Quarant'anni fa le stragi di studenti, oggi tutti pregano per Nelson: “Lui ha già fatto il suo miracolo, non ci sono più schiavi e carcerieri”.
La signora Thoko Dhlamini sorride, ci prende per mano, e indica il centro della navata: «Adesso arrivano i bambini della scuola, per ricevere la benedizione. Prego per loro, perché non vivano mai quello che ho vissuto io. Prego perché questo Paese resti unito, anche quando Mandela non ci sarà più».
Domenica mattina nella Holy Cross, la chiesa anglicana di Soweto che si affaccia proprio sull’angolo di strada dove il 16 giugno 1976 cadde Hector Pieterson. Il governo aveva deciso che i bambini nelle scuole dovevano studiare l’afrikaans come l’inglese. Gli studenti scesero in piazza, la polizia sparò, e un ragazzino di 12 anni morì. Hector così diventò il simbolo della lotta contro l’apartheid, dura e violenta fino alla liberazione di Mandela. «C’è una foto famosa - racconta Thoko - che riprende un giovane mentre solleva tra le braccia il cadavere di Hector. Quel giovane si chiamava Mbuyisa Makhubo, era mio cugino. Abitavamo a cento metri dalla casa di Walter Sisulu, e la sera prima quelli dell’Anc ci avevano dato cartelli per scrivere slogan contro l’afrikaans.
Non avevo idea a cosa servissero, non avevo idea che il giorno dopo la nostra vita sarebbe cambiata così: quattordici anni di guerriglia urbana, arresti, esecuzioni, davanti a casa mia. Andare a scuola ogni mattina era come attraversare un fronte di guerra. E quanti ne ho visti di compagni arrestati, torturati, uccisi. Mio cugino, dopo quella foto, fu costretto a fuggire all’estero».
I bambini hanno ricevuto la benedizione del reverendo Khumalo, e sono pronti a scappare fuori, per giocare sul prato dove adesso c’è il memorial che ricorda Hector. «Preghiamo - li ferma il reverendo - per la famiglia Mandela, in questo difficile momento per la salute di Tata, e preghiamo anche per lui». Tata, il nonno di tutti i sudafricani, è sdraiato in un letto di ospedale, la vita attaccata alle macchine. «Non credo che durerà ancora a lungo», dice Thabo, un insegnante venuto da Limpopo con la sua scolaresca, per visitare il museo dedicato a Pieterson. «Però Mandela il suo miracolo l’ha già fatto, tendendo la mano ai propri carcerieri e unificando il Paese. Ora tocca a noi perpetuarlo, evitando di tornare al passato».
È domenica e Thoko propone: andiamo a sentire la messa anche nella chiesa Regina Mundi, la parrocchia cattolica che durante l’apartheid ospitava le riunione politiche clandestine degli oppositori. «Quando uccisero Hector - ricorda - scappammo tutti verso la Regina Mundi, perché sapevamo che il prete ci avrebbe nascosti. Ma la polizia entrò lo stesso e si mise a sparare, dentro la chiesa».
Oggi splende un magnifico sole e i fedeli pregano tranquilli. I segni dei proiettili però ci sono ancora, e sopra una stazione della Via Crucis hanno costruito una vetrata colorata che ritrae il volto di Mandela durante un comizio. Ci viene incontro padre Sebastian, il giovane parroco nero che adesso porta sulle spalle questa enorme eredità storica. «Preghiamo tutti i giorni per Madiba. Girano voci di ogni tipo: qualcuno dice che è già morto, ma il governo lo nasconde perché c’era la visita di Obama. Io non ci credo, ma questo è il clima».
Quasi scusandosi, poi, Don Sebastian aggiunge: «Le devo confessare una cosa: voi giornalisti non ci state proprio aiutando». E perché? «Ha presente quando qualcuno ripete in continuazione che sta per piovere? Bene: come reagisce la gente? Si prepara alla pioggia. Lo stesso fate voi, ripetendo che il Sudafrica rischia di sprofondare. Così finite per creare una sensazione di paura, che nella realtà non esiste. Qui nessuno prepara la guerra civile, dopo la morte di Mandela: i bianchi estremisti sono pochi, e non hanno la forza di rovesciare il governo; i neri stanno al potere, e non hanno alcun interesse a provocare violenze, per vendicarsi di fatti accaduti oltre vent’anni fa su cui ci siamo già riconciliati. Il Sudafrica ormai è integrato, i bambini bianchi vanno a scuola con i neri. Il problema vero, semmai, è l’economia e la mancanza di lavoro, che va oltre le barriere razziali».
Padre Sebastian ha apprezzato la visita di Obama, che proprio sabato era a Soweto: «Spero sia serio, quando dice di voler investire nell’Africa. Per me, però, il messaggio più importante che ha lanciato è un altro: ha dimostrato che il mondo sta con noi, se ci comportiamo in maniera responsabile. Spero proprio che tutti lo capiscano».
Andando verso la vecchia casa di Mandela su Vilakazi Street, Thoko si apre: «Quel prete ha ragione. Mia figlia si è laureata in economia a New York, e ancora non trova lavoro. La gente ha perso fiducia nell’Anc, troppa corruzione. Zuma rischia alle elezioni dell’anno prossimo. Poi speriamo che tocchi a Cyril Ramaphosa, il vero delfino di Madiba, fatto fuori dai giochi di partito. Almeno lui è un uomo d’affari competente, ed essendo già milionario non ha bisogno di arricchirsi».
Davanti alla casa di Mandela ci sono i turisti che fanno la fila, e poi vanno mangiare nel ristorante della ex moglie Winnie: «Ecco - sorride Thoko - speriamo di ritrovarci qui, fra un anno, per mangiare salsicce alla boera».
Paolo Mastrolilli
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