213. La fede, la temperanza e l’ozio

 


213. La fede, la temperanza e l’ozio 

 

Domenica 15 giugno 1876, solennità del Corpus Domini

 

Mi parve di trovarmi nel mezzo del cortile, che mi avviavo verso la porta d’uscita circondato dai miei giovani, chi per salutarmi, chi per dirmi qualche cosa, secondo il solito. Quando sento dalla parte degli artigiani forti grida: “Ahi! Ahi!”; e vedo che a precipizio fuggono di qua, passando molti dalla porta del fondo del cortile. E quindi anche gli studenti si mettono a gridare, affollandosi a me d’intorno. Volendo io avanzarmi per osservare che mai fosse che così spaventava i miei giovani, essi mi ripetevano che non mi avanzassi, che vi era un mostro che m’avrebbe divorato, ed intanto mi trattenevano in mezzo al loro numero.

Mentre che così io stavo dubbioso, ecco apparire un orrendo mostro che si avvicinava alla nostra volta. Quell’animale o demonio che si fosse, era così brutto, schifoso, terribile, enorme che tale non esiste in tutta la terra. Aveva qualche somiglianza coll’orso, ma era di dietro più piccolo a proporzione delle altre membra; aveva spalle e stomaco molto largo e grosso, con una enorme testa ed una smisurata bocca da cui sporgevano fuori due lunghissimi denti a guisa di spade.

Tutti i giovani spaventati si rivolgevano a me perché loro dessi qualche consiglio; ma neppure io ero libero dallo spavento ed ero non poco imbarazzato. Dissi pertanto di radunarci tutti qui sotto i portici ed inginocchiati domandare aiuto alla beata Vergine. In un momento fummo tutti qui in ginocchio a pregar con maggior divozione del solito Maria Ausiliatrice a liberarci da quel mostro, che frattanto a lenti passi si avanzava verso di noi, come chi cerca di assalire.

Erano pochi minuti che eravamo lì, quando, non so come né quando, ci trovammo tutti di là nel refettorio dei chierici, il quale era di molto più ampio e comparve tutto illuminato. E nel mezzo si vedeva la Madonna, che aveva somiglianza con la statua che si trova lì a capo dei portici o con quella della cupola o quella della chiesa, non so più bene; ma comunque sia, era tutta raggiante di vivissimi raggi, attorniata da beati e da angeli, talché il refettorio pareva un paradiso. Allo spavento sottentrò lo stupore, noi tutti eravamo rivolti e attenti alla Madonna, la quale sembrava avesse qualche cosa da dirci; ed infatti così ci rassicurò: “Non temete, abbiate fede; questa è solo una prova che di voi vuol fare il mio divin Figlio”.

Osservai allora attentamente coloro che facevano corona alla santa Vergine e riconobbi don Alasonatti, don Ruffino e fratel Michele delle Scuole Cristiane, mio fratello ed altri i quali furono anticamente appartenenti alla nostra Congregazione e ora sono in paradiso. Quand’ecco che uno di loro dice ad alta voce: “Surgamus”. Noi eravamo in piedi e non sapevamo che cosa volesse dire. Ma la stessa voce ripeté più forte: “Surgamus”; e noi fermi stando lì attenti a vedere come finiva la cosa. Ed io stavo già per domandarne la spiegazione, quando la Madonna così prese a dire, con voce mirabilmente robusta: “Ma tu, che sei sacerdote, dovresti intendere questo surgamus: quando celebri la santa messa e dici: Sursum corda, che intendi tu? Intendi forse di alzarti, oppure d’innalzare gli affetti del cuore a Dio?”.

Allora così io dissi ai miei giovani: “Facciamo adunque, per quanto meglio possiamo, un atto d’amore e di pentimento a Dio”. E tutti gettatici in terra, sommessamente, pregammo. Un momento dopo sentimmo nuovamente un “Surgite” e fummo tutti in piedi. Uscì al- lora dalla Madonna una voce così armoniosa che cantava l’inno di san Paolo: “Sumite scutum fidei” [Ef 6,16], così unita, organizzata e melodiosa, che noi eravamo come in estasi, poiché in una sola voce si sentivano tutte le note dalla più bassa alla più alta e pareva che cento voci cantassero in una sola.

Mentre che noi stavamo estatici, ascoltando quel concerto, ad un tratto ci trovammo tutti in alto per forza soprannaturale e chi si teneva ad un chiodo, chi alla cornice della volta. Io poi mi tenevo al telaio di una finestra, ed ero stupito che non cadessimo a terra, dove io vedevo una innumerevole quantità di bestie di varia specie, ma tutte feroci, che scorrazzando per il refettorio ci guatavano e pareva che ad ogni momento ci fossero addosso con un salto, ma non si provavano ancora.

Mentre si ascoltava quel canto di paradiso, partirono da attorno alla Madonna molti leggiadri giovanetti forniti di ali ed avvicinandosi a noi posero sul cuore di ciascheduno uno scudo che era nel centro di ferro, vicino al circolo di ferro un cerchio di argento, poscia più in fuori un altro di diamante ed infine uno d’oro. Quando fummo tutti muniti di questo scudo e cessato il canto, si udì questa voce: “Ad pugnam”; vedemmo quegli animali agitarsi maggiormente, lanciare verso di noi palle di piombo, saette ed altro, ma queste cose non ci arrivavano o colpivano i nostri scudi; e tutti dopo lunga pugna ci trovammo incolumi. Si sentì allora la Madonna dire: “Haec est victoria vestra, fides vestra” [1Gv 5,4]; e noi ci trovammo tutti in terra, essendo spariti quegli animali.

Subito dopo udimmo strazianti grida nel cortile: erano i nostri giovani che parevano dilaniati da quelle fiere. Io volli uscire dal refettorio per vedere se potevo in qualche modo portar loro sollievo. Non mi volevano lasciar passaggio, per paura non mi accadesse qualche cattivo accidente. Non curai il loro timore e loro risposi: “Voglio andare a vedere che cosa è, a costo di morire con loro”. Uscii e vidi uno strazio orrendo: tutti quegli animali inseguivano i nostri giovani, li ferivano, li dilaniavano. Ma soprattutto faceva spaventoso macello quel mostro che prima apparve: egli feriva da ambi i lati dello stomaco, cioè nel cuore e nella parte destra che è a quella mira, con quei due dentacci e molti giacevano per terra, chi morto, chi ferito. Al mio apparire mi corse incontro quel mostro, ma non poteva ferire tanto me quanto alcuni che avevanmi seguito fino sulla soglia, perché eravamo difesi dallo scudo. Osservai bene quelle due spade del mostro, che tanto macello facevano dei miei giovani e vidi sulla punta dell’una scritto Otium, dell’altra Gula. Allora capii com’era la cosa, ma non in modo da potermi dar ragione che i miei giovani peccassero di ozio, oppure di gola, essendo ché, mi pare, essi lavorino o studino a tempo e luogo, e in ricreazione non perdano tempo; e riguardo alla gola, mi sembra che non abbiano guari di che essere intemperanti.

Ritornai in refettorio tutto triste e domandai spiegazione di questa cosa ad uno che era colla Madonna, il quale così mi rispose: “Eh, mio caro, in questa parte sei ancora novizio, tu che ti credi d’aver molta esperienza. Sappi, dunque, che per ozio non intendesi solo il non lavorare e nemmeno l’occupare o no il tempo di ricreazione in divertirsi, ma sebbene quel tempo che si lascia libero alla immaginazione, a pensare a cose che sono pericolose; quei ritagli di tempo che non si occupano come si deve e specialmente in chiesa. Riguardo poi alla gola, hai da sapere che si può peccare d’intemperanza con sola acqua e quando si mangia o si beve più del bisognevole, è sempre intemperanza. Se potrai ottenere dai tuoi giovani che in queste piccole cose siano temperanti, essi vinceranno sempre il demonio; e colla temperanza verranno loro l’umiltà e la castità e le altre virtù. Se occuperanno interamente il tempo a dovere, non cadranno giammai nella tentazione del demonio e vivranno e morranno da santi cristiani”.

Lo ringraziai di così bella istruzione e mi avvicinai a fratel Michele e agli altri che conoscevo, per apprender da loro se quello che io vedevo ed operavo era realtà o puro sogno. Ma mentre io mi provo di stringer loro la mano, resto come fuori di me al non palparla. Vedendo il mio stupore uno di questi così mi parlò: “Dovresti sapere e lo hai studiato, che noi siamo puri spiriti e per farci vedere dai mortali dobbiamo prendere una figura, finché non saremo risuscitati, ché allora prenderemo il nostro corpo che avrà le doti dell’immortalità”. Allora volli appressarmi alla Madonna, che pareva avesse qualche cosa da dirmi, ma quando mi trovai quasi vicino, udii di fuori un alto grido, che mi svegliò.

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