Il web è un'opportunità, ma bisogna imparare a usarlo. Intervista a Luca Botturi...
del 28 giugno 2016
Un anno fa il diciannovenne texano Andrew Watts spopolava su internet con un articolo pubblicato da Medium e diventato virale in pochissimo tempo: «Facebook, per noi ragazzi è come se fosse morto. È quel servizio a cui tutti ci siamo iscritti alle scuole medie perché era figo, ma ora sembra un’imbarazzante cena in famiglia da cui non te ne puoi andare». La denuncia della fuga virtuale dei giovanissimi verso altre piattaforme fondate sulla condivisione di immagini, prime fra tutte Instagram e Snapchat (che pure trovò riscontro in numerose ricerche sul tema) non sembrò preoccupare eccessivamente Mark Zuckerberg: con o senza il placet dichiarato dei giovani, l’acquisizione di nuovi servizi come lo stesso Instagram o Whatsapp ha traghettato in fretta l’impero del fondatore di Facebook ben oltre i confini della Silicon Valley, incrementando il numero di utenti fino a sfondare la soglia dell’1,6 miliardi di profili attivi sul social network di Menlo Park. «Diamo a tutte le persone del mondo la possibilità di condividere qualsiasi cosa con chiunque. Invece di costruire muri, possiamo aiutare le persone a costruire ponti», ha dichiarato Zuckerberg inaugurando ad aprile a San Francisco l’F8, la sua conferenza degli sviluppatori. «25 milioni di persone – ha ricordato – in 37 paesi stanno usando Free Basics», il servizio che offre l’accesso gratuito a una selezione di siti di pubblica utilità oltre che ai prodotti di Facebook che, insieme ai droni e ai satelliti, sta costruendo anche uno speciale aereo a energia solare con cui portare la rete nei paesi in via di sviluppo: un giorno, ha detto Zuckerberg, ci sarà «una flotta di questi aerei nel cielo».
Piaccia o non piaccia, per dimostrare che Facebook, usato o meno, sia diventato sinonimo di “internet” per i giovanissimi non serve andare tanto lontano: «Quando incontro i ragazzi di scuola media, normalmente nessuno sa che cosa sia davvero internet, che cosa sia il web, e pochi distinguono internet (una rete) da Google (un’azienda). Nemmeno tra gli utenti adulti troviamo chi sappia come funziona realmente Facebook o Instagram, o quali dinamiche commerciali le rendano aziende di valore in borsa. Il gap educativo è immenso, e finché non capiremo di che cosa stiamo parlando, difficilmente potremo imparare a usare in maniera sana, consapevole e utile le tecnologie digitali. Resteremo schiavi delle mode e della pubblicità che ci vuole sempre più inconsapevolmente digitali». Luca Botturi, docente-ricercatore presso il Dipartimento formazione e apprendimento della Scuola universitaria professionale della Svizzera italiana (SUPSI) non ama definirsi un esperto di social media, quanto di persone e mondo digitale, «mi occupo di tecnologie digitali e di giovani, in particolare nella formazione degli insegnanti e nell’educazione alle tecnologie e ai media per i giovani». Interlocutore fidato nel mondo della scuola al tempo di internet, Botturi ha curato con Lorenzo Cantoni e Chiara Succi ELearning. Capire, progettare, comunicare, un interessante volume dedicato a come la diffusione e la pervasività delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione abbiano cambiato e stiano cambiando profondamente il modo in cui viviamo, lavoriamo, comunichiamo, impariamo.
Zuckerberg annuncia «stiamo costruendo una tecnologia che cambierà il modo in cui noi tutti vediamo il mondo». Cosa resta del profetico «il medium è il messaggio» di McLuhan? Vale ancora oppure conta solo il medium e scompare il messaggio? In altri termini, soprattutto tra i più giovani, più che il contenuto della comunicazione vale la pura comunicazione, lo stare in contatto?
Postare (o “likare”) per esserci: è questa la legge del social media. Gli stessi giovanissimi, a modo loro, percepiscono l’invasività del mezzo rispetto ai contenuti della comunicazione: tra le prime cose che raccontano troviamo il fastidio per quelle risposte tipiche su Whatsapp: “Sì”, “anch’io”, “bella”, “eh eh”, faccine… che potremmo tradurre semplicemente con “ci sono”. Dal punto di vista dei social media, questo va benissimo: i social media sono vettori pubblicitari, e il loro valore non dipende dai contenuti, ma dal numero di utenti e di click: e proprio questa dinamica di moltiplicazione dei click è direttamente funzionale al loro interesse. Noi, gli utenti, ci siamo adeguati: a prescindere dall’età, li usiamo in larga parte per dire “ci sono, non dimenticatemi”: in fondo è un po’ un surrogato di una risposta all’esigenza primaria di essere voluti bene. Questo però non vuol dire che non si possano usare i social media in maniera più creativa e utile. Se faccio davvero delle belle foto durante una giornata al parco, è bello condividerle con gli amici, o diffondere il nuovo video del mio gruppo preferito con un commento, o anche il semplice organizzare il ritrovo per la partita domenica pomeriggio. Come docente, posso anche usare i social media come strumento didattico, perché hanno un potenziale enorme: possono dare agli allievi un vero “pubblico” con il quale confrontare la loro comunicazione e la loro creatività.
Chi parla bene pensa bene e le parole sono uno strumento di democrazia importante. Ora il linguaggio e il pensiero si sono impoveriti, sono cambiati?
Io credo di no. L’evidenza ci dice che i social media impongono un tipo di scrittura breve, che pare immediata, con messaggi concentrati. Scrivere bene e comunicare bene in questo modo è una grande sfida: come non essere banali o superficiali in poche righe? Chi scrive sa che questa è una delle cose più difficili. Il punto è che i più – non solo ragazzi, ma anche gli adulti – scrivono sui social come gli viene, senz’arte né parte e senza prendersi il tempo di pensare, cercano l’immediatezza e generano messaggi-spazzatura (oltre che gaffes). Non basta avere la penna per diventare scrittori, e non basta un account sui social per diventare web-reporter. L’altro effetto è che ci cimentiamo sempre meno con pezzi più lunghi e articolati, perché non abbiamo più l’esigenza di scrivere una lettera: in questo il mezzo facilita la generazione di messaggi-spazzatura. Tuttavia, non userei questo metro per dire che il pensiero sta morendo: esistono ancora le poesie, la letteratura, e le grandi narrazioni audiovisive. Penso però che sia giusto affermare che chi scrive, intellettuali e giornalisti, dovrebbero prendere più sul serio il compito di mostrare vie praticabili di addomesticare la comunicazione frammentata dei social media in funzione di una comunicazione personale e sociale sana.
Prima dei new media la comunicazione a distanza era mediata, ora la comunicazione emotiva è sempre più immediata. Che rischi comporta?
“Percepisco, reagisco, posto”. Questo porta tutti i rischi della comunicazione emotiva: manca la riflessione, e quindi non si articola mai un giudizio completo, davvero critico. In fondo, si resta schiavi delle opinioni. Le sterili discussioni nei commenti ai post lo dimostrano.
I social stanno diventando il primo strumento di informazione. Più di tg e giornali. Aumenta la libertà di informazione o la quantità di informazioni nasconde le verità invise al mainstream? Insomma si sta costruendo una foresta per nascondere le foglie scomode?
Credo che siano vere ambedue le affermazioni: i social media danno più libertà di informazione, e allo stesso tempo hanno fatto crescere una foresta che nasconde le piante più rare. Questo è avvenuto perché i social media (già prima quando si chiamavano “social web”, a inizio anni 2000), hanno portato una piccola grande rivoluzione: il modello del web prima era quello editoriale (pochi autori, tanti lettori), e lo hanno trasformato in un modello completamente aperto (ogni lettore è in potenza anche autore). Quindi oggi Internet è un luogo digitale interconnesso con oltre 3 miliardi di voci: una foresta immensa e intricata. Non penso che ci sia qualcuno che “vuole” nascondere certe foglie, ma è chiaro che, come tutti i sistemi informativi, chi impara a controllarlo acquisisce inevitabilmente un certo potere.
Questo “potere” basta per pensare Facebook come un organo politico? Ci sono dei valori precisi a stendardo delle sue politiche aziendali che colgono di sorpresa la governace tradizionale che non è abituata a interagire con organismi così agili e veloci?
Questa è una questione complessa. Facebook è e rimane un’impresa, non un organo politico. Come tutte le imprese che fanno informazione (come le tv o i giornali), agisce su uno dei pilastri delle democrazie occidentali: l’informazione pubblica. In questo senso, il suo operato ha un impatto politico. Facebook ha dei valori suoi? Come tutte le organizzazioni che fanno comunicazione, deve averne: deve sviluppare criteri di accettabilità (anche se non proprio di notiziabilità), altrimenti non sarebbe in grado di eliminare la pornografia o il terrorismo dalle sue pagine. E in tanti casi si trova a dover valutare zone grigie. Non mi pare strano che prenda decisioni che seguono il mainstream: in fondo sono la strada più sicura. Facebook non è una casa editrice, né un giornale o una tv: il suo obiettivo non è diffondere informazioni di qualità, ma fare utile, quindi avere più utenti e più visite. Ragiona in base a questo criterio. C’è un altro elemento importante: Facebook è un chiacchiericcio che resta scritto, ed è immenso. Questo lo rende una fonte facile per i media tradizionali, che ne parlano sempre. Forse anche qui si tratta un autogol: i media dovrebbero tornare a parlare di quel che succede, e non solo di ciò che alcuni scrivono per commentarlo, magari senza neppure rifletterci troppo sopra. Basta guardare le pagine web dei quotidiani su un tema come Brexit, ma anche su fatti di cronaca e notizie di costume: per 20 righe di notizia, abbiamo decine di commenti e di discussioni, e troviamo spesso notizie che riprendono i commenti di personaggi famosi sui social. Teniamo presente che il modo di leggere le notizie dei più giovani non passa più dalla carta stampata, ma vive quasi totalmente online: esiste un “peso specifico” che distingue il fatto dal commento?
Caterina Giojelli
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