Il nome di cristiano viene da Cristo. La sua essenza sta e cade con l'essenza di Cristo. Ciò è chiaro. Ma ora sorge minacciosa la domanda: quale affinità essenziale, quale tipo di comunione può esistere tra Cristo ed il cristiano?
del 01 gennaio 2002
Il nome di cristiano viene da Cristo. La sua essenza sta e cade con l’essenza di Cristo. Ciò è chiaro. Ma ora sorge minacciosa la domanda: quale affinità essenziale, quale tipo di comunione può esistere tra Cristo ed il cristiano?
Un primo ed insuperabile enunciato per chiunque crede veramente all’essenza ed all’opera di Cristo dice: Cristo è Piglio unico del Padre, l’unico mediatore tra Dio e l’uomo, l’unico Redentore che in croce ha soddisfatto per tutti, la ‘primizia’ anche dei risorgenti dai morti, che, secondo Paolo, detiene il primato in tutto (Col. 1,1-9). Ciò che egli è, ciò che si effettua per mezzo suo, è circoscritto nella più completa solitudine della sua dignità divino-umana. Egli ci ha redenti attivamente, noi siamo i redenti passivamente; tutto ciò che in seguito noi, rispondendo, facciamo attivamente, si fonda sempre su questa passività prima, si riconosce nella fede, si proclama nella testimonianza. Il rendere testimonianza è ciò che conferisce la forma unitaria a tutto il nostro essere ed agire cristiano. Questo è un enunciato così chiaro, che ad esso si ferma il protestantesimo ortodosso. Infatti tutto ciò che vi può essere ancora aggiunto, sembra nuovamente oscurarlo.
Ma, per contro, sarà bene tenere dinanzi agli occhi i racconti evangelici. Guardando superficialmente, potrebbe sembrare a tutta prima che qui si presenti al popolo un uomo fornito di doti profetiche, che con la predicazione annunzia il regno di Dio, mediante i miracoli esige rispetto per il suo mandato divino, ed infine, fede nella sua persona; che inoltre si sceglie un piccolo seguito di uomini affinché colgano e registrino i suoi discorsi e le sue azioni e da ultimo, quando egli sarà morto e risorto, gli «rendano testimonianza a Gerusalemme, in Samaria e fino ai confini della terra» (Atti 1,8). Questo primo ‘strato’ dell’essere cristiano indubbiamente esiste e permane anche fino all’ultimo; il mandato della testimonianza conclude i vangeli di Matteo e di Luca ed inizia gli Atti degli Apostoli che, assieme alle lettere, contengono la relazione del modo in cui è stata resa questa testimonianza.
Ma questo non è tutto. Cristo non solo parla ed agisce dinanzi agli uomini, ma va con essi e li invita ad andare con lui. Ciò avviene in forma particolarmente visibile nella elezione degli Apostoli: «Chiamò a sé quelli che egli volle, ed essi andarono con lui. E ne costitu1 dodici perché stessero con lui» (Mc. 3,13-14). In altre scene di vocazione troviamo la frase: sequere me, che si può tradurre con «vieni dietro a me», se si prende ‘dietro’ non in senso locale, ma nel senso di un rapporto tra maestro e discepolo, per cui il discepolo segue in quanto viene ammesso nel mondo interiore del maestro e introdotto spiritualmente in esso. Quanto più ci si guarda attorno, tanto più l’essere-con (Mitsein) appare come la forma dominante della vita terrena di Cristo. Egli inizia la sua esistenza nel seno della madre, che ha manifestato il suo accordo con la parola di Dio; trascorre la sua giovinezza in seno ad una famiglia, che abbandona per un paio di giorni, per intrattenersi «nella cerchia dei dottori», ascoltando ed interrogando. La sua vita pubblica inizia con la formazione di un gruppo di discepoli, è trasfigurato dinanzi a tre discepoli in compagnia di Mosé e di Elia, è turbato dinanzi a quegli stessi tre sul monte degli Ulivi, va in croce con due malfattori, che pendono alla sua sinistra ed alla sua destra; persino risorgendo non è solo, ma, poiché il venerdì santo si aprono i sepolcri, nel giorno di Pasqua i corpi di molti santi che erano morti «risuscitarono e, uscendo dai sepolcri dopo la risurrezione di lui, entrarono nella città santa ed apparvero a molti» (Mt. 27,5I-53). E quando, risorto, va in campagna discorrendo con i discepoli di Emmaus, rivela fino all’ultimo la sua abitudine di essere-con (Mitsein).
Ma lo stadio dell’essere-con, senz’essere eliminato, tende verso un terzo stadio di estrema intimità: verso l’essere-in (Insein), che egli realizza nel mistero del pane e del vino, che egli «desidera ardentemente» e a cui ha accennato in anticipo in molti segni e parole di promessa, e che egli vede in unione con la sua morte redentrice. Ma anche questa egli anticipa con disposizione sovrana e, morendo, si distribuisce ai suoi, nei SUOI, come una vita che perdura ed è presente ad ogni epoca del mondo. La sua preghiera finale al Padre suggella con sublime chiarezza l’acquisizione di questo essere-in: essi tutti sono una sola cosa in lui ed egli in essi, così come egli è una sola cosa con il Padre. E su questo essere-una-sola-cosa mediante l’essere-in egli ripone tutta la sua speranza: da ciò il mondo deve riconoscere la sua missione divina. I discepoli che permangono nella loro missione di rendere testimonianza attingono la forza nella fede che li fa consapevoli del loro essere ‘nel Signore’ e del suo essere-in loro («Cristo vive in me»).
Siamo così abituati a questi concetti, che non ne percepiamo quasi più il paradosso. In quanto discepoli rendono testimonianza della sua antecedente singolare presenza dinanzi ad essi; ma egli pur essendo-con essi ed essendo in essi, rimane fino all’ultimo quest’unico; anzi, si deve andare oltre e dire: quanto più egli fu con essi, tanto più si aprirono i loro occhi per la sua unicità, quanto più egli rimane in essi ed essi si nutrono e partecipano della sua vita, tanto meno essi si scambiano con lui, tanto più egli s’innalza su di essi come il Kyrios, il Signore. Con la vicinanza cresce il senso della distanza, con la visione del suo incomprensibile abbassamento cresce la conoscenza che proprio in esso sta ed appare tutta la inimmaginabile altezza. Quanto più egli nasconde la sua forza nella impotenza della Passione, tanto più appare chiaro che egli solo ha il potere «di dare la sua vita per le sue pecorelle» e «di riprenderla» (Gv. 10,16-18): egli solo quindi può soffrire e morire e risorgere dai morti in rappresentanza di tutti gli altri. E così il discepolo, che per la sua intimità con Gesù afferra tutto ciò con la fede, è continuamente rimandato e per così dire respinto verso il dovere di rendere testimonianza.
La cristianità odierna, stanca di una pratica puramente esteriore, ha raccolto il suo amore e la sua attenzione sul cristiano che rende testimonianza. Témoignage è la parola che risuona dovunque in Francia e spesso fin quasi a sazietà. La vita dei preti operai fu témoignage, quella dei Piccoli Fratelli e Sorelle è témoignage, nello stesso senso viene intesa quella delle nuove comunità secolari, ed infine ogni seria esistenza cristiana nella Chiesa e nel mondo. Per quanto serio sia questo progresso nei confronti della religione farisaica di una tiepida borghesia, e per quanto il concetto di ‘testimonianza’ possa includere anche l’esser-con e l’essere-in (nel concetto pieno del martirio), per sé sola è un atto che potrebbe anche essere concepito in senso minimalistico, come testimonianza di un evento storicamente avvenuto. In questo senso, come caso limite, persino un incredulo potrebbe attestare la crocifissione ed il ‘sepolcro vuoto’. E la celebrazione eucaristica della comunità potrebbe essere similmente concepita come una festa commemorativa di riconoscente ricordo del beneficio della redenzione avvenuta, come ad esempio l’atto vittorioso di Giuditta sull’esercito nemico veniva celebrato ogni anno con giubilo dagli Israeliti e «fu messo nel numero dei giorni santi da quel tempo fino ad oggi» (Gdt. 16,31, volg.). Ma evidentemente una simile concezione della celebrazione comunitaria non è sufficiente: non solo perché i cristiani devono esperimentare in essa la parola di Dio come una parola che (nello Spirito santo) è presente e si avvicina, ma perché nella consacrazione e nella comunione il Signore ‘ricordato’ è presente nella sua realtà corporeo-spirituale: dinanzi ad essi, con essi, in essi.
Il vangelo insegna che le cose stanno cosi, ed il cristiano lo crede. Ma egli aspira a comprendere ciò che crede: com’è possibile che ciò che Cristo ha di unico, di incomparabile, sia non soltanto dinanzi a noi, ma con noi ed in noi? Che anche noi lo compiamo veramente, senza che cessi di essere l’essere e l’agire dell’unico? Si noti che qui non si tratta soltanto di sottigliezze vacue, ma del punto centrale che dev’essere chiarito se si deve dare una risposta all’interrogativo avanzato dal nostro titolo. Si noti inoltre che qui, e in nessun altro punto, si trovano gli argomenti decisivi del dialogo ecumenico con il protestantesimo.
Hans Urs Von Balthasar
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