Si chiama Anne-Marie Pelletier, a lei Papa Francesco ha affidato le meditazioni della Via Crucis di questa sera...
del 14 aprile 2017
Si chiama Anne-Marie Pelletier, a lei Papa Francesco ha affidato le meditazioni della Via Crucis di questa sera...
Si chiama Anne-Marie Pelletier ed è professoressa associata di lettere moderne, dottore in scienze religiose, biblista e vincitrice del Premio Ratzinger 2014. A lei Papa Francesco ha affidato le meditazioni della Via Crucis del Colosseo, che si terrà il prossimo Venerdì Santo, 14 aprile 2017. ZENIT l’ha intervistata.
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La Via Crucis del Colosseo di viene trasmessa in mondovisione: per alcuni può essere un primo confronto con una tradizione cristiana difficile da capire. A volte siamo un ricordo di percorso insanguinato di torture ed esecuzioni. Cos’è la Via Crucis? Soprattutto quella del Venerdì Santo in questo luogo? Come mettere in scena la condizione di un dolore disperato?
Infatti, la celebrazione del Venerdì Santo al Colosseo, trasmessa dalla televisione, offre alle folle del mondo l’opportunità di essere in contatto con il cuore della fede cristiana: la croce di Cristo, “scandalo per i Giudei e stoltezza per i Greci” come dice San Paolo, ma scoprimento di una sapienza di Dio, che supera ogni saggezza umana. Tutti coloro che, vicini o lontani, credenti o inconsapevoli di Cristo si uniranno quella sera, per scelta o per caso, alla preghiera di Papa Francesco e della Chiesa, si troveranno in presenza di questa realtà, che noi confessiamo che colpisce l’umanità in modo decisivo, anche se rimane ancora in chiaroscuro, in attesa del suo evento finale.
L’annuncio portato dalla Via Crucis è potenzialmente adatto in tutto il mondo. Ma significa anche che, potenzialmente, può essere equivocato. Perché, le ultime ore di vita di Gesù, dal punto di vista umano, sembrano terribilmente quella “banalità del male” che vediamo tutti i giorni in un mondo avvolto da violenza, bugie, persecuzioni, espulsioni o massacri. Ma diciamo la verità, se si tratta di vedere in Gesù un innocente condannato a morte, egli si aggiunge all’innumerevole elenco di vittime della storia, e la memoria della sua passione non può essere per noi di alcun aiuto. La memoria di quanto avvenuto a Iblid, in Siria, in questi giorni, è più che sufficiente per ricordare che la crudeltà umana è un abisso senza fondo.
Questo evento testimonia la verità nascosta incredibile del fallimento e della morte di Gesù. Abbiamo bisogno di riconoscere e testimoniare che in questi eventi si verifica – oh assoluta e travolgente sorpresa – un lavoro di potenza e di vita, che è la vittoria di Dio sulle potenze di morte del nostro mondo, e che abitano il cuore di ciascuno.
Per questo, la cosa grande è che ci riconosciamo in Colui che è condannato, sfigurato e lasciato morire sulla croce. Riconosciamo come è Dio stesso che, in Suo Figlio, è venuto a vivere la nostra oscurità per noi e per farci uscire! Mi piace dire che, al momento della Passione, in Gesù, Dio è là dove non dovrebbe essere. E anche, andando alla fine del paradosso, direi che è dove non è. Vale a dire che è al centro di tutto ciò che respinge normalmente e si trova in contraddizione: la nostra violenza, il nostro odio, tutto ciò che è la deturpazione ghignante dell’uomo come Dio lo ha creato e lo vuole.
Ma sono d’accordo che il paradosso è che possiamo, ovviamente, andare per la sua strada e non percepire nulla di tutto questo. Lo percepiamo in molti dei nostri contemporanei, che vivranno questi giorni santi nella completa indifferenza. Come ha fatto la maggior parte di coloro che ha incontrato Gesù sulla strada per il Golgota. Ma il Vangelo ha anche testimoniano che nel momento più disperato di questo percorso, gli occhi di alcuni sono stati aperti per guardare quell’incredibile verità. Come il centurione romano che alla morte di Gesù afferma: “Quest’uomo era davvero il Figlio di Dio” (Mt 27,54). O poco prima, secondo Luca, il prigioniero che misteriosamente riconosce non solo la giustizia, ma la regalità di Colui che è stato crocifisso accanto e non abbandona la speranza (“Ricordati di me quando entrerai nel tuo regno” Lc 23,42). Non dimentichiamo neanche che è la predicazione della croce, ed essa sola, che viene invocata quando Paolo ricorda ai Corinzi come entrare nella fede di Gesù (1 Cor 2,2).
Ma è ovviamente essenziale che i cristiani non riducano il messaggio della croce a un dolore disperato rendendolo inaccessibile. Dobbiamo dire e ripetere che Gesù non è venuto tra gli uomini a morire. Egli è venuto a vivere e far circolare nella vita dell’umanità di Dio uccidendo il peccato che ci ha condannato a morte in tutte le forme che assume nella nostra vita. Dobbiamo riconoscere che alcuni aspetti della nostra spiritualità possono suscitare una malsana idea di sofferenza, esaltando pericolosamente un’insopportabile vendetta del Padre che richiede il sangue del Figlio, attestando così che siamo complici del male. Si tratta di un preoccupante problema spirituale. Nello scrivere questa Via Crucis, in ogni caso, non ho smesso di porre l’accento sull’amore sino alla fine vissuto da Gesù. Ricordiamo che il Vangelo di Giovanni parla di “glorificazione” a proposito dei tempi di Gesù, afferma “Tutto è compiuto” quando muore sulla croce (Gv17).
In una recente omelia Papa Francesco ha chiesto un esame di coscienza: porto la mia croce come “un distintivo”, come “un gioiello”? Gesù porta la sua croce ed è la croce che lo porta. Noi come dobbiamo indossare la croce?
Papa Francesco ha posto bene l’accento sul valore della croce. La croce è la testimonianza migliore per la nostra condizione di vulnerabilità, del fatto che Dio accetta di unirsi a noi e di salvarci. Se Egli è stato consegnato tra le mani di uomini come Caifa e Pilato ai suoi tempi, continua ad essere esposto ancora oggi. Egli è esposto alla nostra testimonianza, che non sempre viene data correttamente. Sappiamo, infatti, che anche in terre cristiane, oggi possiamo afferrare la croce in modi diversi: rivendicarla dinanzi alle cinture dei soldati, oppure utilizzarla come un distintivo da sfoggiare nelle manifestazioni. La storia insegna che l’identità che crea distanza con l’altro, alla fine lo esclude. Infine sappiamo che nelle nostre società scristianizzate, la croce è usata come gingillo folcloristico.
Si arriva a rendere tutto ciò ridicolo, blasfemo, anche se non è questa l’intenzione… Sappiamo – e più che mai lo dimostra la Passione – che Dio sopporta tutte le bestemmie rivolte dagli uomini stolti contro di Lui. Questa è anche la pazienza, folle, dovuta a un pensiero divino, per cui il loro finalmente si apra e i loro occhi vedano la luce della verità che prima disprezzavano. Ma noi cristiani dobbiamo essere particolarmente attenti per rendere testimonianza alla verità della croce.
La Chiesa antica, per bocca di Sant’Ireneo, ad esempio, ha riflettuto il grande paradosso della Croce partendo dalle parole di Isaia: “Il potere è sulla sua spalla” (Is9,5). Croce che “è segno del suo regno”. Essere cristiani, significa confessare che attraverso la croce di Cristo, il male è sconfitto, la morte è sconfitta nella sua radice, anche se oggi viviamo ancora in un regime di speranza, di attesa della vittoria trionfante alla fine della storia. Essere cristiano significa, tenendo gli occhi fissi sulla croce, resistere a tutte quelle difficoltà che ci fanno pensare che esistano situazioni senza speranza. In altre parole significa camminare con Cristo sulla sua strada, senza evitare il Golgota, confidando nel fatto che i mali della nostra vita e del mondo sono conosciuti da Cristo, nel dono che ci ha fatto della sua vita. E così, la potenza della sua Resurrezione, ci libera dalla paura e dalla disperazione. Tutto ciò viene riassunto nelle Scritture dalle parole “nuovi cieli e nuova terra”.
A me sembra quindi che abbiamo bisogno di prendere famigliarità con la croce. Non dobbiamo dimenticare ciò che ci insegna la storia della Passione, il piccolo episodio di Simone di Cirene. Nulla ci dice che questo uomo aspetta “il conforto d’Israele”, come è stato per Maria e Simeone. Molto probabilmente egli ha incrociato il percorso di Gesù senza conoscere molto circa il dramma che si stava giocando in quelle ore a Gerusalemme. Tuttavia, egli ha preso sulle sue spalle il peso della croce. E ci insegna come indossare la croce, che esercita la compassione su cui, dice il testo di Matteo 25, gli uomini saranno giudicati alla fine dei tempi: “Ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ero un forestiero e mi avete accolto …”. Così ogni volta che aiutiamo una persona più sfortunata, noi portiamo la croce di Gesù e contribuendo alla vittoria della croce di Cristo nel nostro mondo.
Per la prima volta un Papa affida le meditazioni del Colosseo ad una laica, madre … Come vede le donne della Croce?
Le donne accompagnano questo percorso al fianco degli uomini. In qualche modo loro lottano come gli uomini per entrare nei pensieri di Dio. Così, le “figlie di Gerusalemme” sono guardate da Gesù: “Non piangete per me, piangete per voi …” (Lc23,28). Eppure, in quel momento, le donne vanno oltre gli uomini. Ai piedi della croce, come sappiamo, a parte Giovanni, ci sono solo le donne. Come al solito, sono lì in silenzio, con fedeltà presente, lì, anche dove ci sono solo rovina e disastro. Testarde, nonostante tutto, a servire la vita, anche quando quest’ultima viene sconfitta. Le donne sono anche lì, accanto agli uomini questa volta, al momento della sepoltura. Poi arriva il sabato che immobilizza tutti. Non abbastanza, però, dal momento che si preparano gli aromi per onorare il corpo di Gesù, quando verrà l’alba. Anche se il loro cuore è certamente pesante, ignaro della sorpresa infinita che le attende, non si affrettano, dice il Vangelo, quando il sabato era passato. Desiderio misterioso, che contrasta con la marcia scoraggiato dei discepoli di Emmaus, la sera dello stesso giorno, sopraffatti dalla delusione. E così le donne sono lì, per prime, ad imparare l’imprevisto, l’inimmaginabile, l’inaudito che il Padre fa al Figlio. Tutto ciò dimostra che ci sono buone ragioni per la Chiesa, nella sua liturgia del Venerdì Santo, per affidare a una voce femminile il ricordo bruciante delle ultime ore di Gesù, fino a quando spirò sulla croce.
La Via Crucis al Colosseo non è una devozione personale, è una preghiera di “comunità”, per Roma e per milioni di persona che l’ascolteranno attraverso i media: cosa caratterizza questa particolare forma di preghiera? Quali frutti dobbiamo aspettarci?
I frutti sono il segreto di Dio! Nulla di ciò che accade in un tale celebrazione rientra nel “marketing”… Quel che è certo è che il lavoro dei nostri strumenti multimediali di trasmissione in questi giorni mette in evidenza ciò che i cristiani celebrano in questi giorni. Non un evento ad appannaggio dei soli seguaci di Cristo. Ma una Buona novella, il cui principio si sta espandendo a ogni essere umano. Nessuno è escluso da questa verità. Da questo, i cristiani devono testimoniare, facendo attenzione a non chiudere le mani su questo segreto di grazia, nemmeno per proteggerlo contro coloro che lo sfidano o che lo vogliono attaccare. Ricordiamo che la storia della Passione descrive chiaramente la complicità di tutti – “ebrei e greci”, per usare le parole della Scrittura – nella condanna di Gesù. Così anche sappiamo che “ebrei e greci”, gli uomini e le donne sotto tutti i cieli, sono i destinatari del Vangelo della morte e risurrezione di Gesù.
Qual è stata la tua reazione alla richiesta che è venuta da “Pietro”?
Prima reazione: “Io, Signore?”. Come Matteo, nel dipinto di Caravaggio, quando Gesù punta il dito contro di lui, chiedendosi se avesse capito… Sorpresa, dunque, e vertigini: quella di dover mettere le parole, le mie parole, per conto del Chiesa, una realtà che ha la scala della creazione, dal momento che nella passione, avviene una ri-creazione che è quando Gesù visita la nostra vita umana, fino alla morte, nel potere della vita di Dio. E seconda reazione, questa volta di gioia, poiché questo compito significava la volontà di “Pietro” di dar voce a una donna nella notte del Colosseo, un bagliore che vive nel cuore della Chiesa come la fede di Giovanni davanti al mistero dell’incarnazione e della redenzione: “Ciò che era fin da principio, ciò che noi abbiamo udito, ciò che noi abbiamo veduto con i nostri occhi, ciò che noi abbiamo contemplato e ciò che le nostre mani hanno toccato, ossia il Verbo della vita (…) Queste cose vi scriviamo, perché la nostra gioia sia perfetta” (1Gv 1,1-4).
Anita Bourdin
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