Un giorno dell'estate 1857, don Bosco fu ricevuto dal ministro Rattazzi. La conversazione cadde sull'“opera degli oratori”, che il ministro apprezzava, specialmente dopo l'impegno dei giovani per i colerosi e il fatto della Generala. Secondo la relazione del Lemoyne, il discorso ebbe questo svolgimento:
- Io mi auguro che lei, don Bosco, viva per molti anni. Ma anche lei può morire. Che ne sarebbe allora dei suoi ragazzi?
- Giro a lei la domanda, ministro. Cosa potrei fare per garantire la sopravvivenza della
mia opera?
- A mio avviso, lei dovrebbe scegliere alcuni tra i laici ed ecclesiastici di sua
confidenza, e formarne una Società, imbeverli del suo spirito, ammaestrarli nel suo sistema. Per ora essi saranno i suoi aiutanti, e domani saranno i suoi continuatori.
Don Bosco sorrise.
- Ma lei due anni fa ha fatto approvare una legge per la soppressione di molte
Comunità religiose. Ora ciò che lei propone è proprio una nuova Comunità religiosa. La lascerà sopravvivere il governo?
- La legge della soppressione io la conosco bene - sorrise a sua volta Rattazzi -. Lei può fondare una Società che nessuna legge potrà mai affondare.
- E come?
- Uno Stato laico non potrà mai riconoscere una “Società religiosa” come dipendente dalla Chiesa, cioè da un'autorità diversa dalla sua. Ma se nasce una Società in cui ogni membro conserva i diritti civili, si assoggetta alle leggi dello Stato, paga le tasse, lo Stato non può avere niente da dire. In faccia a esso, questa Società non è nient'altro che un'associazione di liberi cittadini, i quali si uniscono e vivono insieme per uno scopo di beneficenza, come altri si uniscono per uno scopo di commercio, di industria, di mutuo soccorso. Se poi, al loro interno, questi soci accettano anche l'autorità dei vescovi e del Papa, lo Stato se ne lava le mani: qualsiasi associazione di liberi cittadini è permessa, purché rispetti le leggi e l'autorità dello Stato.
Don Bosco ringraziò il ministro, e l'assicurò che ci avrebbe riflettuto. Rattazzi non aveva fatto altro che dare una forma limpida alle idee che don Bosco si portava dentro da anni. Egli stava appunto studiando come fondare una Congregazione che “in faccia alla Chiesa” fosse di religiosi, e “in faccia allo Stato” fosse di liberi cittadini. La difficoltà principale era: la Santa Sede avrebbe accettato questa nuova impostazione che accettava in pratica la divisione tra Stato e Chiesa (principio liberale), e rivoluzionava gli schemi classici della vita religiosa? Fino allora i religiosi erano stati tali “sia in faccia alla Chiesa sia in faccia allo Stato”.
Una traccia scritta per la Congregazione che nasceva.
Mentre pensava alla “formula”, don Bosco si preoccupava delle persone che avrebbero formato questa sua Congregazione. I collaboratori adulti, uno dopo l'altro, l'avevano abbandonato. La via da seguire gliel'aveva indicata la Madonna nei sogni: far uscire i pastori dal gregge.
Michele Rua, nel marzo 1855, aveva fatto per primo i voti. Alcuni mesi dopo li fece don Alasonatti.
Nel 1856 fu la volta di Giovanni B. Francesia, che compose per l'occasione un solenne carme latino.
Ma nessuno di questi tre credeva di far parte di una “Congregazione”. Pensavano soltanto di essersi uniti maggiormente a don Bosco “per dargli una mano”.
E don Bosco continuava ad essere molto prudente: le congregazioni ed i frati non erano di moda a quel tempo. Egli evitò accuratamente ogni “apparenza di costumanze religiose: non meditazioni regolari, non lunghe preghiere, non osservanze austere” (E. Ceria).
Del resto, fino al 1859 niente autorizzava don Bosco a dichiararsi “capo di una congregazione religiosa”. Era circondato da un buon numero di chierici che avevano ricevuto da lui l'abito chiericale. Tuttavia questo era stato possibile solo perché l'arcivescovo ne vedeva la necessità “per l'opera degli oratori”. E d'altra parte, questi chierici avevano dovuto subire un esame preliminare presso la Curia della città, seguivano le lezioni del seminario, fatta eccezione per i pochi che ne erano dispensati perché il loro lavoro era indispensabile all'oratorio. Don Bosco governava gli oratori, il convitto di Valdocco, i chierici, sotto l'autorità dell'arcivescovo di Torino mons. Fransoni.
Non c'era l'apparenza, ma la sostanza andava condensandosi. Occorreva segnare una traccia scritta della Congregazione che nasceva, una “regola” che fissasse i punti essenziali dello spirito e del metodo.
Don Bosco cominciò in silenzio questo lavoro nel 1855: attinse alla sua esperienza, ai “regolamenti” che aveva tracciato per l'oratorio, chiese consiglio, si documentò con cura sulle regole degli ordini antichi e delle congregazioni più recenti, come l'Istituto di Carità di Rosmini e gli Oblati dell'abate Lanteri.
Il colloquio con Rattazzi (in cui il ministro gli aveva ripetuto soltanto ciò che aveva esposto pubblicamente alla Camera dei Deputati) fu uno “sprazzo di luce” che gli fece capire come poteva adattare la sostanza della vita religiosa alle nuove condizioni imposte dalle condizioni politiche. Don Bosco difenderà con decisione i “diritti civili” dei suoi religiosi.
Alla fine del 1857, il primo testo della “regola” salesiana (che verrà indifferentemente chiamato Regole o Costituzioni) era pronto. Iniziava lo sfibrante lavoro per ottenere l'approvazione delle autorità religiose.
Messo al corrente dell'iniziativa di don Bosco, mons. Fransoni dal suo esilio lionese si mostrò molto incoraggiante. Per maggior sicurezza, gli consigliò di andare a parlare del suo progetto al papa Pio IX.
Incontro con il Papa.
Nei primi giorni del febbraio 1858, Michele Rua passa molte ore notturne a copiare in elegante grafia il manoscritto delle Regole. Don Bosco gli ha raccomandato:
- Copiale bene. Le porteremo insieme al Papa.
Il 18 febbraio partono insieme per Roma. È un viaggio lungo e difficile per quel tempo: lo fanno parte per terra e parte per mare, muniti di regolare passaporto. Don Bosco, partendo, ha creduto opportuno far testamento. L'oratorio è affidato a don Alasonatti.
Il 9 marzo don Bosco ha la prima udienza da Pio IX. Il Papa gli dimostra una benevolenza che non sarà più smentita. Non nasconde la propria ammirazione davanti all'attività esuberante del sacerdote torinese. Egli approva l'intenzione di fondare una Congregazione adatta ai tempi, ma aggiunge alcune raccomandazioni: la più importante è quella di legare tra loro i soci non solo con “promesse” (come aveva suggerito Rattazzi), ma con veri “voti religiosi”. Dice a don Bosco che anche il Papa ha bisogno di pensarci sopra. “Andate, pregate, e dopo alcuni giorni ritornerete e vi dirò il mio pensiero”.
Felice dell'accoglienza, don Bosco rivede il testo delle Regole e lo fa ricopiare ancora da Rua.
21 marzo. Seconda udienza da Pio IX. Il Papa ci ha pensato, e precisa la sua idea:
“Mi sono convinto che il vostro progetto potrà procurare molto bene alla gioventù. Bisogna attuarlo. Le Regole siano miti e di facile osservanza. La maniera di vestire, le pratiche di pietà non vi facciano distinguere in mezzo al secolo. Forse, a questo fine, sarebbe meglio chiamarla Società anziché Congregazione. Insomma, fate in modo che ogni membro di essa in faccia alla Chiesa sia un religioso, e nella civile società sia un cittadino”.
Don Bosco pensò rapidamente che Pio IX e Rattazzi andavano abbastanza d'accordo. Presentò al Papa il breve testo delle Regole:
“In questo regolamento, ritoccato secondo le vostre raccomandazioni, è racchiusa la disciplina e lo spirito che da vent'anni ci guida”.
Quelle Regole non avevano nulla di monastico. Si trattava di una società di ecclesiastici e di laici uniti dai voti e desiderosi di consacrarsi al bene della gioventù povera. In faccia allo Stato erano cittadini: “Ognuno, nell'entrare, non perderà il diritto civile anche dopo aver fatto i voti, perché conserva la proprietà delle cose sue”. In faccia alla Chiesa erano religiosi: “I frutti dei suoi beni, per tutto il tempo che rimarrà in Congregazione, devono essere ceduti a favore della Congregazione”.
“In una terza e ultima udienza del 6 aprile - racconta don Ceria negli Annali della Società Salesiana - Pio IX gli restituì il manoscritto, dicendogli di passarlo al cardinale Gaude”.
Questo cardinale piemontese era in ottimi rapporti con don Bosco. Lesse, ritoccò ancora. Quindi consigliò a don Bosco che si provasse a sperimentare le Regole così ritoccate. Poi si sarebbero nuovamente presentate al Papa.
Don Bosco lasciò Roma il 14 aprile.
Una settimana per decidere la vita.
9 dicembre 1859. Don Bosco pensa che sia giunto il momento di parlare apertamente di Congregazione religiosa. Ai “Salesiani» riuniti nella sua camera (diciannove), parla pressappoco in questi termini:
“Da molto tempo pensavo di fondare una Congregazione. Ecco giunto il momento di venire al concreto. Il santo Padre Pio IX ha incoraggiato e lodato il mio proposito. Veramente questa Congregazione non nasce adesso: esisteva già per quell'insieme di Regole che voi avete sempre osservato per tradizione. Si tratta ora di andare avanti, di costituire formalmente la Congregazione e di accettarne le Regole. Sappiate però che vi saranno iscritti soltanto coloro che, dopo averci riflettuto seriamente, vorranno fare a suo tempo i voti di povertà, castità e obbedienza. Vi lascio una settimana di tempo per pensarci sopra”.
All'uscita dalla riunione ci fu un silenzio insolito. Ben presto, quando le bocche si aprirono, si potè costatare che don Bosco aveva avuto ragione a procedere con lentezza e prudenza. Alcuni borbottavano tra i denti che don Bosco voleva fare di loro dei frati. Cagliero misurava a grandi passi il cortile in preda a sentimenti contraddittori.
Ma il desiderio di “rimanere con don Bosco” ebbe il sopravvento nella maggioranza. Cagliero uscì nella frase che sarebbe diventata storica: “Frate o non frate, io rimango con don Bosco”.
Alla “conferenza di adesione”, che si tenne la sera del 18 dicembre, mancarono due soli dei diciannove che avevano partecipato alla conferenza precedente. Ecco il condensato del verbale redatto da don Alasonatti:
“Nella camera del sacerdote Bosco Giovanni, alle ore nove pomeridiane, si radunavano: don Bosco, il sacerdote Alasonatti Vittorio, i chierici Savio Angelo diacono, Rua Michele suddiacono, Cagliero Giovanni, Francesia G. Battista, Provera Francesco, Ghivarello Carlo, Lazzero Giuseppe, Bonetti Giovanni, Anfossi Giovanni, Marcellino Luigi, Cerruti Francesco, Durando Celestino, Pettiva Secondo, Rovetto Antonio, Bongiovanni Cesare Giuseppe, il giovane Chianale Luigi.
Piacque ai medesimi congregati di erigersi in Società o Congregazione.
Pregarono unanimi don Bosco, iniziatore e promotore, a gradire la carica di Superiore Maggiore, il quale accettò con la riserva di nominarsi il Prefetto: gli pareva non dovesse muoversi da quell’ufficio lo scrivente. Direttore spirituale all'unanimità fu scelto il suddiacono Rua Michele. Economo fu riconosciuto il diacono Angelo Savio. I tre consiglieri, fattasi la votazione, furono i chierici Cagliero Giovanni, Bonetti Giovanni e Ghivarello Carlo. Fu così definitivamente costituito il corpo di amministrazione (fu poi chiamato Capitolo Superiore) per la nostra Società”.
“Cosa stai a fare all'oratorio?”
La Congregazione era nata. Don Bosco ne provò una grande gioia. Ma credo che in quel giorno una ruga di malinconia gli rimase in fondo all'anima: tra i diciassette che avevano accettato non c'era il suo carissimo Giuseppe Buzzetti.
Maneggiando una pistola (per difendere gli oggetti esposti nella prima lotteria) aveva subito un incidente grave: avevano dovuto amputargli il dito indice della mano sinistra. Questo, a quel tempo, era considerato un impedimento serio a diventare sacerdote.
L'incidente, “unito all'umiltà” osserva don Lemoyne, aveva persuaso Buzzetti a rinunciare all'abito chiericale.
Ma dedicava ogni ora della sua giornata al “suo” don Bosco e all'oratorio. Teneva la manutenzione della casa - elenca don Lemoyne -, assisteva in refettorio, apparecchiava le tavole, provvedeva alle pulizie, faceva scuola di catechismo, teneva l'amministrazione e provvedeva alla spedizione delle Letture Cattoliche. Diresse anche la scuola di canto fino al 1860, quando la cedette a Giovanni Cagliero. “Con la sua mente perspicace e l'attività pronta era l'anima di tutte le lotterie, andava in cerca di lavoro per i laboratori, ordinava il pane e provvedeva alle compere”.
Sentiva l'oratorio come carne della sua carne. Quando era crollato l'edificio quasi terminato, aveva esaminato con pignoleria le fatture. Aveva trovato ordinazioni di materiale scadente, e aveva investito l'impresario con parole pesanti. Don Bosco stesso aveva dovuto calmarlo:
- Dobbiamo avere pazienza. Vedrai che il Signore ci aiuterà.
- Sì, sì, ci aiuterà! Ma intanto lei veglia, lavora giorno e notte per avere qualche centinaio di lire, e questi qui gliene rubano migliaia in un momento. Bisognerebbe dar loro una lezione decisa.
- Lasciamo andare. Se la meritano, gliela darà il Signore. Buzzetti (continua Lemoyne da cui abbiamo preso il dialogo) faceva la guardia a don Bosco, accompagnandolo quando si temeva qualche pericolo, gli andava incontro alla sera. La sua figura vigorosa, la foltissima barba rossa, tolsero a parecchi malintenzionati la voglia di attaccare il prete di Valdocco.
I suoi fratelli muratori (Carlo era diventato un ottimo capomastro) parecchie volte gli dissero:
- Se non ti vuoi far prete, cosa ci stai a fare all'oratorio? Se morisse don Bosco, senza nessun mestiere in mano, come te la caveresti? - E lui:
- Don Bosco mi ha garantito che anche dopo la sua morte, per me ci sarà sempre un pezzo di pane. Per me va bene così.
Eppure questo giovane uomo (nel 1859 aveva 27 anni) che avrebbe dato per don Bosco la vita, non se la sentiva di fare i voti, di diventare salesiano.
Il primo “laico” ammesso nella Società Salesiana fu Giuseppe Rossi. Il “capitolo della Società Salesiana” si riunì per decidere la sua ammissione il 2 febbraio 1860. Con Rossi, la parola “coadiutore” fece la sua apparizione nel vocabolario della Congregazione, con il significato di “salesiano laico”.
La crisi di Giuseppe Buzzetti.
Il 14 maggio 1862 segnò una nuova tappa nel consolidamento della Società Salesiana. Riuniti nella solita stanzetta di don Bosco, i “confratelli”, rispondendo all'invito di don Bosco, “promisero a Dio di osservare le Regole facendo voto di povertà, di castità e di obbedienza per tre anni”. Erano ventidue, non compreso il fondatore.
Don Bosco, al termine, disse: “Mentre voi facevate a me questi voti, io li facevo pure a questo Crocifisso per tutta la mia vita, offrendomi in sacrificio al Signore”.
Nel gruppo dei ventidue facevano parte altri due laici, tra loro molto diversi. Il primo, Giuseppe Gaia, sarebbe stato per molti anni cuoco all'oratorio. Il secondo, Federico Oreglia di S. Stefano, apparteneva all'aristocrazia torinese. Don Bosco l'aveva conquistato durante un corso di Esercizi Spirituali, facendogli chiudere un periodo di “vita avventurosa e galante”. Per nove anni avrebbe reso molti servizi all'oratorio, poi sarebbe entrato tra i Gesuiti.
Una tentazione facile, negli anni che seguirono e che videro altri laici aderire alla Congregazione, era quella di considerare i non sacerdoti e chierici come “servitori” della casa, o almeno come “categoria di second'ordine”.
Nacque probabilmente in questo contesto la “crisi” di Giuseppe Buzzetti. È narrata nel volume quinto delle Memorie Biografiche, da cui condensiamo.
Egli intuiva che l'antica vita patriarcale di famiglia sarebbe stata modificata dai regolamenti; vedeva a poco a poco passare in mano dei chierici la direzione della casa, le incombenze che prima erano affidate a lui. Malinconia e scoraggiamento lo decisero a partire. Si trovò un posto in Torino e andò a congedarsi da don Bosco. Con la solita schiettezza gli disse che ormai stava diventando l'ultima ruota del carro, che doveva obbedire a quelli che aveva visto arrivare bambini, a cui aveva insegnato a soffiarsi il naso. Manifestò la sua grande tristezza nel dover partire da quella casa che aveva visto venir su dai giorni della tettoia.
Don Bosco non gli disse: “Mi lasci solo. Come farò senza di te?”. Non compianse se stesso. Pensò a lui, al suo amico più caro: “Hai già trovato un posto? Ti daranno una paga buona? Non hai denaro, e certamente te ne occorrerà per le prime spese”. Aprì i cassetti della scrivania: “Tu li conosci meglio di me questi cassetti. Prendi tutto quello che ti occorre, e se non basta dimmi ciò che hai bisogno e te lo procurerò. Non voglio, Giuseppe, che debba patire qualche privazione per me”. Poi lo guardò con quell'amore che solo lui aveva per i suoi ragazzi: “Ci siamo sempre voluti bene. E spero che non mi dimenticherai mai”.
Allora Buzzetti scoppiò a piangere. Pianse a lungo, e disse: “No, non voglio lasciare don Bosco. Resterò sempre con lei”.
Il “coadiutore” che don Bosco portava nel cuore.
Fu forse questo avvenimento che stimolò don Bosco a definire meglio la figura del salesiano laico, del “coadiutore” nella Congregazione Salesiana.
31 marzo 1876. In una “buona notte” riservata agli artigiani, indicò in che cosa consisteva la vocazione del salesiano laico: “Notate che tra i soci della Congregazione non c'è distinzione alcuna; sono trattati tutti alla stessa maniera, artigiani, chierici e preti; noi ci consideriamo tutti come fratelli”.
Nel 1877, Giuseppe Buzzetti si decise a far domanda di entrare nella Società Salesiana. La sua domanda la volle presentare don Bosco stesso al “Capitolo Superiore”, costituito quasi per intero da quei ragazzetti a cui Giuseppe “aveva insegnato a soffiarsi il naso”. Fu accettato a pieni voti, e credo che quella fu una delle giornate più intimamente belle per don Bosco.
Molti altri “coadiutori” facevano ormai parte della Società Salesiana con mansioni svariatissime: Pelazza e Gambino erano direttori di laboratori; Marcello Rossi era portinaio; Nasi infermiere; Giuseppe Rossi amministratore; Enria factotum; Falco e Ruffato cuochi. Ma tutti “coadiuvavano il sacerdote” con responsabilità apostoliche: insegnavano catechismo, erano assistenti e educatori.
La “tentazione”, di cui parlavamo poco sopra, tornò negli ultimi anni della vita di don Bosco. Nel terzo “Capitolo Generale” della Congregazione, tenuto nel 1883, qualcuno disse: “Bisogna tenere bassi i coadiutori, formare per essi una categoria distinta”. Don Bosco reagì con vivacità: “No, no, no. I confratelli coadiutori sono come tutti gli altri”. E parlando nello stesso anno ai Salesiani laici affermava con forza: “Voi non dovete essere chi lavora direttamente o fatica, ma bensì chi dirige. Voi dovete essere come padroni sugli altri operai, non come servi. Questa è l'idea del coadiutore salesiano. Io ho tanto bisogno di avere molti che mi vengano ad aiutare in questo modo! Sono perciò contento che abbiate abiti adatti e puliti; che abbiate letti e celle convenienti, perché non dovete essere servi ma padroni, non sudditi ma superiori”.
Pietro Braido, studioso del problema, afferma: “La figura del coadiutore (nella mente di don Bosco) non sorse di colpo come una creazione tutta nuova e originale, ma emerse gradualmente, tra oscillazioni e incertezze”.
Noi osiamo affermare che forse la “figura ideale” del coadiutore che don Bosco portò in cuore per tanti anni fu quella di Giuseppe Buzzetti: fidatissimo, umile, sempre presente nei momenti difficili e delicati, che sentiva l'oratorio come la sua famiglia, carne viva della sua vita, che si sentiva realizzato perché la “sua famiglia” si realizzava, che non capiva molto di cose giuridiche ma ad ogni costo “voleva stare con don Bosco”.
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