Negli ultimi mesi del 1849 don Bosco inoltrò una petizione al Ministero dell'Interno per avere un sussidio per il suo oratorio.
In un pomeriggio domenicale del gennaio 1850 una commissione di tre senatori, Sclopis, Pallavicini e Collegno, scese a Valdocco per visitare l'opera e farne relazione al Senato e al Ministro.
L'impressione fu molto positiva. Videro cinquecento ragazzi giocare nei cortili e nei prati, li videro pregare ammassati nella cappella e dintorni, s'informarono minutamente dell'Ospizio dove erano ricoverati trenta convittori.
Il conte Sclopis interrogò a caso un ragazzo, Giuseppe Vanzino. Seppe che era di Varese, faceva lo scalpellino, era orfano di padre. Riuscì anche a sapere, tra uno scoppio di lacrime del ragazzo, che sua madre era in prigione.
- Alla sera dove vai a dormire? - chiese il conte un po' impacciato.
- Fino a qualche giorno fa dormivo in casa del padrone, ma adesso don Bosco mi ha preso in casa sua.
La relazione al Senato la fece Pallavicini. È registrata negli Atti Ufficiali del 1° marzo. Dice: “L'istituzione del distinto e zelante sacerdote Giovanni Bosco manifestasi eminentemente religiosa, morale, proficua. Danno gravissimo sarebbe per la città se dovesse interrompersi o perdersi per mancanza di soccorsi. La nostra Commissione invia istanza al Ministero dell'Interno perché voglia venire efficacemente in soccorso di un'Opera sì utile e vantaggiosa”.
In lire, quelle parole fruttarono a don Bosco tre biglietti da cento dal Senato e due biglietti da mille dal Ministro, Urbano Rattazzi.
Ma non furono le lire (ben accette e benedette) il frutto maggiore. In Piemonte stava per scoppiare il lungo e tormentato bisticciò tra Stato e Chiesa. La visita e la relazione dei tre senatori, che don Bosco aveva sollecitato, avrebbero permesso all'oratorio di superare senza eccessivi danni il grosso temporale.
L'arcivescovo arrestato.
Nel dicembre 1849 mille ecclesiastici e diecimila cittadini torinesi firmarono una petizione al primo Ministro D'Azeglio in cui si chiedeva il ritorno dell'arcivescovo Fransoni, ancora in esilio a Ginevra.
Ci fu un tira e molla tra il re, i ministri, l'arcivescovo di Genova, ma nel marzo 1850 mons. Fransoni potè rientrare a Torino.
Erano giorni “roventi”. Alla Camera e al Senato si discuteva il progetto legge presentato dal ministro della Giustizia Siccardi. Si intendeva abolire alcuni antichi privilegi ecclesiastici: il foro ecclesiastico (i vescovi e i preti accusati di delitti comuni non sarebbero più stati giudicati da tribunali ecclesiastici, ma dai tribunali pubblici), il diritto d'asilo (fino allora la polizia non poteva arrestare persone accusate di delitti se esse si rifugiavano in una chiesa o in un convento), la possibilità di accrescere i beni della Chiesa.
Il 9 marzo la legge Siccardi fu approvata dalla Camera e l'8 aprile dal Senato. Il 9 fu sanzionata dal re. In città si scatenarono le bande anticlericali. Si improvvisarono cortei con gente che urlava: “Abbasso i preti! Viva Siccardi!”. Il punto di convegno fu il palazzo arcivescovile. Dapprima furono solo grida e insulti: “A morte Fransoni! Via il delegato pontificio!”. Poi si aggiunsero i sassi: i vetri delle finestre furono fracassati, si tentò di sfondare il portone d'ingresso. Dovettero accorrere gli squadroni della cavalleria con le sciabole sguainate.
Le reazioni del clero furono immediate. Pio IX, con una lettera del cardinale Antonelli, protestò vivacemente. Il Nunzio pontificio chiese il passaporto e lasciò il Piemonte. Il giorno 18, l'arcivescovo spedì a tutti i parroci una circolare segreta: vietava a ogni prete di comparire davanti a un tribunale pubblico senza il suo personale permesso.
21 aprile. La polizia fa irruzione nella tipografia Botta (dov'è stata stampata la circolare), negli uffici postali, nel palazzo arcivescovile. La circolare è sequestrata e giudicata “istigazione alla ribellione”. Citato davanti al tribunale civile e rifiutatosi di comparire, mons. Fransoni è condannato a 500 lire di multa e a un mese di carcere. Il 4 maggio, all'una pomeridiana, viene arrestato e tradotto nella cittadella militare.
Torino vive momenti di tensione grave. L'opposizione cattolica è molto forte, anche se poco rappresentata in Parlamento (per cui vota sempre il 2% della popolazione). Il maggiore conte Viallardi, guardiano della cittadella, accoglie l'arcivescovo scoppiando a piangere, il comandante generale Imperar gli cede il proprio quartiere. Numerose delegazioni chiedono al re di far visita al prigioniero. Anche don Bosco vi si reca, e manda varie delegazioni dei suoi ragazzi.
Alla fine di luglio, la fune tra il governo e l'arcivescovo torna a tendersi. Pietro Derossi di Santarosa, ministro dell'Agricoltura, si ammala gravemente. Chiede i sacramenti. Il parroco, della congregazione dei Serviti, riceve dall'arcivescovo l'ordine di esigere dal malato pubblica ritrattazione dell'approvazione data alle leggi Siccardi. Santarosa rifiuta, e muore il 5 agosto senza Viatico.
Nelle vie di Torino si rinnovano i tumulti. I Serviti sono espulsi. Il ministro della Guerra, Alfonso La Marmora, chiede a mons. Fransoni di rinunciare all'arcivescovado. Davanti al suo rifiuto, il 7 agosto lo fa arrestare dai carabinieri e internare nella fortezza di Fenestrelle, presso il confine francese. Di qui l'arcivescovo il 28 settembre sarà bandito dallo Stato.
Squadracce prendono d'assalto i conventi della città. Oblati, Barnabiti, Domenicani devono barricarsi nelle loro case. Il 14 agosto un certo Volpato si presenta a Valdocco e avverte don Bosco che in serata verrà preso d'assalto anche l'oratorio. Meglio che se ne vada subito con i ragazzi.
Don Bosco ci-pensa, poi decide di restare. Alle 16 la colonna dei dimostranti sta scendendo verso la periferia. Ma tra quella gente (attesta don Lemoyne) c'è uno a cui don Bosco ha fatto del bene. Ferma i primi gruppi e dice:
- Facciamo male ad assalire l'oratorio. Troveremo soltanto dei ragazzi poveri e un prete che dà loro da vivere. Don Bosco è uno del popolo come noi. Lasciamolo in pace.
Si discute, poi la colonna prende un'altra strada.
La seconda quadretta.
Sotto il grande temporale, don Bosco continua a lavorare in silenzio. Reviglio, Bellia, Buzzetti e Gastini continuano la “scuola veloce”, e sono ormai quasi pronti all'esame per vestire l'abito chiericale. Michelino Rua, nell'estate 1850, ha finito le elementari dai Fratelli delle Scuole Cristiane, e don Bosco non lo perde d'occhio. Un giorno lo chiama in disparte:
- Che cosa hai intenzione di fare il prossimo anno?
- Mia mamma ha parlato con il direttore della Fabbrica d'Armi. Mi accettano a lavorare negli uffici, e così potrò aiutare la famiglia.
- Anch'io ho parlato con qualcuno. I tuoi insegnanti mi hanno detto che il Signore ti ha dato una bella intelligenza, e che sarebbe un peccato se non continuassi a studiare. Te la sentiresti?
- Certo. Ma mia madre è povera, il papà non ce l'ho più. Dove vuole che vada a prendere i soldi per la scuola?
- A questo ci penso io. Tu chiedi soltanto a tua madre se ti lascia cominciare la scuola di latino.
La signora Giovanna Maria fissò a lungo il suo ragazzo alto e pallido. Lo sentì parlare con entusiasmo di don Bosco, e rispose:
- Io sono contenta, Michelino. Ma la tua salute reggerà? Il Signore s'è già preso con sé quattro dei tuoi fratelli, e tu sei ancora più gracile di loro. Di' a don Bosco che non ti tenga troppo sui libri.
Siccome Michelino abitava a pochi passi dall'oratorio e aveva veramente poca salute, don Bosco lo lasciò ancora a casa sua per due anni. Ma nel novembre cominciò a mandarlo alla scuola privata del professore Giuseppe Bonzanino. Alla sera, gli faceva lui stesso ripetizione di aritmetica e sistema metrico decimale. Accanto a Rua c'erano i giovani Angelo Savio, Francesia e Anfossi, la seconda quadretta che don Bosco sperava di portare fino al sacerdozio.
Alla domenica, mentre Buzzetti e gli altri davano una mano a don Bosco, Michele Rua e Angelo Savio partivano per gli oratori di Vanchiglia e Porta Nuova, dove aiutavano nell'assistenza e nel fare catechismo.
2 febbraio 1851. Dopo quattordici mesi di “scuola di fuoco”, i suoi primi quattro ragazzi hanno superato brillantemente l'esame presso la Curia torinese. Buzzetti, Gastini, Bellia, Reviglio ricevono l'abito chiericale all'oratorio. Don Bosco è raggiante. Gli pare che i primi agnelli, finalmente, stiano diventando pastori. Si inganna: di quei quattro ragazzi (che il giorno dopo cominciano la scuola di filosofia) solo Bellia e Reviglio diventeranno preti, ma non si fermeranno all'oratorio, Gastini presto si scoraggerà e lascerà gli studi. Buzzetti rimarrà con don Bosco, ma senza diventare prete. La prima speranza che si realizzerà in pieno è quel ragazzo alto e pallido che continua a vivere con sua madre, Michelino Rua.
30.000 lire e un po' di capogiro.
Dopo la vestizione dei primi quattro “chierichetti”, don Bosco pensò alla casa. Non poteva vivere in un luogo non suo, che dall’oggi al domani poteva essere venduto a estranei. Una domenica pomeriggio, mentre don Borel predicava, affrontò Francesco Pinardi:
- Se mi fa un prezzo onesto, compro tutta la sua casa.
- E io il prezzo onesto ce lo faccio. Mi dica la sua offerta.
- L'ho fatta stimare da un galantuomo, l'ingegnere Spezia. Nello stato attuale mi dice che vale dalle 26 alle 28.000 lire. Io gliene offro 30.000.
- Pagamento in contanti e tutto in una volta?
- Va bene.
- Mi stringa la mano, fra quindici giorni firmiamo lo strumento.
Don Bosco strinse la mano, e sentì un po' di capogiro: 30.000 lire di allora corrispondevano a più di 50 milioni di oggi. Dove trovare tutti quei soldi in quindici giorni? Ecco cosa scrive con semplicità don Bosco:
“Cominciò allora un bel tratto della divina Provvidenza. Quella sera stessa don Cafasso, cosa insolita nei giorni festivi, mi viene a far visita, e mi dice che una pia persona, contessa Casazza-Riccardi, l'aveva incaricato di darmi diecimila lire da spendersi in quello che avrei giudicato della maggior gloria di Dio. Il giorno dopo giunge un religioso rosminiano, che mi porta a prestito lire 20 mila”. Il prestito era al 4%, e l'abate Rosmini non insistette mai per avere né l'interesse né il capitale. “Le tre mila lire di spese accessorie furono aggiunte dal cav. Cotta, nella cui banca venne stipulato lo strumento”.
Era il 19 febbraio 1851. Difficile non vederci la mano della Provvidenza, e più difficile ancora, per don Bosco, non andare avanti per la stessa strada.
La Porziuncola salesiana.
Una sera di quello stesso mese, mentre con mamma Margherita aggiustava gli abiti dei ragazzi che dormivano, mormorò quasi tra sé:
- E ora voglio innalzare una bella chiesa in onore di san Francesco di Sales. A Margherita caddero di mano ago e filo:
- Una chiesa! Ma dove prenderai il denaro? Non riusciamo quasi a dare pane e vestiti a questi poveretti, e tu parli di una nuova chiesa. Io spero che ci penserai due volte, e che te l'intenderai bene con il Signore, prima di imbarcarti in una faccenda del genere. - Mamma, se voi aveste del denaro, me lo dareste?
- Sicuro, ma non ho più niente.
- E Dio che è più buono e più generoso di voi volete che non me lo dia?
Come si faceva a “ragionare” con un figlio così?
D'altra parte, don Bosco aveva tutte le giustificazioni: la cappella Pinardi era stata ingrandita, ma i ragazzi non ci stavano nemmeno fosse stata a tre piani. Inoltre “siccome per entrarvi bisognava discendere due gradini - scrive don Bosco -, d'inverno e in tempo piovoso eravamo allagati, mentre di estate eravamo soffocati dal caldo e dal tanfo eccessivo”.
Il disegno lo fece eseguire dal cavalier Blanchier, impresario fu Federico Bocca.
- L'avverto - gli disse ridendo don Bosco - che qualche volta non avrò il denaro per pagarla.
- E allora andremo più adagio nei lavori.
- No no. Voglio invece che andiamo in fretta, e che tra un anno la chiesa sia finita.
Federico Bocca si strinse nelle spalle:
- E allora andremo in fretta. Ma lei vada in fretta anche con le lire.
“Scavate le fondamenta - ricorda don Bosco -, fu fatta la benedizione della pietra fondamentale il 20 luglio 1851”. La collocò il cav. Giuseppe Cotta, uno dei più grandi benefattori di don Bosco. Il componimentino di ringraziamento lo lesse Michele Rua, 14 anni. Il discorso fu tenuto da un celebre oratore, padre Barrerà. In genere si esagera sempre in queste circostanze: si cercano immagini ad effetto. Barrerà piazzò anche lui la sua bella immagine, ma non riuscì ad esagerare. Disse: “Questa pietra è il granello di senapa. Crescerà come un albero, presso il quale molti ragazzi verranno a rifugiarsi”.
I soldi furono il grande rompicapo. Don Bosco bussò a tutte le porte conosciute e a molte altre, ma riuscì a mettere insieme un massimo di 35.000 lire. Ne mancavano altre 30.000.
Il vescovo di Biella, mons. Losana, diramò una circolare a tutti i suoi parroci. Ricordò “tutti i garzoni muratori biellesi” aiutati dall'oratorio. Chiese una speciale colletta domenicale. Don Bosco ci sperava molto, ma il frutto fu magro: mille lire.
Anche i ragazzi gli davano una mano come potevano. Don Giovanni Turchi ricordava: “Le mura della nuova chiesa erano all'altezza dei finestroni, e io pure coi compagni attesi a sporgere mattoni sino sopra i ponti”.
Per radunare quelle benedette 30.000 lire mancanti, don Bosco si gettò per la prima volta nell'avventura di una lotteria pubblica. Ricordava: “Si raccolsero tremila trecento doni. Il Papa, il Re, la Regina Madre e la Regina Consorte si segnalarono con le loro offerte”. I premi furono esposti pubblicamente in una vasta sala dietro la chiesa di S. Domenico. L'elenco dei premi fu illustrato da un voluminoso dépliant.
Lo spaccio dei biglietti costò molte umiliazioni a don Bosco. Ma la somma ricavata fu veramente notevole: 26.000 lire nette. D'ora innanzi, quando si troverà al verde, don Bosco penserà a una lotteria. Nelle ultime lettere della sua vita, scritte con mano ormai tremante, raccomanderà ancora di “accettare un blocchetto di biglietti per la mia lotteria”.
La chiesa fu consacrata il 20 giugno 1852. Essa sorge ancora all'estremità della casa Pinardi, un po' umiliata dalla grandezza della Basilica di Maria Ausiliatrice che arriva fino a tre metri dalla sua porta. È la “Porziuncola” salesiana. Tra queste mura per 16 anni (dal giugno 1852 al giugno 1868) batté il cuore dell'opera di don Bosco.
Il giovanissimo san Domenico Savio veniva qui a pregare. Davanti all'altarino della Madonna, sulla destra, si consacrò a lei. In questa chiesa approdarono Michele Magone, il monello di Carmagnola, e Francesco Besucco, il ragazzino dell'Argenterà che nel 1863 rinnovò la bontà eroica di Domenico Savio.
Qui disse la sua prima Messa don Michele Rua. Per quattro anni frequentò questa chiesa, e più volte al giorno, mamma Margherita, sempre più vecchia e stanca. Trovava qui la forza di ricominciare ogni giorno a lavorare per i ragazzi poveri.
Il diavolo, forse.
“Con la nuova chiesa - annota don Bosco - si dava provvedimento a quei giovanetti che desideravano intervenire alle sacre funzioni, e anche alle scuole serali e diurne (la cappella Pinardi, la chiesa e la sacrestia nuova venivano usate lungo il giorno come aule scolastiche). Ma come provvedere alla moltitudine di poveri fanciulli che ogni momento chiedevano di essere ricoverati?”. Conclude tranquillo: “In quel momento di supremo bisogno fu presa la deliberazione di fabbricare un nuovo braccio di casa”.
Si era in autunno inoltrato, ma si procedette a tutta forza, e presto si giunse al tetto. Ma allora cominciò il brutto tempo. “L'acqua diluviò più giorni e più notti, e scorrendo e colando rose la calcina fresca, restando così le mura di soli mattoni e ciottoli lavati. Era circa la mezzanotte del 2 dicembre - scrive sempre don Bosco - quando si ode un rumore violento, che si fa più intenso e spaventoso. Erano le mura che cadevano rovinosamente”.
Ai ragazzi esterrefatti, don Bosco disse:
- È uno scherzo del diavolo. Ma con l'aiuto di Dio e della Madonna ricostruiremo tutto.
Il diavolo avrà fatto la parte sua, ma l'economo don Giraudi che potè esaminare i resti di quei muri afferma che erano imbottiti di pietra e di sabbia di fiume. La calce era magrissima. Don Bosco tirava da sparagnino sui prezzi, e l'impresario qualcosa voleva ancora guadagnarci.
Il danno di don Bosco fu di 10.000 lire. I lavori poterono essere ripresi solo a primavera, e l'edificio compiuto nell'ottobre 1853. “Essendo nel massimo bisogno di locali - scrisse don Bosco - siamo tosto volati a occuparlo. Scuole, refettorio, dormitorio poterono regolarsi e stabilizzarsi, e il numero degli allievi fu portato a 65”.
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