Se si accoglie come vera, buona e giusta l'illusione che uccidere, o aiutare a morire una persona, sia la risposta ai problemi che quest'uomo ha, allora è possibile tutto...
del 05 settembre 2017
Se si accoglie come vera, buona e giusta l’illusione che uccidere, o aiutare a morire una persona, sia la risposta ai problemi che quest’uomo ha, allora è possibile tutto...
È quasi scivolata via tra le notizie di cronaca la triste vicenda dell’ingegnere di 62 anni di Albavilla, nel comasco, che soffriva di una forte depressione ed è andato a morire in Svizzera con il suicidio assistito. Un amico, forse ignaro delle intenzioni, lo ha accompagnato alla stazione di Chiasso, al confine con la Svizzera dove l'uomo ha poi preso un treno per Zurigo. Quest’uomo, che viveva solo e aveva scritto una lettera ai Servizi sociali del comune manifestando l'intenzione di togliersi la vita in una clinica elvetica, non aveva patologie incurabili o invalidanti, come nel caso di deejay Fabo, ma era prostrato dal male di vivere. Una sofferenza indicibile e crudele come sa bene chi l’ha vissuta sulla propria pelle. Ma chi soffre di depressione ha il diritto ad essere curato e aiutato, non ammazzato.
La cultura della morte, ormai dilagante, invece va in direzione opposta e prevede il diritto a morire. Vuole che questo diritto diventi un dato di fatto, vuole fissarlo per legge o a colpi di sentenze della magistratura che vanno al di là delle leggi stesse. Ma se la morte diventa un diritto non illudiamoci di poter mettere dei paletti. È solo questione di tempo e poi i paletti cadono.Se si accoglie come vera, buona e giusta l’illusione che uccidere, o aiutare a morire una persona, sia la risposta ai problemi che quest’uomo ha, allora è possibile tutto. Anche dare l’eutanasia a chi soffre di depressione, come in questo caso. O ai minori, come è successo in Belgio, primo e unico Paese al mondo per ora ad aver approvato nel 2014 una legge che lo consente dopo aver reso legale l’eutanasia nel 2002. O a quei malati per la cui patologia esistono strumenti con cui controllare il dolore fino a farlo quasi scomparire o renderlo almeno sopportabile.
Il caso dell’ingegnere comasco ricorda da vicino quello di Laura (nome di fantasia), 24 anni, d'origine fiamminga, che due anni fa chiede l’eutanasia perché depressa. La legge belga lo consente, infatti, in caso di “sofferenze psichiche insopportabili”. Laura non aveva una malattia fisica incurabile, aveva molte passioni, dalla fotografia al teatro. Ma aveva anche una situazione familiare molto difficile: il padre alcolista e violento, i genitori divorziati, una storia d’amore finita male. La diagnosi dei medici era depressione, persistenti idee autolesive, tendenza al suicidio manifestate fin da piccola. Casi come quello di Laura, in Belgio, ce ne sono circa 50 all’anno, pari al 3% di tutte le eutanasie effettuate nel Paese. «L'eutanasia resta una decisione violenta, e ogni giorno», aveva ammesso la ragazza, «mi chiedo: lo voglio veramente?». È la logica perversa del mito dell’autodeterminazione che spesso, soprattutto in questi casi, è solo solitudine, disperazione e abbandono come dimostra la domanda drammatica di Laura.
Antonio Sanfrancesco
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