Vacanze 1838. Il “teologo” Giovanni Bosco è invitato a fare la sua prima predica ad Alfiano, nella festa della Madonna del Rosario. Ricorda: “Il parroco, don Giuseppe Pelato, era persona di molta pietà e dottrina, e lo pregai di dirmi il suo parere sulla mia predica. Mi rispose:
- Molto bella, ordinata. Riuscirete un buon predicatore.
- Ma la gente avrà capito?
- Poco. Avremo capito mio fratello prete, io e pochissimi altri.
- Eppure erano cose facili.
- Sembrano facili a voi, ma per il popolo sono molto elevate. Ragionare sopra un tessuto di fatti della storia ecclesiastica e della storia sacra è cosa bella, ma la gente non capisce.
- Cosa fare allora?
- Bisogna lasciare lo stile dei classici, parlare in dialetto, o anche in lingua italiana se volete, ma in maniera popolare, popolare, popolare. Invece di fare ragionamenti, raccontare esempi, fare paragoni semplici e pratici. Ricordatevi che la gente segue poco, e che le verità della fede bisogna spiegarle nella maniera più facile possibile”.
Don Bosco scrive che quel consiglio fu uno dei più preziosi della sua vita. Gli servì nelle prediche, nei catechismi, nello scrivere libri.
Strano patto con l'aldilà
Novembre 1838. Giovanni Bosco inizia il secondo anno di teologia. Sarà tutto dominato da un avvenimento tragico e da un'impressione sconvolgente.
Già durante l'ultimo mese di vacanza, Luigi Comollo gli ha detto parole strane. Guardando i vigneti dall'alto di una collina ha mormorato:
- L'anno venturo spero di gustare un vino migliore.
- Che cosa vuoi dire? - Prima non ha voluto rispondere, poi:
- Da qualche tempo sento un desiderio così vivo di andare in Paradiso, che mi pare impossibile vivere ancora a lungo sulla terra.
Nei primi mesi dell'anno scolastico, si aggiunge un nuovo particolare, altrettanto strano. Giovanni e Luigi hanno letto insieme un brano della biografia di un santo, e Giovanni ha commentato:
- Sarebbe bello che il primo tra noi due che muore, venisse a portare all'altro notizie del suo aldilà.
Luigi è colpito dall'idea, e dice con intensità:
- Allora facciamo un patto. Il primo che muore, se Dio lo permette, verrà a dire all'altro se è in Paradiso. D'accordo?
Si stringono la mano.
Mattino del 25 marzo 1839. Mentre si recano in cappella, Luigi ferma Giovanni nel corridoio, e con volto serio gli dice:
- Per me è finita. Mi sento male, e so che morirò. Giovanni cerca di gettare la cosa in scherzo:
- Ma va là che stai benissimo. Ieri abbiamo passeggiato insieme per un'ora. Non fissarti con queste idee.
Invece è davvero una cosa seria. Mentre sono in chiesa, Comollo sviene e dev'essere portato all'infermeria. La febbre è subito alta e preoccupante.
Il 31 marzo è Pasqua. A Luigi è portata l'Eucaristia come Viatico. È prostrato di forze. In un momento in cui solo Giovanni è accanto a lui, gli prende la mano e mormora:
- Eccoci al momento in cui dobbiamo lasciarci, caro Giovanni. Pensavamo di diventare insieme sacerdoti, di aiutarci, consigliarci. Invece Dio non vuole così. Promettimi però che pregherai per me.
Morì all'alba del 2 aprile, stringendo la mano di Giovanni. Non aveva ancora compiuto 22 anni.
Ed ecco il fatto stranissimo che si verificò nelle seguenti quarantott'ore, com'è riferito dalle parole di don Bosco:
“Nella notte tra il 3 e il 4 aprile ero a letto in un dormitorio di circa venti seminaristi. Verso le undici e mezzo, un cupo rumore si fa sentire nei corridoi. Sembrava che un grosso carro tirato da molti cavalli si andasse avvicinando alla porta del dormitorio. I seminaristi si svegliano, ma nessuno parla. Io ero impietrito dal terrore. Il rumore si avanza ancora. Si apre violentemente la porta. Fu allora che si udì la chiara voce del Comollo dire tre volte: " Bosco, io sono salvo! ". Poi il rumore cessò. I miei compagni erano balzati dal letto, alcuni si stringevano attorno al prefetto della camerata don Giuseppe Fiorito di Rivoli. Fu la prima volta che mi ricordo di aver avuto paura. Uno spavento tale che in quel momento avrei preferito morire. Quello spavento mi causò una grave malattia che mi portò vicino alla tomba”.
Don Lemoyne, che visse all'oratorio accanto a don Bosco dal 1883 al 1888, afferma: “Don Fiorito Giuseppe raccontò molte volte quell'apparizione ai superiori dell'oratorio”.
Pane di miglio e barbera
La “grave malattia” a cui accenna don Bosco, fu una forma seria di esaurimento depressivo, che si protrasse fino ai primi mesi del seguente anno scolastico. Il cibo gli ripugnava, ed era prostrato da un'ostinata insonnia. Dopo parecchi mesi il medico consigliò riposo assoluto a letto. Vi rimase una trentina di giorni.
Riuscì a riprendersi in maniera curiosa, quasi incredibile. Sua madre, saputo che era a letto da parecchi giorni, arrivò a trovarlo portando un grosso pane di miglio e una bottiglia di barbera vecchia. È commovente questa popolana. Le hanno detto che suo figlio è ammalato, e per i contadini la malattia è una sola, la denutrizione. Anche la medicina è una sola, nutrirsi bene. Sulle colline non si sa niente delle malattie dai nomi difficili e delle medicine sofisticate.
E Giovanni sta al gioco. Non vuole che sua madre si senta umiliata dal rifiuto dei suoi doni. Prende un boccone di pane, un sorso di vino vecchio. E quasi senza accorgersene va avanti. A sorsi e bocconi il pane è mangiato, il vino bevuto. E alla fine arriva un sonno profondo “che durò una notte e due giorni consecutivi”. Quando si svegliò, si sentì guarito.
“Tremavo al pensiero di legarmi per tutta la vita”
La ripresa fu così vigorosa che al termine dell'anno “mi nacque il pensiero di tentare di guadagnare un anno di studio durante le vacanze. Il permesso, in quei tempi, si concedeva molto raramente. Mi presentai all'arcivescovo Fransoni, gli chiesi di studiare i trattati del quarto anno durante l'estate, così da concludere il quinquennio teologico nell'anno scolastico 1840-41. La ragione che portai era la mia età: avevo già compiuto 24 anni”.
L'arcivescovo vuole prima esaminare i risultati degli studi precedenti, e concede il favore a patto che prima di novembre Giovanni dia tutti gli esami prescritti, e riceva l'ordinazione al suddiaconato. Il teologo Cinzano, parroco di Castelnuovo, è designato come esaminatore. In due mesi di studio intenso, Giovanni Bosco prepara e dà gli esami.
Il suddiaconato, in quel tempo, è il passo decisivo nella vita di un chierico. Chi lo riceve, fa voto solenne di castità per tutta la vita. Da questo voto, la Chiesa non dispensava nessuno per nessun motivo.
Il chierico che si preparava a ricevere quest'ordine, era invitato a chiudersi nel silenzio per dieci giorni di Esercizi Spirituali. In essi faceva la confessione generale, cioè un riesame totale di tutta la vita, per chiedere a se stesso e al confessore rappresentante di Dio se era in grado di impegnarsi per sempre.
Ricordando quei giorni, don Bosco scrisse: “Desideravo andare avanti, ma tremavo al pensiero di legarmi per tutta la vita”.
19 settembre 1840. Il vescovo invita Giovanni Bosco a pensare un'ultima volta all'importanza dell'ordine che sta per ricevere. Se è deciso a consacrare la sua vita a Dio, faccia un passo avanti. Giovanni Bosco fa un semplice passo sul pavimento della chiesa. Con quel gesto lascia per sempre alle spalle ogni carriera profana.
“Il prete non va da solo in Paradiso”
Novembre 1840. Inizia nel seminario di Chieri il quinto e ultimo anno di teologia.
29 marzo 1841. Riceve l'ordine del diaconato. È l'ultimo traguardo prima del sacerdozio.
26 maggio. Il diacono Giovanni Bosco entra negli Esercizi Spirituali che lo devono preparare all'ordinazione sacerdotale. Su invito del direttore di spirito, medita a lungo in quei giorni le parole del salmo: “Chi salirà al monte del Signore? Chi potrà abitare nel suo santuario? Colui che ha le mani e il cuore puro”. Guardando indietro nella sua vita, vede che quasi miracolosamente le sue mani, da quando Margherita gliele congiungeva nella prima preghiera, sono rimaste pure.
Su un quadernetto annota: “Il prete non va da solo al cielo, non va da solo all'inferno. Se fa bene, andrà al cielo con le anime da lui salvate con il suo buon esempio; se fa male, se dà scandalo, andrà alla perdizione con le anime dannate per suo scandalo. Quindi metterò ogni impegno per osservare le seguenti risoluzioni”.
Seguono nove propositi fondamentali per la sua vita. In gran parte ripetono ed esplicitano i propositi fatti alla vestizione. Tre segnano invece un approfondimento caratteristico di quello che sarà lo “stile sacerdotale” di don Bosco. Eccoli:
- Occupare rigorosamente il tempo.
- Patire, fare, umiliarsi in tutto e sempre quando si tratta di salvare le anime. - La carità e la dolcezza di san Francesco di Sales mi guideranno in ogni cosa.
Sacerdote per sempre
5 giugno 1841. Nella cappella dell'Arcivescovado, Giovanni Bosco vestito di camice bianco si prostra a terra davanti all'altare. Piovono dall'organo le austere note del gregoriano. I sacerdoti e i seminaristi presenti invocano a uno a uno i grandi santi della Chiesa: Pietro, Paolo, Benedetto, Bernardo, Francesco, Caterina, Ignazio.
Pallido per l'emozione e per gli ultimi giorni estenuanti, Giovanni si alza e si inginocchia ai piedi dell'arcivescovo. Luigi Fransoni gli pone le mani sul capo, e invoca lo Spirito Santo affinché venga, e lo consacri sacerdote per sempre.
Alcuni minuti dopo, unendosi alla voce dell'arcivescovo, Giovanni Bosco inizia la sua prima concelebrazione. È diventato don Bosco.
“La mia prima Messa - scriverà con semplicità - l'ho celebrata nella chiesa di san Francesco d'Assisi, assistito da don Giuseppe Cafasso, mio insigne benefattore e direttore. Mi aspettavano ansiosamente al mio paese (era la festa della SS. Trinità), dove da molti anni non si era avuta una prima Messa. Ma ho preferito celebrarla a Torino senza rumore, all'altare dell'Angelo Custode. Quello posso chiamarlo il più bel giorno della mia vita. Nel momento in cui si ricordano i defunti, ho ricordato i miei cari, i miei benefattori, specialmente don Calosso, che ho sempre considerato grande e insigne benefattore. È pia credenza che il Signore conceda quella grazia che il nuovo sacerdote gli domanda celebrando la prima Messa. Io chiesi ardentemente l'efficacia della parola, per poter fare del bene alle anime”.
La sua seconda Messa, don Bosco volle dirla all'altare della Consolata, nel grande Santuario della Madonna in Torino. Levando gli occhi la vide lassù, la Signora splendente come il sole, che diciassette anni prima gli aveva parlato in sogno. “Renditi umile, forte e robusto”, aveva detto. Don Bosco aveva cercato di farsi così. Ora cominciava il tempo in cui “tutto avrebbe compreso”.
Il giovedì seguente, festa del Corpus Domini (allora festa di precetto), don Bosco dice la Messa al suo paese.
Le campane hanno suonato e squillato a lungo. Tutta la gente è ammucchiata nella grande chiesa. “Mi volevano bene - ricorderà don Bosco -, e ognuno era contento insieme con me”.
I piccoletti sgranano gli occhi al sentire che quel prete era un piccolo saltimbanco.
I grandi lo ricordano compagno di giochi e di scuola.
Gli anziani, sulle colline intorno, lo hanno visto passare tante volte per la strada con i piedi scalzi e i libri in mano.
Quella sera, mamma Margherita trova un momento per parlargli da solo a solo, e gli dice: “Ora sei prete, sei più vicino a Gesù. Io non ho letto i tuoi libri, ma ricordati che cominciare a dir Messa vuol dire cominciare a soffrire. Non te ne accorgerai subito, ma a poco a poco vedrai che tua madre ti ha detto la verità. D'ora innanzi pensa soltanto alla salvezza delle anime, e non prenderti nessuna preoccupazione di me”.
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