Testi Salesiani

30. MEZZA DOZZINA DI LABORATORI


30. MEZZA DOZZINA DI LABORATORI

 

Nell'archivio della Congregazione Salesiana si conservano due documenti rari: un contratto di “apprendizzaggio” in carta semplice, datato novembre 1851; e un secondo contratto, pure «di apprendizzaggio”, in carta bollata da centesimi 40, con data 8 febbraio 1852. Entrambi sono firmati dal datore di lavoro, dall'apprendista e da don Bosco.

Ecco le parti essenziali del primo:

“In virtù della presente privata scrittura fatta nella Casa dell’oratorio di san Francesco di Sales si è convenuto:

1. Il sig. Carlo Aimino riceve come apprendizzo nell'arte sua di vetraio il giovane Giuseppe Bordone nativo di Biella, promette e si obbliga di insegnargli la medesima nello spazio di tre anni, e dargli durante il corso di apprendizzaggio le necessarie istruzioni e le migliori regole riguardanti l'arte sua e insieme gli opportuni avvisi relativi alla sua buona condotta, con correggerlo, nel caso di qualche mancamento, con parole e non altrimenti; e si obbliga pure di occuparlo continuamente in lavori relativi all'arte sua e non estranei ad essa, con cura che non eccedano le sue forze.

2. Lo stesso mastro dovrà lasciare per intero liberi tutti i giorni festivi dell'anno all'apprendizzo.

3. Lo stesso mastro si obbliga di corrispondere giornalmente all'apprendizzo il primo anno lire una, il secondo lire una e cinquanta, il terzo lire due; gli si concedono ciaschedun anno 15 giorni di vacanza.

5. Il giovane Giuseppe Bordone promette di prestare durante tutto il tempo dell'apprendizzaggio il suo servizio al mastro suo padrone con prontezza, assiduità e attenzione; di essere docile, rispettoso e obbediente.

7. Il Direttore dell'oratorio promette di prestare la sua assistenza per il buon esito della condotta dell'apprendizzo”.

 

Il dito su molte piaghe.

In questa scrittura don Bosco mette il dito su molte piaghe. Alcuni padroni usavano i giovani apprendisti come servitori e sguatteri. Egli li obbliga a impiegarli solo nel loro mestiere. I padroni picchiavano, e don Bosco esige che le correzioni siano fatte solo a parole. Si preoccupa della salute, del riposo festivo e delle ferie annuali. Ed esige uno stipendio “progressivo”, poiché il terzo anno di apprendistato era in pratica un anno di vero lavoro.

Il secondo contratto, accanto al bollo con lo scudo regio, porta la seguente intestazione: “Convenzione tra il sig. Giuseppe Bertolino mastro minusiere dimorante in Torino, e il giovane Giuseppe Odasso natio di Mondovì, con intervento del rev.do sacerdote Giovanni Bosco, e con l'assistenza e fideiussione del padre del detto giovane Vincenzo Odasso, natio di Garessio, domiciliato in questa capitale”.

Il testo è quasi una copia-carbone del primo. C'è solo una particolarità rilevante. Don Bosco impegna il datore di lavoro a comportarsi non da “padrone” ma da “padre”. Si legge nell'articolo 1: “Il sig. Bertolino Giuseppe mastro minusiere... si obbliga di dare al giovane Giuseppe Odasso nel corso del suo apprendimento... relativamente alla sua condotta morale e civile quegli opportuni salutari avvisi che darebbe un buon padre al proprio figlio; correggerlo amorevolmente in caso di qualche suo mancamento, sempre però con semplici parole di ammonizione e non mai con atto alcuno di maltrattamento”.

Don Bosco non fu l'inventore dei contratti di apprendistato. L'Opera della mendicità istruita (fondata nel 1774) stipulava questi contratti da tempo. Ma i due contratti firmati da don Bosco rimangono tra i più antichi conservati a Torino. Ci è lecito forse pensare (almeno finché nuovi documenti lo smentiranno) che oltre all'Opera di mendicità e a don Bosco, quasi nessuno si preoccupava della difesa degli apprendisti.

Non ci pensavano i genitori, quasi sempre poveri e ignoranti. Non ci pensavano le autorità civili che, in linea con le dottrine liberali, lasciavano che i giovani fossero sfruttati secondo le leggi della “libera concorrenza”.

 

Isolato e indifeso nelle mani del padrone.

All'inizio la “casa dell'oratorio” (che don Bosco chiama ospizio, e che noi adeguandoci ai termini di oggi chiameremo convitto) accoglie specialmente giovani lavoratori. Dopo il primo ragazzo della Val Sesia, approdato nella cucina di mamma Margherita sotto la pioggia, dopo Buzzetti e Gastini, ogni anno ne arrivano decine. Chi si ferma tre anni, chi due mesi, chi tutta la vita. Solo a partire dal 1856 gli studenti formeranno la maggioranza dei convittori.

La preferenza data ai giovani lavoratori è motivata dalla loro condizione misera. Gli editti reali del 1844, che hanno abolito le corporazioni, hanno abbandonato l'operaio, specialmente il giovane operaio, isolato e indifeso nelle mani del padrone. Carlo Alberto ha concesso a stento la formazione di “società di assistenza”, e i liberali sono contrari anche a queste.

Don Bosco colloca i suoi ragazzi a padrone, li difende con buoni contratti, li va a visitare in bottega ogni settimana come “garante davanti alla famiglia”. Se il padrone non rispetta i patti, ritira l'apprendista.

Nel 1853, terminata la costruzione del nuovo edificio, decide di iniziare nella sua stessa casa i primi laboratori. I motivi sono due: “il malcostume e l'irreligione” che i ragazzi incontrano tra gli operai adulti delle botteghe, e l'aiuto che laboratori interni di calzolai, sarti, tipografi? potranno apportare all'oratorio.

 

Due deschetti per cominciare.

Nell'autunno del 1853 don Bosco iniziò i laboratori dei calzolai e dei sarti. Quello dei calzolai fu piazzato nel locale strettissimo che ora funziona come mini-sacrestia della cappella Pinardi, accanto al campanile: due deschetti e quattro seggioline. Fu don Bosco il primo maestro: si sedette al deschetto e martellò una suola davanti a quattro ragazzini. Poi insegnò a maneggiare la lesina e lo spago impeciato. Pochi giorni dopo cedette il posto di “maestro” a Domenico Goffi, il portinaio dell'oratorio.

I sarti furono collocati nella stanza della cucina, mentre pentole e fornelli venivano trasferiti nell'edificio nuovo. I primi maestri dei sarti furono mamma Margherita e ancora don Bosco, che insegnò a cucire e a tagliare come aveva imparato a Castelnuovo da Giovanni Roberto.

Nei primi mesi del 1854, quasi scherzando, aprì il terzo laboratorio: la legatoria dei libri. Nessuno dei suoi ragazzi conosceva questo mestiere. Un giorno, attorniato dai ragazzi, distese sopra un tavolo i fogli stampati di un suo ultimo libretto, Gli Angeli Custodi. Poi puntò il dito su un ragazzo:

- Tu farai il legatore!
- Io? Ma non so nemmeno cosa sia.
- Facile. Vieni qua. Vedi? Questi fogli grandi si chiamano “segnature”. Bisogna piegarli in metà, poi ancora in metà, poi ancora in metà, e ancora una volta in metà. Dai, proviamo.

Con l'aiuto degli altri ragazzi che stavano attorno al tavolo, tutti i fogli furono piegati. Don Bosco mise le segnature piegate una sopra l'altra:

- Ecco, il libro è fatto. Adesso bisogna cucirlo -. Fu chiamata in aiuto mamma Margherita, e con un ago robusto e qualche bucatura di dita si riuscì nell'impresa. Un pizzico di farina bianca mescolata con acqua fu la colla per attaccare la copertina.

Mancava solo l'ultima operazione: la rifilatura dei bordi del libro. Come fare? Attorno al tavolo, i ragazzi davano consigli vari: usare le forbici, il coltello, la raspa. Don Bosco andò in cucina, prese la mezzaluna d'acciaio che serve a tritare cipolle e prezzemolo, e con alcuni colpi netti rifilò i bordi. I ragazzi ridevano, rideva anche don Bosco. Ma il laboratorio era “inaugurato”, e fu sistemato in una stanza dell'edificio nuovo.

 

Un anno per avere la tipografia.

Verso la fine del 1856 si iniziò il quarto laboratorio, la falegnameria. Fu subito una cosa seria: un bel gruppo di ragazzi fu ritirato dalle officine della città e piazzato in una vasta sala provvista di banchi, ferri del mestiere, magazzino di legnami. Il primo maestro fu il signor Corio.

Il quinto laboratorio, il più desiderato, fu la tipografia. Don Bosco dovette armeggiare quasi un anno per ottenere l'autorizzazione prefettizia. Venne accordata il 31 dicembre 1861. Incominciò sotto la guida del capo d'arte Andrea Giardino e con l'assistenza di Giuseppe Buzzetti.

Non conosciamo esattamente il giorno in cui la tipografia iniziò a funzionare, ma dell'avvenimento dettero notizia ai loro benefattori gli stessi giovani lavoratori, con una circolare stampata.

Il primo libro stampato dalla “Tipografia dell'oratorio di san Francesco di Sales” fu un libretto del canonico C. Schmid: Teofilo, ossia il giovane romito, ameno racconto. Uscì come fascicolo delle Letture Cattoliche nel maggio 1862. Da allora, le Letture Cattoliche vennero sempre stampate nella “Tipografia dell'oratorio”, salvo poche eccezioni.

Gli inizi furono modesti: due “ruote” fatte girare dai ragazzi con la forza delle braccia. Ma, ancora vivente don Bosco, quella tipografia divenne grandiosa e moderna, tanto da competere con le migliori della città: quattro torchi, dodici macchine mosse a energia, stereotipia, fonderia di caratteri, calcografia.

Nel 1862 don Bosco aprì il suo sesto e ultimo laboratorio, l'officina dei fabbri ferrai, antenata degli attuali laboratori di meccanica.

 

Quattro strade per trovare quella giusta.

Per far funzionare i laboratori, don Bosco trovò molte difficoltà, e sperimentò in tempi successivi formule diverse.

All'inizio assunse maestri d'arte con salario normale. Conseguenza: essi si preoccupavano del lavoro ma non del progresso degli allievi e del buon andamento del laboratorio.

Seconda formula. Ai maestri d'arte è affidata l'intera responsabilità, con la briga di trovarsi il lavoro come se fossero i padroni. Conseguenza: i ragazzi vengono trattati da manovali e sottratti all'autorità del direttore.

Terzo tentativo. Don Bosco assume la completa responsabilità morale e amministrativa dei laboratori, lasciando ai capi d'arte solo la formazione professionale degli apprendisti. Ancora una conseguenza negativa: temendo di essere soppiantati dagli allievi migliori, i capi insegnano poco, li lasciano poltrire.

La formula esatta don Bosco la trovò quando riuscì a formare dei capi laboratorio legati totalmente a lui: i coadiutori salesiani, religiosi come i chierici e i preti, ma dedicati alle scuole professionali.

 

“Chi non è totalmente povero è fuori posto in questa Casa”.

Il convitto dell'oratorio non doveva essere una “fabbrica di operai”, ma una vera casa di educazione. Per questo, durante l'anno scolastico 1854-55, don Bosco inaugura un primo “regolamento”, che delinea la fisionomia dell'Opera per i giovani artigiani (dei giovani studenti si tratta in un'appendice del regolamento).

Il giovane artigiano che viene accettato deve avere dai dodici ai diciotto anni di età, essere “orfano di padre e di madre e totalmente povero e abbandonato. Se ha fratelli o zii che possano assumerne l'educazione, è fuori dello scopo di questa Casa”.

Il regolamento presenta ai ragazzi “le persone cui ciascun figlio dovrà essere sottomesso, e che vengono considerate come superiori della Casa”. Esse sono il Rettore (responsabile dei doveri di ciascuno e della moralità dei figli della Casa), il Prefetto o economo, il Catechista o direttore spirituale (ha il compito di provvedere ai bisogni spirituali dei giovani), l'Assistente (distribuisce il pane, assiste a tavola, nei laboratori, nei dormitori).

Raccomanda come virtù fondamentali la pietà verso Dio, il lavoro, l'obbedienza ai superiori, l'amore ai compagni, la modestia. Dà norme sul contegno in casa e fuori casa. Elenca “tre mali sommamente da fuggirsi”: la bestemmia, la disonestà, il furto.

L'orario prevedeva una levata mattiniera, la Messa con le preghiere e il rosario, la colazione e il lavoro. Ci si ritrovava tutti per il pranzo e la grande ricreazione pomeridiana. Poi si riprendeva il lavoro. In serata erano previsti esercizi scolastici. La giornata terminava con le preghiere della sera e brevi parole di don Bosco a tutta la famiglia: la “buona notte”.

I giovani venivano sollecitati a partecipare ogni mese a un breve ritiro spirituale (Esercizio di Buona Morte), e ogni anno a un breve corso di Esercizi Spirituali.

In campo religioso, don Bosco fu sempre meno esigente con i giovani lavoratori che con gli studenti. Ma vedendo tra essi ragazzi di notevole spiritualità, nel 1859 favorirà il sorgere della “Compagnia di san Giuseppe”: un gruppo che doveva riunire i migliori, e impegnarli a un approfondimento della vita cristiana e apostolica.

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