abituato a chiedere.
Extralarge
D’altra parte a gonfiarsi a dismisura è anche il numero delle persone in sovrappeso. Quelli della cintura allentata e delle taglie conformate sono l’altro lato della medaglia, in preoccupante ascesa con il loro miliardo e mezzo di associati. Per i medici questi oversize non sono ancora obesi, definizione che scatta quando l’indice di massa corporea (BMI) supera il limite di 30.
In trent’anni gli obesi sono comunque raddoppiati (oggi costituiscono il 10% della popolazione mondiale), hanno problemi di salute e bassa aspettativa di vita. La genetica conta, ma poco; la patologia dipende più da abitudini alimentari e sociali, tra cui il consumo vorace di grassi e i lavori troppo sedentari.
Alleggerire i chili degli interessati importa anche allo Stato che vedrebbe volentieri “dimagrite” le spese sanitarie degli obesi che pesano molto sulla nazione. L’Asl di Asti ad esempio da due anni ha inaugurato i “gruppi di cammino”, combriccole che prevengono il problema con una dose giornaliera di passeggiate. A costo zero. Come la proposta di abbassare la temperatura dei caloriferi a 19 °C per far bruciare al corpo più calorie per scaldarsi.
Rimedi insufficienti però per gli obesi gravi, per i quali la ricerca sta testando di tutto: da un brodino di batteri che dimezzerebbe il peso al primo sorso, a un microchip impiantato sottopelle per sopprimere l’appetito vorace. Tutte idee che suscitano scetticismi, soprattutto nelle grandi aziende alimentari che da anni approfittano delle strategie di marketing per riempire fino all’orlo soprattutto i piatti dei più piccoli.
Sì, perché il dramma dell’obesità infantile è una piaga del millennio, ma un grande affare per le industrie che hanno assunto esperti in pubblicità per l’infanzia. Col risultato che spesso i bambini riconoscono un logo alimentare prima del loro stesso nome.
A ingozzarsi di cibo spazzatura si comincia da piccolissimi, prima dei 5 anni. Senza attività fisica i chili dei bambini aumentano in fretta, ma i genitori non sembrano preoccuparsene. In America – uno dei Paesi più in carne – il tragico panorama è finito anche su Time Magazine, immortalato in scatti artistici dal fotografo Andy Richter.
Ma anche in Italia non ce la passiamo meglio: con le dovute differenze tra regione e regione (ultima la Campania, prima la Toscana), in una classe tipo di 25 alunni 2 sono obesi e 5 troppo pesanti. Una situazione dalle controindicazioni gravi, come nella recente storia di un bambino di 7 anni, primo caso provato di malato di tumore al fegato perché obeso.
A riempire meno e meglio la pancia ci hanno provato delle classi dell’hinterland milanese, che aumentando il consumo di frutta e verdura e sostituendo gli snack delle macchinette con prodotti freschi, hanno fatto passi da giganti. Tanto che forse l’università di Harvard seguirà il loro esempio.
Intanto sei medici del North Carolina hanno fatto scorpacciata dei film per ragazzi degli ultimi 7 anni per scovare quelli che inducono alla sedentarietà e a mangiar male. Nella lista nera ecco dunque cartoni tipo Ratatouille, Up e Cattivissimo me, ma anche film come Una notte al museo o Harry Potter, colpevole di contenere molto cibo spazzatura e bevande gassate. Insomma, anche per Kung Fu Panda e Shrek sembra finita l’ora delle abbuffate.
Col cibo si mangia
L’appetito vien mangiando? Sembrerebbe di sì, visto che saranno sempre di più quelli che mangeranno facendo mangiare gli altri. Purché l’ingrediente segreto sia green. Le ricerche segnalano infatti che le eccellenze italiane sono per lo più ristoranti guru degli ambientalisti e a km zero, ovvero fan dei prodotti della zona e di stagione, che evitano trasporti e imballaggi. E non stupisce affatto, dato che il mercato del biologico e degli alimenti di alta qualità è uno dei pochi in crescita.
Ormai anche in agricoltura si parla di biodinamico e sostenibile, e forse è per questo che anche i giovani sembrano avere trovato pane per i loro denti... Si stima che a breve si recupereranno tutte le braccia che negli ultimi 10 anni sono scappate dai campi per inseguire un posto dietro una scrivania. Insomma, ci si aspetta una generazione senza paura di sporcarsi le mani, ma scordatevi la chimica pesante e l’uso di sostanze inquinanti; gli agricoltori 2.0 saranno bio, internazionali e multitasking.
D’altronde lo dimostrano i frequentissimi viaggi alla scoperta della terra di centinaia di giovani occupati nel settore primario. Una sorta di Erasmus alternativo di 6 o 12 mesi, per imparare tecniche di vinificazione o metodi di concimazione naturali. Come i loro coetanei universitari, gli under 30 guardano all’America o all’Australia, perché ormai l’esperienza del nonno contadino non basta più. Stage retribuiti in Sud Dakota a raccogliere cereali, oppure a Washington a fare i giardinieri.
Attenzione: anche per andare sul campo è ormai indispensabile l’inglese! Ma ne vale la pena, per avere uno sguardo un po’ più ampio sui mercati e le innovative strategie di business straniere; un giovane contadino del Nebraska, laureato in economia, ha reso autonomo il suo trattore installandoci addirittura un gps.
E anche qui da noi i vignaioli delle Langhe, patria del Dolcetto e del Barolo, hanno invertito la rotta. Come dei novelli Colombo, ma senza caravelle, in molti si sono diretti in terre ancora “inesplorate” dal vino piemontese. Dimenticato il mercato tradizionale europeo e americano, ormai in drastico calo per via delle mutate abitudini alimentari, hanno puntato verso Nord. E hanno davvero scoperto l’America! Perché in Norvegia e Groenlandia il pregiato vino italiano piace proprio, tanto che sono già state vendute parecchie bottiglie.
Dunque sfidare i ghiacci pur di far degustare il proprio vino al palato scandinavo vale la pena, ma da adesso il grosso degli ordini si farà online. Anche perché c’è già chi è impegnato in nuove “conquiste” enogastronomiche in Oriente e persino in Ghana.
Il “tarocco”
E che con il cibo si fanno affari d’oro lo sanno bene anche i gruppi di criminalità organizzata, le cosiddette “agromafie” specializzate in traffici alimentari che fruttano miliardi. Pur di guadagnarci, la frode gastronomica inietta sostanze che rendono i prodotti appariscenti, modifica la struttura degli alimenti e ne altera i sapori con materie prime scadenti.
Nascono così le mozzarelle sbiancate con il perossido di benzoile o la salsiccia arrossata dall’anidride solforosa, i mirtilli con l’epatite e il pesce spalmato di botulino. Insomma, non proprio prelibatezze. E visto che a rimetterci è la salute pubblica, i controlli aumentano, tanto che in alcune città (come Torino) sono nati pool di magistrati specializzati che intercettano i dirigenti di aziende sospette.
Spesso è coinvolta anche la grande distribuzione ai supermercati, direttamente per infiltrazioni mafiose oppure tramite sistemi di tangenti. Si corre ai ripari, se non altro per organizzare la tracciabilità dei prodotti, nuova frontiera a tutela dei consumatori.
Occhio però, non sempre “taroccare” un prodotto è considerato illegale. Esatto: il merito è nostro che in vent’anni abbiamo praticamente svenduto a industrie straniere i grandi marchi culinari made in Italy. È successo con l’industria dolciaria come con il settore dell’olio, che vale qualcosa come 2 miliardi di euro.
Da quando le multinazionali si sono impadronite dell’extravergine, l’hanno spremuto ben bene: tanto che oggi l’Italia resta il primo rivenditore al mondo, ma il colosso produttore è la Spagna. Risultato? Sugli scaffali ci troviamo sempre i nomi degli antichi frantoi toscani, ma nella realtà ci beviamo una miscela d’origine industriale prodotta in Tunisia, Grecia o Marocco (che è indicata sull’etichetta, ma ben in piccolo).
Ovviamente non rimane nulla dell’antico metodo di confezione: oggi le olive si raccolgono, si stoccano, vengono addensate e corrette, e solo dopo un bel viaggio per mare e per terra arrivano sullo stivale, dove l’olio s’imbottiglia e si etichetta. E le conseguenze si possono immaginare, il prezzo al pubblico è concorrenziale ma a pagare è la qualità. Insomma, un bel boccone amaro da mandare giù.
A rimetterci le seimila produzioni agricole nazionali, quelle che credono ancora nella filiera corta, che però lottano quotidianamente con il prezzo imposto dai giganti stranieri col monopolio su tanto olio italiano. Per questo dal 2014 partirà una campagna – sponsorizzata dal Ministero delle politiche agricole – sulla qualità dell’extravergine nei supermercati per cercare di ridare sapore almeno a una delle nostre specialità. L’obiettivo è rinsegnare agli italiani la differenza tra un olio da 2 euro e uno che per i costi di produzione non può andare sotto i 6.
La buona notizia è che pare che l’aumento della materia prima e il calo dei consumi siano entrati a gamba tesa anche sui giganti stranieri, che potrebbero rimettere sul tavolo proprio i nostri cari marchi... Interessati a metterci le mani però sono pure i cinesi, gli unici che di questi tempi non hanno il portafoglio magro.
La politica del cibo
Insomma, il cibo è proprio un bel problema. Lo sa bene la Ferrero, storica azienda italiana produttrice di dolciumi. L’anno scorso, approdata in Gran Bretagna, scelse di differenziare per colore ‚Äí rosa alle femmine e blu ai maschi ‚Äí i suoi celebri ovetti, se non altro per orientare meglio le sorprese nascoste dentro. Collanine in quelli rosa e soldatini in quelli blu, per intenderci.
Tanto bastò per scatenare il putiferio: il movimento inglese Let toys be toys parlò addirittura di discriminazione e di sessismo lasciando presumibilmente allibita la controparte.
Ma altrove della questione alimentare si occupa direttamente la magistratura: come nel caso di un detenuto di credo buddista a cui è stato negato, oltre alla visita di un maestro zen, pure la dieta vegetariana. Alla fine la Cassazione gli ha dato ragione; difficile invece dire come si esprimeranno i giudici sul caso del suocero che ha querelato la nuora perché cucinava male gli agnolotti... Una disputa che c’è da presumere abbia messo in mezzo più cuochi che avvocati. Un’esasperazione certo, ma quando si parla di mangiare nessuno è escluso. Nemmeno la politica.
Lo dimostrano le botte che si son tirate qualche anno fa i due schieramenti del consiglio comunale di Rimini per guadagnarsi il monopolio della piadina alla nutella
Fa sorridere, ma per alcuni è questione serissima. E niente meno che il maestro indiscusso della cucina francese Curnonsky si prodigò sul finire degli anni ’50 proprio nel segnalare i piatti di destra e quelli di sinistra: la cucina nazionale era roba “fascista” da consumarsi esclusivamente nelle ambasciate e nei grandi alberghi, mentre le tradizioni regionali restavano alla destra borghese e moderata.
Un menu alla gauche prevedeva quindi un’omelette, una coscia di coniglio o un trancio di prosciutto: purché fosse roba semplice e svelta. Il “dimmi cosa mangi, ti dirò chi voti” resta indubbiamente più difficile per il panorama politico italiano... Forse perché da noi è tutto un minestrone!
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