Chi vuole udire qualcosa deve prepararsi con il silenzio alla capacità di udire. Se lui stesso parla o parlano in lui i suoi pensieri, desideri, preoccupazioni, allora il rumore che fanno renderà impotente la sua capacità di ascolto. Perciò ogni istruzione alla meditazione incomincia con la richiesta di creare silenzio e vuoto interiore, affinché ci sia spazio per ciò che deve venire accolto.
del 01 gennaio 2002
Chi vuole udire qualcosa deve prepararsi con il silenzio alla capacità di udire. Se lui stesso parla o parlano in lui i suoi pensieri, desideri, preoccupazioni, allora il rumore che fanno renderà impotente la sua capacità di ascolto. Perciò ogni istruzione alla meditazione incomincia con la richiesta di creare silenzio e vuoto interiore, affinché ci sia spazio per ciò che deve venire accolto. Si parla di «interrompere», di «concentrazione» della coscienza diffusa, di «percorrere» il misterioso cammino verso l'interiorità, ecc. Ma a buon diritto si può dubitare che un tale sforzo, nella sua nuda negatività, conduca già a quella positiva disponibilità di ascolto che distingue la meditazione cristiana da altre forme di contemplazione, nelle quali, poiché non vi risuona nessuna parola da parte di Dio, una tale disponibilità è superflua.
Cristianamente il silenzio richiesto non deve essere realizzato precedentemente dall’uomo, anzi il credente deve rendersi conto che egli possiede già da sempre in sé e contemporaneamente in Dio la «cameretta» silenziosa e nascosta in cui deve entrare (Mt 6,6) e in cui è presso il Padre. Allo stesso modo forse dei «piccoli» ignari che hanno i loro «angeli in cielo che contemplano sempre il volto del mio Padre celeste» (Mt 18,10). Le nostre cure e preoccupazioni terrene sono già da sempre sul piatto ascendente della bilancia, mentre l'altro, discendente, ma anche lui nostro, ossia il nostro essere in Dio, ha «un sovrappeso inimmaginabile» (2 Cor 4,17). Non abbiamo bisogno di aprirci dapprima un varco verso Dio con le nostre forze: «la nostra vita» è già da sempre «nascosta con Cristo in Dio» (Col 3,3). Allora non abbiamo bisogno per la nostra preparazione alla meditazione di lunghi rivolgimenti psicologici, ma,solo della breve presa di coscienza nella fede di dove si trova già da sempre il nostro vero centro e fulcro. Ci sembra di essere lontani da Dio, ma lui ci è vicino; non dobbiamo avvicinarci a Lui con fatica, anzi le cose stanno proprio così come le descrive la parabola: «Quando era ancora lontano, il padre lo vide e commosso gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò» (Lc 15,20). E il discorso del figlio imparato a memoria: «Padre, non sono più degno di essere chiamato tuo figlio; trattami come uno dei tuoi garzoni» è già superato dal gesto del padre che grida verso la casa: «Presto, portate qui il vestito più bello e rivestitelo, mettetegli l'anello al dito e i calzari ai piedi». Similmente avviene nella parabola del banchetto nuziale del re, dove agli invitati viene annunziato « Tutto è pronto», solo che questi non vogliono venire (Mt 22,4). La pienezza di Dio è accessibile senza anticamere, non c'è bisogno di un lungo viaggio «verso il cielo», di una discesa «nell'abisso» (Rm 10,6 ss.). La parola di Dio rivolta a me non è «sopra la (tua) capacità e irraggiungibile», ma «vicinissima sulla tua bocca e nel tuo cuore» (Dt 30,11.14). La «preparazione» del bambino è un salto nelle braccia del Padre, tenendo conto che l'amore del Padre, ossia la volontà e l'interessamento di Dio, tiene il primato su ogni nostra capacità che, sia che lo vogliamo o no, gia a sempre è riconosciuta, pensata e ordinata da Dio nei suoi progetti.
Se dunque la preghiera preparatoria «chiede da Dio nostro Signore la grazia che tutte le mie intenzioni, azioni e attività» in questa meditazione «siano puramente ordinate al servizio e alla gloria della sua divina Maestà» (Esercizi Spirituali, n. 46), allora questa richiesta non è espressa da una estrema distanza, ma deve essere lo slancio del bimbo verso il cuore del Padre che ha sempre ragione e che è la naturale norma di ogni agire del bambino. Con ciò viene anche affermato che la preparazione del nostro cuore non deve essere calcolata, così da raggiungere attraverso la meditazione un nostro rendiconto e un nostro vantaggio, ma consiste proprio nell'abbandono di ogni volontà autonoma alla profondità del disinteressato amore di Dio. (Così un sacerdote non preparerà la sua predica durante la propria meditazione, che non deve essere funzionalizzata a questa, anche se naturalmente nella preparazione dell'omelia avrà bisogno di una propria preghiera meditativa).
Ma questo abbandonarsi alla volontà di Dio, proprio anche nella imminente meditazione, racchiude come dato naturale la richiesta (Esercizi Spirituali, n. 48) che mi si dischiuda per grazia di Dio il significato destinato a me della Parola rivoltami. La Parola di Dio è come un sacramento che effettivamente opera per se stesso ciò che dice e significa, ma per raggiungere ciò deve cadere come seme su un terreno preparato e dissodato. Nella richiesta è insita l'umiltà che non pensa di poter forzare da sola l'accesso alle profondità di Dio, il che tuttavia non impedisce il proposito di sforzarsi seriamente circa il contenuto tenuto in serbo per me. Per chi crede con semplicità non ci sono neppure tensioni in tutto ciò: egli sa che nella sequela di Cristo deve darsi da fare per realizzare la volontà di Dio. Nella preghiera non cadono tordi arrostiti in bocca a nessuno. Ed egli sa anche che ogni «alzarsi presto», ogni «vegliare» e «costruire» rimane vano se Dio non dà il successo gratuitamente (Sal 127). La richiesta non si rivolge a un vuoto informe; senza voler prevenire nulla essa si rivolge alla volontà di Dio, che qui ed ora, in questa meditazione mi vuole dare un dono determinato: vorrei da Te ciò che Tu hai in mente di mostrarmi e donarmi.
Ma manca ancora un momento. L'appello di Dio per me è già sempre concreto e in mia attesa là dove Gesù Cristo in terra ha presentato l'appello di Dio. 1 vangeli raccontano scene, dialoghi, istruzioni, miracoli di Gesù che sono tutti, come detto innanzi, Parola di Dio al mondo. Quella Parola che è trasmessa attraverso parole umane e gli scritti degli evangelisti, attraverso i quali dobbiamo passare per cogliere la Parola così come è intesa da Dio stesso. Non è questo il tempo per soffermarsi esegeticamente sul mezzo di trasmissione in quanto tale; tale fatica può essere fatta al di fuori della meditazione in utile studio. Ora non sto davanti a un testo che posso comparare orizzontalmente con altri testi e forse a partire da essi posso anche relativizzare, ma ora sto davanti al testo attraverso cui io - verticalmente in profondità e altezza - sono immediatamente confrontato con la Parola di Dio. Naturalmente, in quanto cristiano credente, di una cosa non posso dimenticarmi: che Gesù Cristo, in quanto definitiva Parola di Dio, non è identificabile con alcuna singola proposizione, ma comprensibile solo nel suo destino complessivo: come colui che per noi vive, muore e risorge. Noi lo possiamo incontrare c me Punico e indivisibile in ogni singolo gesto, ogni singola parola e scena della sua vita, morte e risurrezione. Nella fede sono consapevole di questa unità e con questa fede io medito ora la sua singola parola: questa situazione sul lago, nella tempesta sulle onde, nel tempio, tra la folla, nel gruppo dei discepoli, nell'orto degli ulivi, durante la via crucis...
Tutto e ogni singola cosa deve essere concreto, deve essere rappresentato, con i sensi e l'immaginazione senza i quali una semplice comprensione razionale non sarebbe neanche umana, non corrisponderebbe neanche alla Parola incarnata. Con i sensi e l'immaginazione di un credente che, in quanto tali, diventano per se stessi sensi «spirituali» e immaginazione «spirituale» e poiché sono al servizio della fede e in contatto con «l'oggetto» aperto verso Dio - appunto l'uomo Gesù Cristo rivelatore di Dio - si aprono a loro volta verso il divino. Voler astrarre dai sensi, dall’immaginazione, dai concetti finiti per accostarci a Dio può solo distogliere da colui che si è descritto come la «via» e la «porta». Se una «forza» non esce dal corpo di Gesù il malato cronico non può essere guarito, se Gesù non spalma con la sua saliva gli occhi del cieco, costui non può vedere, se egli non soffia con il suo respiro fisico sui suoi discepoli, costoro non possono ricevere lo Spirito. Il corpo di Gesù - il credente lo sa è ora il tempio in cui Dio abita (Gv 2,21). Se si riflette che il fedele si accosta a Dio in grado massimo nella celebrazione del mistero eucaristico della carne e sangue di Gesù donati, allora si dovranno rifiutare in quanto inadeguate alla via cristiana tutte le forme di meditazione che tentano di «innalzarsi» dal corporale al «puro spirituale».
Ma ritorniamo all'intelligenza che Gesù, in quanto soggetto di questa storia tripartita vita mortale, morte, vita eterna in cielo ma anche nei sacramenti - non può essere composto da una molteplicità di parole, ma in quanto questa persona incomparabile, simultaneamente Dio e uomo, è sempre l'indivisibile Uno. Quando pronuncia una frase, racconta una parabola, opera un miracolo, in tutto ciò egli Può sempre essere compreso come l'Uno e proprio perciò rivela il Dio uno, vivente e trinitario. Non dobbiamo perciò allontanarci dalla parola, parabola, miracolo per acquistare attraverso ulteriore «materiale» più intelligenza o un accesso più facile. Nell'Unico, che contemplato con occhi puramente mondani può apparire limitato, si trova tutto ciò di cui necessitiamo in questa meditazione per ascoltare ciò che l'unico e, in questa unità, perfetto Dio ci vuole suggerire. Divagare con la scusa di informarci meglio, di arricchire il nostro sapere sarebbe una forma di dispersione.
Al massimo una parola o parabola o un miracolo possono essere contemplati nell'interna progressione della vita di Gesù. Una beatitudine, per esempio «beati i poveri in spirito», ci apre la sua ricchezza se la sentiamo dapprima come una parola dell'uomo Gesù: come egli stesso è povero davanti al Padre dal cui cibo dipende, che lo Spirito Santo gli porta. Come egli poi invita i discepoli e il popolo in ascolto, attraverso la beatitudine, a una tale povertà davanti a Dio; come infine egli illumini definitivamente con questa sua parola programmatica le più profonde intenzioni dell'Antico Testamento, i «poveri di Jahwe». Ma in modo del tutto spontaneo la parola dell'uomo Gesù acquista la sua ultima profondità nel Gesù sofferente, poiché tutte le sue parole sono già sempre dette nella prospettiva della Passione, sono riferimento ad essa. Così, per esempio, può perdonare i peccati già prima della passione solo perché sulla croce offrirà espiazione per tutti i peccati; così si rivela solo dalla croce cosa sia estrema povertà nello spirito. E tuttavia nessun fedele può fermarsi alla croce poiché il supremo amore realizzatosi su di essa ottiene la sua rivelazione nel «beato» della risurrezione in quanto rivelazione del «loro è il regno dei cieli» entrambe già vere prima ma ora apertamente dimostrate. E che poi la parola della povertà non sia affatto superata si rivela proprio perché in Dio c'è una povertà perfettamente beata poiché nessuna delle persone divine vorrebbe avere qualcosa per sé ma tutto - l'intera divinità - possiede solo nel dono all'altro (altrimenti avremo tre dei contemporaneamente). Così la medesima e identica parola dell'identico Gesù attraverso la sua vita, morale e risurrezione vale nello stesso modo per il mondo, la discesa agli inferi e il cielo e dunque la sua verità è molto più ampia, universale e divina di quello che potremmo sognarci. E naturalmente anche un quarto punto vi farebbe parte: che questa beatitudine e a povertà si rivela anche nell'eucarestia in quanto cuore della Chiesa e perciò anche in tutta l'esistenza della Chiesa: infatti la beatitudine di Gesù consiste nell'espropriare se stesso così da diventare spazio di vita per tutti coloro che lo ricevono e attraverso di loro per tutti gli uomini. Questo è il suo «spirito», il suo sentimento che è proprio il suo Spirito Santo, che egli ci comunica nel suo eterno farsi povero.
Tutto questo solo come esempio illustrativo di come in una sua sola parola Gesù è contenuto nella sua totalità e invero anche nella sua unitarietà, pur attraverso la sua storia; di come egli in una sola parola può esprimere l'ideale dell'uomo alla sua sequela, l'ideale che egli, Cristo stesso, è e l'ideale che Dio è in quanto trinità. Solo la ricchezza di dimensioni all'interno dell'unità e non certo un metodo rigidamente applicabile voleva essere presentato in tutto ciò.
Hans Urs Von Balthasar
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