27. 1849, ANNO SPINOSO E STERILE

27. 1849, ANNO SPINOSO E STERILE

 

“L'anno 1849 fu spinoso, sterile - scrive don Bosco -, sebbene sia costato grandi fatiche ed enormi sacrifici”.

Cominciò per lui con una triste notizia familiare. Il 18 gennaio morì quasi all'improvviso suo fratello Antonio. Aveva solo 41 anni. Negli ultimi tempi veniva sovente all'oratorio, a trovare mamma Margherita e il fratello. Parlavano dei raccolti scarsi, delle tasse pesanti con cui il governo spremeva i contadini per finanziare la guerra. Portava notizie dei sette figli che Dio gli aveva mandato. Il penultimo, Nicolao, era andato in Cielo dopo poche ore di vita, ma gli altri sembravano crescere bene.

Gli anni, la vita, avevano riaccostato i fratelli. Il tempo in cui tra loro c'era stato del ghiaccio sembrava tanto lontano.

Il 1° febbraio, Carlo Alberto inaugurò la Camera uscita dalle elezioni. La forte maggioranza della sinistra lo ascoltò in un silenzio ostile. Per le strade si prese a gridare: “Viva la guerra! Abbasso i preti! Viva la repubblica!”. Sui giornali, caricature oscene di Pio IX “traditore d'Italia”. Sul giornale Il Fischietto anche don Bosco fu attaccato con umorismo pesante. Veniva chiamato “il Santo”, “il taumaturgo di Valdocco”.

Bande di teppisti ripresero le sassaiole contro la casa Pinardi (che don Bosco aveva affittato completamente).

Per uscire, don Bosco si faceva accompagnare da Brosio “il bersagliere”, che ricordava: “Quando passavamo sul corso che ora si chiama Regina Margherita, una turba di piccoli barabba insultava sempre don Bosco, gridavano ingiurie poco decenti o cantavano canzonacce schifose. Un giorno avrei voluto prenderli a sberle. Don Bosco invece si fermò, riuscì ad avvicinarne qualcuno, comprò della frutta da una venditrice che aveva il banco lì vicino, e la regalò a quei suoi " amici ", come li chiamava”.

 

“L'Amico della Gioventù”, fallimento.

Don Bosco era preoccupato del male che facevano anche tra i giovani i giornali antireligiosi. Si vendevano per le strade, venivano incollati ai muri. I giornali cattolici erano pochi, e mancavano di quella grinta che conquista la gente.

Aveva tante preoccupazioni, don Bosco, ma nel febbraio di quell'anno aggiunse anche quella di fondare, diffondere e dirigere un giornale. Lo chiamò L'Amico della Gioventù. Usciva tre volte alla settimana. Lo preparava con l'aiuto di don Carpano e di don Chiaves. Lo stampava presso la tipografia Speiranì-Ferrerò.

Fu un piccolo fallimento. Abbonati, per il primo trimestre, 137. Per il secondo trimestre, 116. Furono pubblicati, in tutto, 61 numeri.

Don Bosco dovette pagare alla tipografia 272 lire di passivo. Ma non se ne pentì mai. Aveva tentato di fare del bene. Si era scontrato, per la prima volta, con la “tranquilla incoscienza” dei buoni. La stampa cattolica, in Italia, se la sta trascinando dietro come una catena pesante da più di cent'anni.

 

Ancora la guerra.

Torino, intanto, respira di nuovo aria di guerra.

20 febbraio. Gioberti dà le dimissioni. Lo sostituisce, alla testa del governo, il ministro della guerra Chiodo. La sinistra democratica, padrona della situazione, spinge per la ripresa della guerra. Il 2 marzo la Camera presenta una petizione al re: “I deputati del popolo vi esortano a rompere gli indugi e a dichiarare la guerra. Noi confidiamo nelle vostre armi”.
12 marzo. Viene “denunciato” l'armistizio. La guerra scatterà allo scadere degli otto giorni. 75.000 uomini raggiungono la frontiera. Il re parte per Alessandria. Ma fra i soldati, questa volta, non c'è entusiasmo. Il reggimento Savoia si rifiuta di marciare. Ci sono disertori. Alcuni vengono fucilati.
In Lombardia, Radetzky lancia ai suoi soldati la nuova parola d'ordine: “A Torino!”.
23 marzo. Su un fronte di 4 chilometri divampa la “battaglia di Novara”. La Bicocca, centro dei violenti corpo a corpo, è perduta e ripresa più volte. Episodi di autentico eroismo. In un contrassalto alla baionetta muore il generale Passalacqua. Il generale Perrone, ex- primo Ministro, colpito a morte, si fa portare a braccia davanti al re per salutarlo. Alla sera, però, tutto è finito. Le artiglierie di Radetzky, più potenti, hanno liquidato la partita. Il generale Durando racconterà che più volte ha dovuto prendere Carlo Alberto per un braccio e tirarlo via dalla mischia.

La battaglia e la guerra sono perdute. Nella notte è il caos. Da Novara a Oleggio a Momo è tutto un intasamento di carriaggi abbandonati. I soldati sbandati camminano per le strade senza comandi, senza armi. Gridano: “A casa! Paghi Pio IX, paghino i ricchi, paghi chi vuole la guerra, noi andiamo a casa!”.

All'una di notte Carlo Alberto abdica. Con un pastrano da viaggio gettato sulle spalle, esce da Novara in un calesse, e tra quel caos parte per l'esilio.

Per quattro ore si cerca tra i bivacchi delle truppe il nuovo re. Radetzky, all'annuncio dell'abdicazione, ha concesso sei ore di tregua.

Il giovane e frastornato Vittorio Emanuele, barba arruffata, occhi pesti dalla stanchezza, incontra il maresciallo austriaco nel cortile di un cascinale. Chiede che non gli mettano sulle spalle condizioni impossibili, altrimenti dovrà andarsene anche lui, e lasciare il Piemonte in mano ai rivoluzionari. Quando se ne va, il vecchio soldato austriaco (82 anni) mormora al generale Hess: “Povero ragazzo!”.

 

Ultimo frammento di libertà.

Ma il più povero di tutti, in quel momento, è il Paese. A Torino la situazione è tesa. Quando si viene a sapere che gli Austriaci esigono 200 milioni di risarcimento bellico e occuperanno Alessandria, l'opposizione “democratica” si scatena. Si parla apertamente di repubblica,. Si chiede la ripresa della guerra ad oltranza. Genova insorge.

Il giovane re piomba a Torino. Ha voglia di “cacciar via a pedate” tutti i deputati, ma ci ripensa. Genova è ripresa con il cannone. Viene nominato primo Ministro Massimo D'Azeglio. La pace viene firmata soltanto il 6 agosto. Dopo un tira e molla molto drammatico, gli Austriaci accettano di abbandonare tutti i territori occupati, compresa Alessandria, e di ridurre il risarcimento a 75 milioni.

Del grande incendio del 1848 rimangono poche braci. I combattenti che si erano trovati fianco a fianco sulle barricate di primavera, sono stati quasi tutti sconfitti. I patrioti che esigevano l'indipendenza sono stati messi a tacere dalle artiglierie austriache. Gli operai sono tornati alla dura giornata di 12 ore. Le Costituzioni liberali sono state abrogate quasi dovunque. Solo in Piemonte lo Statuto è rimasto. Eppure questo frammento di libertà si rivelerà estremamente importante: attorno al Piemonte si coagulerà l'Italia. Anche gli altri semi di libertà e di uguaglianza, che sembrano dispersi nell'alluvione della repressione, germoglieranno con il lento passare degli anni.

 

Naufragio dei “preti patrioti”.

A Novara è avvenuto anche il naufragio dei “preti patrioti” piemontesi. Persuaso di “seguire il popolo”, don Cocchi ha condotto una grossa squadra di giovanotti dell'oratorio di Vanchiglia per prendere parte alla battaglia di Novara. Giunti a Vercelli, i 200 giovanotti non vengono riconosciuti come soldati dal capo divisione. Non sanno dove trovare viveri e passare la notte. Avvenuta intanto la rotta dei Piemontesi, ritornano a Torino, rientrando in città di notte, mezzi morti dalla stanchezza. È una disfatta per l'opera dell’intraprendente prete di Druent.

L'oratorio di Vanchiglia rimane chiuso per qualche mese. Don Cocchi vive nascosto. Tornerà alla ribalta in ottobre, lanciando insieme ad altri due preti il progetto di un ospizio di beneficenza per i piccoli artigiani. Inizierà di qui il grande “Istituto degli Artigianelli”. Tacitamente si viene così a riconoscere che la linea “non politica” di don Bosco è quella giusta.

 

33 lire per il Papa.

Decine di migliaia di profughi, in questi mesi, vengono a infittire la popolazione di Torino. La vita è difficile. I prezzi dei fitti sono altissimi, i salari assai bassi. Un profugo francese socialista, Coeurderoy, parla di miseria gravissima nei quartieri popolari. Manca un'industria vivace. Il denaro in circolazione è rastrellato dalle fortissime tasse. La mano d'opera continua a essere abbondante sul mercato, anche se nuove case si costruiscono ininterrottamente e sono affittate prima ancora di essere finite.

Pio IX, intanto, continua a essere in esilio a Gaeta. Il marchese Gustavo Cavour e il canonico Valinotti indicono a Torino una questua sotto il nome di “obolo di San Pietro”. Anche i ragazzi dell’oratorio vi partecipano. Unendo i loro centesimi, alla fine di marzo consegnano al Comitato 33 lire, insieme a una lettera di auguri per il Papa.

Il 2 maggio giunge a don Bosco una lettera dal Nunzio pontificio: “Una dolce emozione si è destata nell'animo del Santo Padre all'affettuosa e candida offerta dei poveri artigianelli, e alle parole di devozione con cui vollero accompagnarla. La prego perciò di far loro conoscere quanto mai sia stata gradita questa offerta, preziosissima perché data dal povero”.

Il Papa ricambiò con un mazzo di 720 corone del Rosario, che poterono giungere a Torino solo il 21 aprile 1850.

 

Due piccoli cuori “per grazia ricevuta”.

24 giugno, festa di san Giovanni Battista. È l'onomastico di don Bosco. Carlo Gastini e Felice Reviglio, nonostante i tempi difficili, decidono di fare un regalino a don Bosco. Da mesi si sono messi d'accordo in segreto. Hanno risparmiato sul pane e conservato gelosamente le piccole mance. Ma cosa comprare con i prezzi alti che si leggono nelle vetrine dei negozi? Alla fine decidono: due piccoli cuori d'argento, di quelli che la gente acquista per portarli alla Madonna “per grazia ricevuta”. Una scelta strana, ma geniale, e anche commovente.

Alla vigilia della festa, quando tutti sono andati a dormire, vanno a bussare alla porta di don Bosco e glie li offrono, arrossendo fino alla punta delle orecchie.

“Il domani da tutti i compagni si seppe di quel dono - scrive don Lemoyne - e non senza un po' di gelosia”.

 

Quattro ragazzi e un fazzoletto bianco.

Gastini e Reviglio sono due ragazzi che don Bosco tiene d'occhio. Nel 1848 hanno fatto gli Esercizi Spirituali insieme ad altri undici. Quest'anno li rifanno insieme a sessantanove, divisi in due turni.

L'idea fissa di don Bosco è sempre quella di “studiare, conoscere, scegliere alcuni individui” che diano speranza di vocazione sacerdotale.

Al termine degli Esercizi, chiama Giuseppe Buzzetti, Giacomo Bellia, Carlo Gastini e Felice Reviglio. Dice loro:

- Ho bisogno di qualcuno che mi dia una mano nell'oratorio. Che ne direste voi?
- Aiutarla come?
- Prima di tutto riprendendo a studiare. Una scuola veloce, che comprenda anche il latino. Poi, se Dio vorrà, potrete diventare preti.

I quattro si guardano in faccia. Accettano.
Don Bosco mette una sola condizione. Tira fuori il fazzoletto bianco e lo stropiccia tra le mani:
- Vi chiedo di essere nelle mie mani come questo fazzoletto: obbedienti in tutto.
Tra i quattro, solo Bellia ha frequentato tutte le elementari. Don Bosco, in agosto, li mette nelle mani del teologo Chiaves per una energica cura d'italiano. In settembre li porta con sé ai Becchi, ospiti di Giuseppe, e attacca le lezioni di latino.

Tornano a Torino in ottobre. In tempo per partecipare ai grandiosi funerali che la città intera dedica a Carlo Alberto, morto a Oporto.

 

Il battaglione di borgo Vanchiglia.

In quello stesso ottobre, d'intesa con don Cocchi e con l'approvazione scritta dell'arcivescovo, don Bosco riapre l'oratorio dell’Angelo Custode in borgo Vanchiglia. Due tettoie, due camere, un camerone adattato a cappella: 900 lire di affitto all'anno. Va a dirigerlo don Carpano, che lascia l'oratorio san Luigi a don Ponte.

In borgo Vanchiglia continuano le feroci battaglie delle cocche. Don Bosco manda in aiuto a don Carpano il “bersagliere” Brosio, che anche là fonda un bellicoso “battaglione”, pronto a giocare ma anche a picchiare sul serio.

“Una festa - racconta Brosio - comparvero quaranta barabba, armati di pietre, bastoni e coltelli, per entrare nell'interno dell’oratorio. Il direttore si prese tanta paura che tremava come una foglia. Io, vedendo che erano risoluti di menare le mani, chiusi la porta, radunai i giovani più grandi e distribuii i fucili di legno. Divisi i giovani in squadriglie, con l'ordine che se attaccavano, a un mio segnale contrattaccassero da tutte le parti contemporaneamente, e giù legnate senza misericordia. Radunati i più piccoli, che piangevano di paura, li nascosi in chiesa, e andai di guardia alla porta d'entrata, che gli assalitori tentavano di gettare in terra con urtoni poderosi. Qualcuno, frattanto, era andato ad avvisare i soldati di cavalleria, che accorsero con le sciabole sguainate”.

 

Quella volta andò bene.

Il 18 novembre, ad abitare con don Bosco viene don Giacomelli, già suo compagno di seminario a Chieri. Rimarrà a Valdocco due anni. Con il suo aiuto e quello del chierico Ascanio Savio, don Bosco può aumentare il numero dei ragazzi ospitati, i “convittori”, che salgono così a 30.

Saranno 36 nel 1852, 76 nel 1853, 115 nel 1854. Nel 1860 saranno 470, e 600 nel 1861. La punta massima sarà quella di 800.

La vita di quei ragazzi continua a essere estremamente povera. D'inverno si gela in chiesa e altrove, esclusa la cucina e una stanza dove viene accesa una stufa a legna. Il materasso di lana o di crine è un lusso di pochi. La maggior parte dorme sul saccone di foglie secche o di paglia. I pochi soldi della comunità, don Bosco li ha affidati a Giuseppe Buzzetti, che nel 1849 ha 17 anni, e si stupisce di quella totale fiducia.

La domenica, questi ragazzi “convittori” partecipano integralmente alla vita dei cinquecento ragazzi che invadono l'oratorio, ai giochi, alle passeggiate.

20 novembre. Vittorio Emanuele, con il proclama di Moncalieri, scioglie di nuovo le camere e chiama i 90.000 elettori a nuove elezioni. Con parole dure rimprovera la “sinistra democratica” di avere rovinato la nazione, e invita gli elettori a mandare alla Camera persone più moderate.

Le elezioni si svolgono il 9 dicembre, all'inizio di un inverno che si annuncia freddo e desolato. I nuovi deputati approvano in silenzio il trattato di pace. “Non era una pace - scrive il Cognasso -, era un armistizio di dieci anni. Dieci anni da trascorrere lavorando silenziosamente”.

 

Quattro soldi di polenta.

Nell'ultimo scorcio del 1849, mentre - dicono le cronache - molta gente nella cintura di Torino patisce la fame, la storia di don Bosco registra alcuni avvenimenti misteriosi. Potremmo chiamarli (se la parola non fosse troppo grossa) “i miracoli poveri che un prete ottiene per la povera gente”.

Il primo lo racconta Giuseppe Brosio “il bersagliere”, in una lettera a don Bonetti.

“Un giorno, mentre ero nella camera di don Bosco, si presenta un uomo a domandare l'elemosina. Raccontò che aveva cinque figli che da un giorno intero non mangiavano. Don Bosco si frugò nelle tasche. Trovò solo quattro soldi (venti centesimi), e glieli diede con la sua benedizione.

Rimasti soli, don Bosco mi disse che gli rincresceva non aver avuto altro denaro: se avesse avuto cento lire gliele avrebbe date. Gli dissi:
- E come fa a sapere che le ha detto la verità? Se fosse uno scroccone?
- No, è sincero e leale. Ti dico di più: è laborioso e molto affezionato alla sua famiglia. - Come fa a saperlo?

Allora don Bosco mi prese per mano, mi guardò fisso in faccia, e sottovoce mi disse: - Gli ho letto nel cuore.

- Oh bella! Ma allora lei vede anche i miei peccati?

- Sì, ne sento l'odore - mi rispose ridendo. E devo dire che mi leggeva proprio nel cuore. Se mi dimenticavo qualcosa in confessione, mi poneva sotto gli occhi la cosa precisa quale era. E io abitavo a un chilometro lontano da lui. Un giorno avevo fatto un'opera di carità che mi era costata un grande sacrificio, e questo era segreto a tutti. Andai all'oratorio, e don Bosco, appena mi vide, mi prese per mano e disse: " Che bella cosa ti sei preparato per il Paradiso! ". " Che cosa ho fatto? ", gli domandai. E lui mi disse punto per punto tutto ciò che avevo fatto.

Qualche tempo dopo, per Torino, incontrai l'uomo a cui don Bosco aveva dato i quattro soldi. Mi riconobbe, mi fermò e mi disse che con quei soldi era andato a comprare della farina per la polenta, e che lui e tutta la famiglia ne avevano mangiato a sazietà. E mi ripeteva:

- In famiglia, noi lo chiamiamo " il prete del miracolo della polenta " perché, con quattro soldi, di farina ce n'era scarsa per due persone, e invece ne mangiammo in sette”.

 

“Lo chiamai per nome: Carlo!”

Il secondo lo riferisce per scritto, in francese, la marchesa Maria Passati nata De Maistre. Dichiara: “Ho sentito questo racconto dalla bocca stessa di don Bosco, e ho cercato di scriverlo con la massima fedeltà.

Un giorno qualcuno venne a cercare don Bosco per un giovane che frequentava ordinariamente l'oratorio, e che pareva gravemente ammalato. Don Bosco era assente, e non tornò a Torino che due giorni dopo. Potè recarsi dal malato solo il giorno seguente, verso le quattro del pomeriggio.

Arrivando alla casa dove abitava, vide il drappo nero alla porta, con il nome del giovane che veniva a trovare. Tuttavia salì, per vedere e consolare i poveri genitori. Li trovò in lacrime. Gli raccontarono che il loro figlio era morto nella mattinata. Don Bosco domandò allora se poteva salire alla stanza dov'era il corpo del defunto, per rivederlo ancora una volta. Uno della famiglia lo accompagnò.

- Entrando nella camera - ha affermato don Bosco -, mi venne il pensiero che non fosse morto, mi avvicinai al letto e lo chiamai per nome: " Carlo! ". Allora egli aprì gli occhi e mi salutò con un sorriso stupito. " Oh, don Bosco - disse ad alta voce - mi avete svegliato da un brutto sogno! ".

In quel momento, alcune persone che erano nella stanza fuggirono spaventate, lanciando grida e rovesciando i candelieri. Don Bosco si affrettò a strappare il lenzuolo nel quale era stato avvolto il giovane, che continuò a parlare così:

" Mi pareva di essere spinto in una caverna lunga, oscura, e così stretta che potevo appena respirare. Al fondo vedevo come uno spazio più largo e più chiaro, dove molte anime venivano giudicate. La mia angoscia e il mio terrore crescevano sempre più, perché vedevo un gran numero di condannati. Ed ecco che era arrivato il mio turno, e stavo per essere giudicato come loro, terrorizzato perché avevo fatto male la mia ultima confessione, quando voi mi avete svegliato! ".

Frattanto il padre e la madre di Carlo erano accorsi alla notizia che il loro figlio era vivo. Il giovane li salutò cordialmente, ma disse loro di non sperare nella sua guarigione. Dopo averli abbracciati, domandò di essere lasciato solo con don Bosco.

Gli raccontò che aveva avuto la disgrazia di cadere in un peccato che aveva creduto mortale, e che sentendosi molto male l'aveva mandato a cercare con la ferma intenzione di confessarsi. Ma non l'avevano trovato. Avevano chiamato un altro prete che non conosceva, e a lui non aveva avuto il coraggio di confessare quel peccato. Dio gli aveva appena fatto vedere che aveva meritato l'inferno con quella confessione sacrilega.

Si confessò con molto dolore, e dopo aver ricevuto la grazia dell'assoluzione, chiuse gli occhi e spirò dolcemente”.

 

Un cesto di castagne che non si svuota mai.

Il terzo avvenimento lo riferì Giuseppe Buzzetti, e lo confermò per scritto Carlo Tomatis, che fu tra i primi ragazzi ospiti di don Bosco.

Nel giorno dei morti, don Bosco aveva portato tutti i ragazzi dell'oratorio festivo a visitare il cimitero e a pregare. Per quando fossero tornati, aveva promesso le castagne cotte. Ne aveva fatto comprare tre grossi sacchi.

Mamma Margherita però non aveva capito le sue intenzioni, e ne aveva fatto cuocere soltanto tre o quattro chili.

Giuseppe Buzzetti, il giovanissimo “economo”, arrivato a casa prima degli altri, vide la faccenda e disse:

- Don Bosco ci resterà male. Bisogna avvertirlo subito.

Ma nel trambusto del ritorno di tutta la truppa affamata, Buzzetti non riuscì a spiegarsi. Don Bosco prese dalle sue mani la piccola cesta e cominciò a distribuire castagne con il grosso mestolo bucherellato. Nella baraonda Buzzetti gli gridava:

- Non così! Non ne abbiamo per tutti!
- Ma ce ne sono tre sacchi in cucina.
- No, queste sole, queste sole! -, cercava di dirgli Buzzetti mentre i ragazzi urlavano e premevano a ondate. Don Bosco rimase interdetto.
- Io però le ho promesse a tutti. Continuiamo così fin quando ce ne sarà.

Continuò a distribuirne un mestolo colmo a ciascuno. Buzzetti guardava nervoso le poche manciate rimaste in fondo al cesto, e la fila che sembrava sempre più lunga. Qualcun altro cominciò a guardare insieme a lui. A un tratto si fece quasi silenzio. Centinaia di occhi fissavano sgranati quel cesto che non si svuotava mai.

Bastarono per tutti. E forse per la prima volta, quella sera, i ragazzi con le mani piene di povere castagne gridarono: “Don Bosco è un santo!”.

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