19. TRE STANZE E UNO SFRATTO A PRIMAVERA

19. TRE STANZE E UNO SFRATTO A PRIMAVERA

 

L'Oratorio sulle strade di Torino 

La domenica dopo, moltissimi ragazzi si recarono a San Pietro in Vincoli: non erano stati avvertiti della proibizione ingiunta dal Municipio. Trovando tutto chiuso, si rovesciarono in massa all'Ospedaletto, dove continuavo ad abitare. 

Cosa dovevo fare? Erano ammucchiati nella mia stanza quadri, panche e candelieri per le funzioni di chiesa, e bocce, trampoli e cerchi per la ricreazione. Un esercito di ragazzi mi seguiva dovunque. Ma io non avevo una spanna di terreno dove poterli radunare. 

Riuscivo tuttavia a nascondere la mia delusione. Ero allegro con tutti, a tutti raccontavo le meraviglie dell'Oratorio, che per allora esisteva solo nella mente mia e nella mente di Dio. 

Per occuparli allegramente nei giorni di festa, li conducevo in passeggiata fino a Sassi, alla Madonna dei Pilone, a Madonna di Campagna, al Monte dei Cappuccini e persino a Superga. In queste chiese, al mattino celebravo per loro la Messa e spiegavo il Vangelo, nel pomeriggio facevo un po' di catechismo, qualche racconto, cantavamo alcune lodi sacre. Quindi giri e passeggiate fino all'ora di far ritorno in famiglia. Sembrava che questa posizione critica dovesse mandare in fumo ogni idea di Oratorio, e invece aumentò in modo straordinario i ragazzi. 

 

Le prime scuole serali in casa Moretta 

Ma arrivò novembre (anno 1845). Il clima non era più adatto alle passeggiate e alle camminate fuori città. D'accordo con don Borel presi in affitto tre stanze nella casa di don Moretta, che è quella costruzione vicina, quasi di fronte all'attuale Santuario di Maria Ausiliatrice. A forza di riparazioni, oggi quella casa è stata praticamente rifatta. 

Qui passammo quattro mesi. Eravamo molto allo stretto, ma almeno potevamo raccogliere i ragazzi, fare istruzione religiosa e offrire a tutti la possibilità di confessarsi. In quell'inverno abbiamo anche cominciato le scuole serali. Era la prima volta, nelle nostre zone, che si tentava un'iniziativa simile. Se ne parlò molto: parecchi erano favorevoli, altri contrari. 

Fu in quel tempo che si diffusero alcune voci assai strane. Alcuni affermavano che don Bosco era un rivoluzionario, altri che era un eretico o un pazzo. 

I parroci di Torino vogliono vederci chiaro. 

Due rispettabili parroci di Torino ebbero un incontro con me a nome dei loro colleghi. Mi dissero: 

- Questo Oratorio allontana i ragazzi dalle loro parrocchie. Il parroco vedrà presto la sua chiesa vuota. Non conoscerà nemmeno i giovani di cui deve rendere conto a Dio. Ci pensi, don Bosco. Smetta di raccogliere ragazzi e li mandi alle loro parrocchie. 

- La maggior parte dei ragazzi che raccolgo - risposi - non possono turbare la vita parrocchiale, perché non conoscono né parroco né parrocchia. 

- E come mai? 

- Perché sono quasi tutti forestieri. I loro genitori sono venuti in città a cercare lavoro. Non l'hanno trovato, e andandosene li hanno lasciati qui. Oppure sono giovani che sono venuti da soli in città a cercare un'occupazione. Sono savoiardi, svizzeri, valdostani, biellesi, novaresi, lombardi. 

- Perché non aiutarli a inserirsi nelle rispettive parrocchie? - Ma non le conoscono nemmeno. 

- Bisogna aiutarli a conoscerle. 

- Non è possibile. La diversità di dialetto, l'incertezza del domicilio, la non conoscenza della città rendono la faccenda difficile se non impossibile. Occorre aggiungere che molti di loro sono già grandi, toccano i diciotto, i venti, a volte i venticinque anni. E di religione non sanno niente. Chi è disposto a mettere giovani così nelle classi di catechismo accanto a bambini di otto o dieci anni? 

- Non potrebbe condurli lei alle rispettive parrocchie, e poi venire là a fare lezioni di catechismo? 

- Potrei al massimo recarmi in una parrocchia, non certo in tutte. Una soluzione sarebbe che ogni parroco venisse a raccogliersi i suoi, e li guidasse alla sua parrocchia. Ma anche così la cosa rimarrebbe difficile: non pochi sono dissipati, indisciplinati. Accettano catechismo e preghiere solo se sono attirati da ricreazioni e passeggiate. Ogni parrocchia dovrebbe quindi avere un luogo determinato dove radunarli con giochi e attrazioni. 

- Questo è impossibile. Non abbiamo locali, e i preti nei giorni di festa hanno altro da fare. 

- Dunque? 

- Dunque lei continui a far del bene a questi giovani. Noi intanto discuteremo la situazione. 

 

La primavera porta lo sfratto 

I parroci torinesi discussero seriamente la questione: approvare o disapprovare gli Oratori? Non tutti erano dello stesso parere. La conclusione mi fu comunicata da don Agostino Gattino, curato di Borgo Dora, e da don Ponzati, curato di S. Agostino: 

« I parroci di Torino, raccolti in conferenza, hanno discusso sull'opportunità degli Oratori. Si sono soppesate le ragioni del pro e del contro, i timori e le speranze. Non potendo ogni parroco dar vita a un Oratorio nella propria parrocchia, incoraggiano il sacerdote don Bosco a continuare nella sua opera, finché non sia stata presa una decisione diversa». 

Mentre si succedevano questi avvenimenti, giungeva la primavera del 1846. Casa Moretta aveva molti inquilini. Stanchi degli schiamazzi dei ragazzi, del loro fracasso nell'entrare ed uscire, dichiararono che se ne sarebbero andati tutti se non cessavano immediatamente le nostre riunioni. Il buon prete don Moretta dovette venirmi ad esporre le lagnanze collettive. Se volevamo tenere in vita il nostro Oratorio, dovevamo cercare subito un'altra sede.

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