16. “MI CHIAMO BARTOLOMEO GARELLI”

16. “MI CHIAMO BARTOLOMEO GARELLI”

 

I torinesi chiamano don Cafasso “il prete della forca”. Perché scende nelle prigioni a consolare i detenuti. E se qualcuno viene condannato a morte, sale sulla carretta accanto a lui, e lo conforta fino al luogo del supplizio.

Le prigioni di Torino, in questo tempo, sono quattro: due per le donne e due per gli uomini. Queste ultime sono il correzionale (presso la chiesa dei Ss. Martiri) e le prigioni senatorie (un edificio quadrato in via San Domenico).

Mentre parte per una delle solite visite, un giorno don Cafasso invita don Bosco ad accompagnarlo.

I corridoi oscuri, le mura nere e umide, l'aspetto triste e squallido dei detenuti, lo turbano profondamente. Prova ribrezzo, e anche la sensazione di soffocare.

Ma ciò che gli procura un dolore vivo è la vista di ragazzi dietro le sbarre. Scrive: “Vedere un numero grande di giovanetti, dai 12 ai 18 anni, tutti sani, robusti, d'ingegno sveglio, vederli là inoperosi, rosicchiati dagli insetti, stentare di pane spirituale e materiale, fu cosa che mi fece inorridire”.

Tornò altre volte, con don Cafasso e anche da solo. Cercò dì parlare con loro non solo “facendo la lezione di catechismo” (che veniva vigilata dalle guardie), ma a tu per to. All'inizio le reazioni furono aspre. Dovette mandare giù insulti pesanti. Ma a poco a poco qualcuno si mostrò meno diffidente, riuscì a parlare da amico ad amico.

Venne così a conoscere le loro povere storie, il loro avvilimento, la rabbia che a volte li rendeva feroci. Il “delitto” più comune era che avevano rubato. Per fame, per desiderio di qualcosa oltre il sostentamento scarso, e anche per invidia della gente ricca che sfruttava il loro lavoro e li lasciava nella miseria.

La società non aveva saputo far niente per loro, e li rinchiudeva là dentro.
Erano nutriti di pane nero e di acqua. Dovevano obbedire per forza ai secondini che avevano paura e perciò picchiavano al minimo pretesto.
Erano rinchiusi in stanzoni collettivi, dove i più mascalzoni diventavano i maestri di vita. “Quello che più mi impressionava - scrive don Bosco - era che molti, quando uscivano, erano decisi a fare una vita diversa, migliore”. Magari solo per la paura della prigione. “Ma dopo poco tempo finivano di nuovo lì”.

Cercò di capirne la causa, e concluse: “Perché sono abbandonati a se stessi”. Non avevano famiglia, o i parenti li respingevano perché la prigione “li aveva disonorati per sempre”.

“Dicevo tra me stesso: questi ragazzi dovrebbero trovare fuori un amico che si prende cura di loro, che li assiste, li istruisce, li conduce in chiesa nei giorni festivi. Allora non tornerebbero più in prigione”.

Di giorno in giorno riesce a farsi qualche amico. Le sue “lezioni di catechismo dietro le sbarre” vengono ascoltate più volentieri. “Man mano che facevo loro sentire la dignità dell'uomo - scrive - provavano un piacere nel cuore, risolvevano di farsi più buoni”.

Ma sovente, quando torna, tutto è distrutto. I volti sono tornati duri, le voci sarcastiche sibilano bestemmie. Don Bosco non sempre riesce a vincere l'avvilimento. Un giorno scoppia a piangere. C'è un attimo di incertezza.

- Perché quel prete piange? -, domanda qualcuno.
- Perché ci vuole bene. Anche mia madre piangerebbe se mi vedesse qui dentro.

 

I parroci aspettano

Uscendo, don Bosco ha preso una decisione incrollabile: “Bisogna impedire ad ogni costo che dei ragazzi così giovani finiscano in prigione. Voglio essere il salvatore di questa gioventù”.

“Comunicai questo pensiero a don Cafasso - scrive - e con il suo consiglio cercai il modo di tradurlo in realtà”.

Altri preti a Torino stanno cercando soluzioni per i problemi dei giovani, e seguono strade diverse.

Le parrocchie sono quattordici in città e due nei sobborghi. I parroci sentono il problema dei giovani, ma stanno ad aspettarli nelle sacrestie e nelle chiese, per il catechismo serale, domenicale e quaresimale. Rimpiangono i «bei tempi» in cui i giovani immigrati arrivavano accompagnati da una lettera del parroco di origine al loro collega cittadino. Non si accorgono che sotto l'ondata della crescita popolare quegli schemi di comportamento sono saltati, quei «bei tempi» non torneranno più.

Occorre inventare schemi nuovi, tentare vie diverse. I viceparroci che continuano a occuparsi di funerali e di battesimi dovrebbero tentare un apostolato volante tra botteghe, officine, mercati.

A Milano, dove la rivoluzione industriale si fa sentire da anni il problema dei giovani sbandati è stato già affrontato. Si può ormai vedere una rete di istituzioni adeguate ai tempi: gli “oratori” Nel 1850 l'annuario diocesano milanese elencherà quindici oratori alcuni con decenni di esperienza alle spalle. A Brescia, don Ludovico Pavoni ha iniziato il suo oratorio per ragazzi “poveri rozzi disprezzati” addirittura nel 1809.

A Torino, invece, il problema continua a rimanere problema. I parroci esitano. Ancora nel 1846, dopo che preti torinesi si sono recati a vedere le opere giovanili di Milano, concluderanno- “I parroci della città di Torino, raccolti nelle loro conferenze trattarono sulla convenienza degli oratori. Ponderati i timori e le speranze non potendo ciascun parroco provvedere un oratorio nella rispettiva parrocchia, incoraggiano il sacerdote Giovanni Bosco a continuare (il suo oratorio) finché non sia presa altra deliberazione”

Mentre i parroci esitano, si muovono i preti giovani.

 

L'esperimento di don Cocchi

Il primo è don Giovanni Cocchi, un vivace sacerdote che viene dalla provincia, da Druent. È stato ordinato sacerdote nel 1836 mentre dori Bosco era alla fine del primo anno di filosofia in seminario.

Al Moschino, una località miserrima e malfamata in borgo Vanchiglia, fonda nel 1841 il primo oratorio di Torino (un tentativo l'ha già fatto nel 1840) e lo mette sotto la protezione dell'Angelo Custode. È nella zona della parrocchia dell'Annunziata, verso il Po.

Don Cocchi è un prete geniale e sensibile, ha le idee brillanti e i colpi di testa dell'iniziatore, non sempre la costanza e la vista lunga del realizzatore. E ha idee liberali, assume atteggiamenti di fronda rispetto alla linea politica del suo Arcivescovo e del Papa.

Questo lo rende “sospetto”, anche se ha una carità operosa che scuote l'inerzia di tanti altri ecclesiastici.

Nel 1849-50 sarà tra gli animatori della “Associazione di carità a prò dei giovani orfani ed abbandonati”, più tardi del “Collegio degli Artigianelli”, dell'oratorio San Martino, della “Colonia agricola” di Moncucco, sempre a favore dei giovani e delle classi disagiate.

Altri preti, insieme a don Cocchi, si stanno gettando al lavoro pastorale tra i giovani. Sono preti “liberi” da impegni parrocchiali. Molti sono stati o sono nel Convitto ecclesiastico, affratellati dalle esperienze vive che affrontano insieme.

Don Cafasso stesso - ricorda don Bosco - “già da parecchi anni, in tempo estivo, faceva ogni domenica un catechismo ai garzoni muratori in una stanzetta annessa alla sacrestia della chiesa di S. Francesco di Assisi. La gravezza però delle sue occupazioni gli fece interrompere un esercizio a lui tanto caro”.

Anche don Bosco, come abbiamo detto, appena entrato al Convitto, si è messo per le strade. Ha incontrato diffidenze e ostilità, ma anche ragazzi che gli si sono affezionati. “Mi trovai una schiera di giovanetti che mi seguivano per i viali, le piazze, nella stessa sacrestia della chiesa del Convitto”.

Don Cafasso vuole affidargli la continuazione del suo catechismo ai piccoli muratori, ma dopo l'esperienza traumatizzante delle carceri don Bosco pensa a qualcosa di più consistente.

Vuole - come ha detto al Cafasso - realizzare un centro in cui i ragazzi abbandonati dalla famiglia trovino un amico, dove i giovani ex-carcerati sappiano di avere un aiuto e un sostegno. Un centro non legato a una parrocchia ma alla sua persona. E che non solo funzioni alla domenica per il catechismo, ma si prolunghi per tutta la settimana mediante l'amicizia, l'assistenza, gli incontri sul luogo di lavoro.

 

Un'Ave Maria per cominciare

Il timido inizio di questa realizzazione (che contiene già quasi tutta l'originalità dell'oratorio di don Bosco) avviene nella mattinata dell'8 dicembre 1841. Nello stesso anno in cui don Cocchi ha fondato in Torino il primo oratorio. Trentacinque giorni dopo l'arrivo di don Bosco al Convitto.

È lui stesso a descrivere la scena, con la squisitezza e la semplicità di una pagina antica:

“Il giorno solenne dell'Immacolata Concezione di Maria, ero in atto di vestirmi dei sacri paramenti per celebrare la santa Messa. Il chierico di sacrestia, Giuseppe Comotti, vedendo un giovanetto in un canto, lo invitò a venirmi a servire la Messa.

- Non so - gli rispose mortificato.
- Vieni - replicò l'altro -, voglio che tu serva Messa.
- Non so - ripetè il giovanetto -, non l'ho mai servita.
- Bestione che sei! - disse il sacrestano furioso -. Se non sai servire Messa, perché vieni in sacrestia? -. Ciò dicendo impugna la pertica dello spolverino e giù colpi sulle spalle e sulla testa di quel poveretto.

Mentre l'altro se la dava a gambe:
- Che fate? - gridai ad alta voce -. Perché lo picchiate?
- Perché viene in sacrestia e non sa servir Messa.
- Avete fatto male.
- A lei che importa?
- È un mio amico. Chiamatelo subito, ho bisogno di parlare con lui”.

Il ragazzo torna, mortificato. Ha i capelli rapati, la giacchetta sporca di calce. Un giovane immigrato. Probabilmente i suoi gli hanno detto: “Quando sarai a Torino, vai alla Messa”. Lui è venuto, ma non se l'è sentita di entrare nella chiesa tra la gente ben vestita. Ha provato a entrare nella sacrestia, come gli uomini e i giovanotti usano fare in tanti paesi di campagna.

“Gli domandai con amorevolezza:
- Hai già ascoltato la Messa?
-No. '
- Vieni ad ascoltarla. Dopo ho da parlarti di un affare che ti farà piacere.

Me lo promise. Celebrata la Messa e fatto il ringraziamento, lo condussi in un coretto, e con faccia allegra gli parlai:

- Mio buon amico, come ti chiami? - Bartolomeo Garelli.
- Di che paese sei?
- Di Asti.

- Che mestiere fai? - Il muratore.
- È vivo tuo papà? - No, è morto.

- E tua mamma?
- È morta anche lei.

- Quanti anni hai?
- Sedici.
- Sai leggere e scrivere?
- No.
- Sai cantare? - il giovinetto, asciugandosi gli occhi, mi fissò in viso quasi meravigliato

e rispose: - No.
- Sai fischiare? - Bartolomeo si mise a ridere. Era ciò che volevo. Cominciavamo ad essere amici.
- Hai fatto la prima Comunione?
- Non ancora.
- E ti sei già confessato?
- Sì, quando ero piccolo.
- E vai al catechismo?
- Non oso. I ragazzi più piccoli mi prendono in giro.
- Se ti facessi un catechismo a parte, verresti ad ascoltarlo? - Molto volentieri.
- Anche in questo posto?

- Purché non mi diano delle bastonate!

- Stai tranquillo, ora sei mio amico, e nessuno ti toccherà. Quando vuoi che cominciamo?

- Quando a lei piace. - Anche subito?
- Con piacere”.

Don Bosco s'inginocchia e recita un'Ave Maria. Quarantacinque anni dopo, ai suoi Salesiani, dirà: “Tutte le benedizioni piovuteci dal cielo sono frutto di quella prima Ave Maria detta con fervore e con retta intenzione”.

Finita l'Ave Maria, don Bosco si fa il segno di croce “per cominciare”, ma si accorge che Bartolomeo non lo fa, o meglio fa un gesto che ricorda solo vagamente il segno della croce. Allora, con dolcezza, glielo insegna bene. E gli spiega in dialetto (sono astigiani tutti e due!) perché chiamiamo Dio “Padre”. Alla fine gli dice:

- Vorrei che venissi anche domenica prossima, Bartolomeo. - Volentieri.
- Ma non venire solo. Porta con te dei tuoi amici.

Bartolomeo Garelli, muratorino di Asti, fu il primo ambasciatore di don Bosco tra i giovani lavoratori del suo quartiere. Raccontò l'incontro con il prete simpatico “che sapeva fischiare anche lui”, e riferì il suo invito.

Quattro giorni dopo era domenica. Nella sacrestia entrarono in nove. Non venivano “alla chiesa di San Francesco d'Assisi”, venivano “a cercare don Bosco”. L'oratorio era nato.

 

“Subito”: una parola come un marchio

Nel dialogo con Bartolomeo Garelli c'è la parola “subito”. Sembra una parola come tante altre. Invece è come un granello, che quando lo semini ti dà una pianta.

In questo momento (1841), “subito” è la parola d'ordine di tutto un gruppo di preti torinesi. Nella incertezza della prima rivoluzione industriale, nell'impossibilità di trovare belli e fatti piani e programmi di azione, questi preti gettano tutte le loro energie nel fare “subito” qualcosa per i giovani poveri, per la gente miserabile.

Ma questo “subito” rimarrà in modo particolare il marchio di don Bosco, e poi dei suoi Salesiani, che si specializzeranno come uomini del “pronto intervento” tra i ragazzi poveri.

Torneremo nelle pagine seguenti a dire qualcosa su don Bosco e la questione sociale. Ma ci preme far notare fin d'ora come don Bosco è “tirato dentro l'azione” dall'urgenza, dall'impossibilità di aspettare.

“Fare qualcosa SUBITO”, perché i giovani poveri non possono permettersi il lusso di aspettare le riforme, i piani organici, le rivoluzioni del sistema. Certo, il “subito” non basta. “Se incontri uno che muore di fame, invece di dargli un pesce, insegnagli a pescare”, si dirà giustamente. Ma è anche vero il rovescio della frase: “Se incontri uno che muore di fame, dagli un pesce, perché abbia tempo di imparare a pescare”. Non basta il “subito”, l'intervento immediato, ma non basta nemmeno “preparare un futuro diverso”, perché intanto i poveri muoiono di miseria.

Don Bosco e i suoi primi Salesiani si calamiteranno sul “subito”, sul pronto intervento. Daranno ai giovani poveri catechismo, pane, istruzione professionale, mestiere protetto da un buon contratto di lavoro. E attenderanno che altri cattolici, in concorrenza con socialisti, comunisti, anarchici, preparino i piani per aggredire e trasformare lo Stato liberale, che ipocritamente “si astiene” dai conflitti di lavoro, cioè lascia che i potenti facciano i prepotenti, e che i deboli vengano schiacciati.

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