Ogni anno, per la festa della Madonna del Rosario, don Bosco portava ai Becchi i ragazzi migliori. Nei primi anni erano una ventina. Poi il numero crebbe. Dal 1858 toccò il centinaio.
“Nei primi giorni di ottobre - scrive don Lemoyne - partiva dall'oratorio la turba dei cantori, dei musici con altri alunni. Ognuno teneva un piccolo fagotto con biancheria da cambiarsi durante la vacanza, alcune pagnotte, un po' di formaggio e di frutta”.
Li ospitava lassù Giuseppe, sempre cordiale, sempre disposto a chiudere gli occhi quando i ragazzi scappavano nella vigna ad alleggerirgli la fatica della vendemmia.
La prima domenica di ottobre si celebrava la festa, e il giorno dopo cominciavano le passeggiate, che si prolungavano per dieci, venti e più giorni.
Fino al 1858 il quartier generale rimaneva i Becchi: si partiva al mattino per un paese non troppo distante, e si tornava alla sera. Con il 1859 le passeggiate si trasformarono in veri “itinerari” attraverso le colline del Monferrato.
Don Bosco aveva preparato in anticipo il percorso: parroci e benefattori erano pronti ad accogliere la turba affamata e stanca. Il viaggio si svolgeva sulle stradine di campagna, tra colline e vigneti. Si andava a gruppi, cantando, picchiando sui tamburi, spingendo i somarelli che portavano in groppa gli scenari e le quinte necessarie per il teatro. Dietro a tutti veniva don Bosco, circondato sempre da un bel gruppo di giovani, mai stanchi di sentirlo raccontare le storie dei paesi che attraversavano.
In vista di un paese, la turba si metteva in ordine, e con la banda in testa si faceva l'ingresso solenne.
Scriveva don Anfossi: “Ricordo sempre quei viaggi avventurosi. Mi accendevano di meraviglia e di contentezza. Accompagnai don Bosco per i colli del Monferrato dal 1854 al 1860. Eravamo un centinaio di ragazzi, e vedevamo la grande fama di santità che godeva già don Bosco. I suoi arrivi in quei paesi erano un trionfo. I parroci dei dintorni si trovavano al suo passaggio, e generalmente anche le autorità civili. Gli abitanti si affacciavano alle finestre, o uscivano sulle porte delle case, i contadini abbandonavano i lavori per vedere il Santo, le madri gli si avvicinavano presentandogli i loro bambini, e genuflesse anche a terra gli chiedevano la benedizione. Siccome era nostra abitudine recarci direttamente alla chiesa parrocchiale per adorarvi Gesù sacramentato, in breve questa rimaneva piena di popolo, al quale don Bosco, salito sul pulpito, rivolgeva subito un discorso. Quindi si cantava il Tantum ergo in musica e si dava la benedizione eucaristica”.
Si mangiava al sacco, ma abbondantemente, alla paesana. La gente portava volentieri a quei ragazzi ceste di frutta, forme di pane casalingo, formaggio e pintoni di vino.
Si dormiva sotto tettoie o in cameroni, sdraiati su sacconi di foglie o nella paglia.
Un affarino di cinque anni: Filippo Rinaldi
Negli anni 1859 e 60 si toccarono i paesi di Villa San Secondo, Montiglio, Marmorito, Piea, Moncucco, Albugnano, Montafia, Primeglio, Cortazzone, Pino d'Asti.
Nel 1861 la lieta brigata arrivò fino a Casale Monferrato, Mira- bello, Lu, San Salvatore e Valenza. Proseguì in ferrovia fino ad Alessandria, e da Alessandria a Torino.
Nel 1862 fece l'itinerario Calliano, Grana, Montemagno, Vignale, Casorzo, Camagna e Mirabello. Le ferrovie dello Stato anche in quell'anno misero a disposizione di don Bosco due carrozzoni per il ritorno da Alessandria a Torino.
Nel 1863 e 64 questa facilitazione venne estesa anche all'andata. Nel '63 si potè quindi arrivare a Tortona, visitando Asti e andando a Broni, Torre Garofoli, Villavernia e Mirabello. Nel 64 si andò fino a Genova e poi a Serravalle, facendo a piedi il tratto SerravalleAcqui, per Gavi, Mornese, Ovada e tutti i paesi intermedi.
Dopo quell'anno una serie di difficoltà fece sospendere le passeggiate. Si continuò soltanto l'escursione ai Becchi e a Mondonio, il paese di Domenico Savio.
Quelle passeggiate furono avventure indimenticabili per i suoi ragazzi, e per don Bosco furono il “biglietto di presentazione” ai paesi del Monferrato da cui riuscì a portare all'oratorio splendide vocazioni salesiane.
Quando giunse a Lu nel 1861, davanti alla casa dei Rinaldi vide nove ragazzi, in scala come le canne d'un organo. L'ottavo, un affarino alto così, si chiamava Filippo. 5 anni. Guardava incantato quel prete che con un segno faceva suonare la banda, e alla fine della marcetta batté anche lui le mani contento. Don Bosco rivide quell’affarino mezz'ora dopo, sull'aia di casa Rinaldi, dove il signor Cristoforo (padre di Filippo) gli prestò il biroccio per raggiungere San Salvatore. Prima di partire, fece una carezza a tutti quei ragazzi timidi che lo guardavano incantati, e fissò a lungo negli occhi il piccolo Filippo. Sarebbe diventato il suo terzo successore alla testa della Congregazione Salesiana, don Filippo Rinaldi.
Un ragazzo dai capelli rossi e la pioggia.
Nel 1862 la turba giunse a Montemagno. Un ragazzo di 12 anni stava giocando in una valle, sentì gli squilli della banda, lasciò i compagni e le scarpe, e corse verso la piazza del paese. S'infilò tra la gente a gomitate e giunse in prima fila. Don Bosco vide quello sguardo curioso, quel ciuffo di capelli rossi, e prima di lasciarlo ripartire gli domandò:
- Chi sei?
- Lasagna Luigi.
- Vuoi venire con me a Torino?
- A fare che cosa?
- A studiare come tutti questi ragazzi.
- E perché no?
- Allora di' a tua mamma che domani mi venga a parlare a Vignale, nella casa del parroco.
Luigi Lasagna entrò all'oratorio alla fine del mese. Vivacissimo ma di una sensibilità profonda, fu preso dalla nostalgia e dopo pochi giorni scappò a casa. Qualche superiore non era del parere di riprenderlo, ma don Bosco garantì per lui: “C'è della buona stoffa in quel ragazzo, vedrete”.
Luigi tornò, si affezionò a don Bosco. Fu il secondo vescovo salesiano e un grandissimo missionario.
Due anni dopo, don Bosco ritornerà a Montemagno nel mese di agosto e sarà protagonista di un avvenimento straordinario.
Da tre mesi non pioveva. Le viti seccavano sulle colline. Don Bosco arrivò per predicare il triduo in preparazione della festa dell’Assunta, e subito nella prima predica annunciò:
- Se in questi tre giorni vi riconcilierete con Dio con una buona confessione, e il giorno della festa farete tutti la Comunione, io vi prometto in nome della Madonna che ci sarà una pioggia abbondante.
Quando scese dal pulpito vide il parroco don Clivio con la faccia scura. - Bravo lei - gli disse -. Ci vuole un bel coraggio!
- A fare che cosa?
- A promettere in pubblico la pioggia per il giorno della festa.
- Io ho detto questo?
- Abbiamo sentito tutti. E a me queste cose non è che piacciano troppo.
La gente rispose con fede. Don Rua e don Cagliero, che accompagnavano don Bosco,
ricordavano ancora dopo anni la stanchezza delle lunghe ore in confessionale.
La “profezia” fece rumore anche nei paesi vicini. Molti aspettavano curiosi, molti altri scettici.
Il giorno dell'Assunta spuntò con un sereno smagliante. Nel pomeriggio nemmeno l'ombra di una nuvola.
Don Luigi Porta testimoniò: “Mentre andavo in chiesa per i vespri insieme al marchese Fassati si parlava della pioggia promessa. Il sudore gocciolava dalle nostre fronti benché dal palazzo del marchese alla chiesa ci fossero solo dieci minuti di strada. Giunti in sacrestia, il marchese disse a don Bosco:
- Questa volta, signor don Bosco, fa un fiasco. Ha promesso la pioggia, ma tutt'altro che pioggia è.
Finiti i vespri, don Bosco indossò la cotta e la stola e salì sul pulpito. Ma già mentre diceva l'Ave Maria prima della predica, la luce del sole cominciò a oscurarsi. Parlava da pochi minuti quando cominciarono i lampi e i tuoni. Don Bosco smise di parlare un istante in preda alla più viva commozione. Una pioggia fittissima e continua cominciò a battere contro le vetrate della chiesa.
Pensate - continua sempre don Porta di cui condensiamo la testimonianza - all'eloquente parola che usciva dal cuore di don Bosco mentre imperversava la pioggia. Fu un inno di ringraziamento a Maria.
Dopo la benedizione la gente si fermò ancora in chiesa e sotto il grande atrio, perché la pioggia continuava dirotta”.
I grandi temporali d'estate, in Monferrato, sono spesso accompagnati dalla grandine. Un po' ne venne anche quel giorno. Gli “zelanti” andarono subito a indagare, e riferirono che “aveva grandinato sulle vigne di quelli di Grana”, un paese vicino che quel giorno celebrava la festa patronale, con il ballo pubblico in piazza (che faceva andare sulle furie i parroci).
Una ragazza di Mornese: Maria Mazzarello.
Nella passeggiata autunnale di quello stesso 1864 don Bosco giunge con i suoi ragazzi a Mornese. È già notte. La gente gli viene incontro preceduta dal parroco don Valle e dal sacerdote don Pestarino. La banda suona, molti s'inginocchiano al passaggio di don Bosco chiedendo che li benedica. I giovani e la gente entrano in chiesa, si dà la benedizione con il Santissimo, quindi tutti a cena.
Dopo, incoraggiati dagli applausi, i ragazzi di don Bosco danno un breve concerto di marce e musica allegra. In prima fila c'è una ragazza di 27 anni, Maria Mazzarello. Al termine, don Bosco dice poche parole: “Siamo tutti stanchi, e i miei ragazzi hanno voglia di fare una bella dormita. Domani però ci parleremo più a lungo”.
Il giorno dopo, in mattinata, don Pestarino presenta a don Bosco le “Figlie dell'Immacolata”. Tra loro c'è Maria Mazzarello. Don Bosco rimane impressionato dalla bontà e dalla laboriosità di quelle ragazze. Parla loro brevemente, incoraggiandole a essere costanti nella vita che hanno scelto e nella pratica della virtù. Maria Mazzarello diventerà la prima Superiora della Congregazione delle Figlie di Maria Ausiliatrice.
Un suo successore, Filippo Rinaldi, un vescovo, Luigi Lasagna, la confondatrice delle Figlie di Maria Ausiliatrice: un raccolto più che discreto in quelle passeggiate ottobrine.
Parlando delle passeggiate nel Monferrato, abbiamo dovuto fare qualche passo avanti nella storia. Ci scusiamo e riprendiamo il filo degli avvenimenti.
La prima Messa di don Rua.
Il 29 luglio 1860 don Rua doveva essere ordinato sacerdote.
Don Bosco lo mandò a prepararsi con un corso di Esercizi Spirituali presso i Preti della Missione. Verso la fine, Michele scrisse a don Bosco una lettera in francese (era la lingua usata dai Preti della Missione) chiedendogli un ricordo per la giornata più importante della sua vita. Don Bosco era a S. Ignazio, presso Torino, e faceva gli Esercizi anche lui. Gli rispose in latino:
“Mi scrivesti in francese e hai fatto bene. Sii però francese solo nella lingua e nel parlare; di animo, di cuore, di azione sii romano intrepido e generoso”.
Don Giovanni B. Francesia scrive:
“Proprio il 29 luglio don Bosco tornava da S. Ignazio. C'ero anch'io con lui. Siccome don Bosco soffriva di viaggiare entro la carrozza pubblica, ero con lui al di fuori, vicino al vetturino. E quale fu la nostra meraviglia quando vedemmo comparire in lontananza tre vesti nere, che finalmente scoprimmo per don Rua, il chierico Durando e il chierico Anfossi. Don Bosco pregò il cocchiere di fermare la carrozza e domandò:
- Dove si va?
- A Caselle, dov'è il vescovo monsignor Balma, incaricato di darmi l'Ordinazione sacerdotale - disse don Rua.
- Oh, come sono contento. Ho pregato per te, caro don Rua, e spero che il Signore ti esaudirà. Riverisci per me mons. Balma.
Noi guardavamo con piacere i tre compagni che a piedi, a modo dei poverelli, andavano all'Ordinazione sacerdotale”.
La grande festa per la prima Messa di don Rua fu celebrata all'oratorio nella domenica seguente. Accanto all'altare c'era un grande mazzo di fiori bianchi. L'avevano portato i piccoli spazzacamini dell'oratorio San Luigi.
Quando salì alla sua stanzetta, dopo la giornata festosa, don Rua trovò sul tavolino una lettera di don Bosco. Lesse: “Tu vedrai meglio di me l'opera salesiana valicare i confini dell'Italia e stabilirsi in molte parti del mondo. Avrai molto da lavorare e molto da soffrire; ma, tu lo sai, solo attraverso il Mar Rosso e il deserto si arriva alla Terra Promessa. Soffri con coraggio; e, anche quaggiù, non ti mancheranno le consolazioni e gli aiuti da parte del Signore”.
Dopo la prima Messa di don Rua, don Bosco acquista una tranquillità più marcata, un senso di sicurezza che impressiona. L'oratorio è ormai una casa immensa. I giovani convittori stanno per toccare il numero di 500. Nei quattro laboratori in piena efficienza imparano un mestiere trecento “piccoli artigiani”. Don Bosco deve assentarsi frequentemente: riempire tante bocche non è un problema facile. Ma egli parte tranquillo per i suoi giri di beneficenza: don Rua è ormai il “secondo don Bosco” dell'oratorio.
Il 23 giugno di quel 1860 portò a don Bosco un vivo dolore: la morte di don Cafasso. Fu avvisato in ritardo delle gravissime condizioni del suo grande amico. Andò in fretta accompagnato dal giovane Francesco Cerruti. Arrivò quando era appena spirato. Si inginocchiò ai piedi del letto e pregò a lungo. A poche persone doveva quanto doveva a don Cafasso. Aveva creduto in lui, nella sua missione, anche quando lui stesso dubitava. L'aveva aiutato sempre, incoraggiato sempre. Era stato il suo “padre spirituale” nel più vero senso della parola.
400 pagnotte in un cesto vuoto.
22 ottobre 1860. Francesco Dalmazzo, anni 15, entra all'oratorio. È nato a Cavour, ha fatto i primi anni di studio a Pinerolo, ma qui “avendo letto i fascicoli delle Letture Cattoliche, domandai chi fosse don Bosco. Saputo che aveva in Torino un ospizio per giovanetti, risolsi di aggregarmi tra i suoi figli”. È accettato a frequentare l'ultimo anno di ginnasio.
Dopo venti giorni, però, Francesco è scoraggiato. “Assuefatto in casa mia a un vivere delicato, non potevo adattarmi al vitto troppo modesto della mensa comune e alle abitudini dell'Istituto. Quindi scrissi a mia madre che venisse a prendermi, perché volevo assolutamente ritornare a casa”.
11 novembre. La mamma è venuta a prenderlo. “Prima di andarmene però desideravo confessarmi ancora una volta da don Bosco. Aspettai il mio turno durante la Messa. Dopo, uscendo, a ciascuno dei giovani veniva consegnata una pagnotta per la colazione.
Mentre aspettavo di confessarmi, arrivarono i due garzoni che dovevano distribuire il pane, e dissero a don Bosco:
- Non c'è più pane per la colazione.
- Che cosa ci debbo fare io? - rispose don Bosco -. Andate da Magra, il nostro panettiere, e fatevene dare.
- Magra ha detto che non ci darà più niente, perché non è stato pagato.
- E allora ci penseremo. Lasciatemi confessare.
Io ascoltai quel dialogo fatto sottovoce. Intanto era venuto il mio turno, e cominciai la mia confessione. La Messa era già alla consacrazione, e i due garzoni tornarono: - Don Bosco, per la colazione non c'è proprio niente.
- Ma lasciatemi confessare, e poi vedremo. Andate a cercare in dispensa, nei refettori, qualcosa ci sarà bene!
Mentre quelli andavano, io continuai la mia confessione. Avevo appena finito, che uno dei garzoni tornò per la terza volta:
- Abbiamo raccolto tutto, e ci sono pochissime pagnotte.
- Mettetele nel canestro. Verrò io stesso a distribuirle. E lasciatemi confessare in pace. Continuò a confessare il fanciullo che gli stava dinnanzi. Intanto, vicino alla porta che aprivasi dopo l'altare della Madonna, stava già il canestro del pane. Io, riandando nella mente i fatti miracolosi uditi sul conto di don Bosco, e preso dalla curiosità, mi andai a collocare in luogo conveniente per vedere cosa sarebbe capitato.
Sulla porta c'era mia madre che mi aspettava:
- Vieni, Francesco - mi disse. Ma io le feci segno di aspettare ancora qualche minuto.
Quando arrivò don Bosco, presi una pagnotta per primo, guardai nel cesto, e vidi che conteneva una quindicina o una ventina di pagnottelle. Quindi mi collocai inosservato proprio dietro a don Bosco, sopra il gradino, con tanto di occhi aperti. Don Bosco iniziò la distribuzione. I giovani gli sfilavano davanti, contenti di ricevere il pane da lui, e gli baciavano la mano, mentre egli a ciascuno diceva una parola o dispensava un sorriso.
Tutti gli alunni, circa quattrocento, ricevettero il loro pane. Finita quella distribuzione, io volli di bel nuovo esaminare la cesta del pane, e con mia grande ammirazione costatai che nel canestro c'era la stessa quantità di pane che c'era prima. Restai sbalordito. Corsi difilato da mia madre e le dissi:
- Non vengo più, non voglio più andare via, resto qui. Perdonatemi di avervi fatto venire fino a Torino -. Quindi le raccontai quello che avevo veduto con i miei stessi occhi, e le dissi: - Non voglio abbandonare un santo come don Bosco.
Questa fu la sola causa che mi indusse a restare nell'oratorio e in seguito ad aggregarmi tra i figli di Don Bosco”.
Francesco Dalmazzo divenne salesiano, fu per otto anni direttore del collegio di Valsalice, e per sette Procuratore generale della Congregazione Salesiana presso la Santa Sede.
La carità ai poveri e solo a loro.
All'avvicinarsi dell'anno scolastico 1860-61, don Bosco costatò che le domande per accettare studenti nell'oratorio erano molto numerose. Ebbe paura di “dare i frutti della carità” a chi non ne era degno. Fece perciò ristampare il programma del convitto con una nuova clausola: gli studenti, per i primi due mesi, avrebbero pagato una retta fissa. Solo dopo aver dimostrato, con la buona condotta, di essere degni della carità, la retta sarebbe stata diminuita e anche annullata. Don Lemoyne, riportando questa notizia, annota: “Don Bosco però, nella sua carità, sapeva fare molte eccezioni”. Ecco le condizioni stampate e distribuite per l'anno 1860-61:
Per gli artigiani:
- Siano orfani di padre e di madre.
- Abbiano 12 anni compiuti e non oltrepassino i 18. - Poveri e abbandonati.
Per gli studenti:
- Abbiano compiute le classi elementari e vogliano percorrere il corso ginnasiale (così si chiamava allora la scuola media).
- Siano commendevoli per ingegno e moralità.
- Siano tenuti due mesi in prova a lire 24 mensili e di poi si faranno le intelligenze secondo il merito.
Tra le “disposizioni generali” che seguivano è notevole la seguente: “Ogni oggetto di vestiario è a carico degli allievi, ad eccezione che facciano constare la loro impotenza per povertà”.
La “Commissione segreta” del 1861
Nel 1861 all'oratorio si verifica un fatto insolito, quasi unico e di eccezionale importanza. Don Alasonatti, don Rua, il chierico Cagliero, il chierico Francesia e altri dieci salesiani si riuniscono in una “Commissione segreta”. Sono tutti convinti che ciò che avviene attorno a don Bosco ha sovente un carattere eccezionale, se non addirittura soprannaturale. Perdere il ricordo di questi avvenimenti sarebbe gettare via un tesoro. Si impegnano quindi a “conservarne memoria” fedelmente. Ognuno prenderà appunti. In sedute regolari della commissione gli appunti saranno letti a tutti, e corretti secondo la testimonianza di ciascuno, perché vengano tramandate solo cose esatte.
Don Lemoyne, riportando la notizia nel sesto volume delle Memorie Biografiche, annota: “Noi possiamo adunque essere certi della verità di quanto ci tramandarono questi testimoni. Altri sottentrarono nel corso degli anni, a continuare il loro lavoro con eguale affetto a don Bosco e alla verità”.
Siamo molto grati a quei primi salesiani già carichi di lavoro, che strapparono altre ore al sonno per questa impresa incomparabile, preziosissima, senza la quale moltissime notizie su don Bosco sarebbero andate perdute o sarebbero avvolte nella nebbia della leggenda.
Ciò non toglie che qualche osservazione possiamo e dobbiamo farla, a loro e a quelli che scrissero la vita di don Bosco in base alle loro testimonianze. Non per accusarli (sarebbe solo una sciocchezza), ma per intendere meglio la vicenda di don Bosco.
Primo. Don Bosco tante volte raccontava a braccio, familiarmente, e ne aveva tutti i diritti. Chi parla ai ragazzi, ai suoi giovani allievi, non è quasi mai nelle condizioni di spirito di chi “detta per la storia”. E occorre annotare le sue parole come “familiari”, non come rigorosi documenti storici. Ciò era capitato a Napoleone nelle narrazioni fatte a Sant'Elena, a Lutero durante le conversazioni conviviali e a tanti altri. Le narrazioni di Napoleone sono piene di emozioni, di lampi, di ricordi, ma guai a prenderle come rigorose e dettagliate deposizioni per la storia. Occorrerà invece filtrarle attraverso la documentazione, le carte delle battaglie, le lettere e i trattati. Invece a don Bosco capitò che parecchie sue conversazioni “alla buona” furono prese come assolutamente e rigorosamente esatte in ogni particolare.
Secondo. Questi solerti raccoglitori di ricordi e di parole di don Bosco, per il gran lavoro che avevano all'oratorio, per la poca conoscenza che avevano della città, registrarono tutto ciò che faceva don Bosco, ma non registrarono quasi niente di ciò che contemporaneamente avveniva in città e nei dintorni. Così, tutto ciò che dicono di don Bosco è assolutamente vero, ma dai loro scritti pare che solo don Bosco facesse queste cose, mentre in Torino erano magari in parecchi a tentare le stesse imprese apostoliche, a portare avanti le stesse istanze sociali. Ora, chi è solo appare sempre il primo della classe, e così don Bosco, da quei ricordi, sembra sempre avere la prima intuizione, essere l'unico ad avere l'iniziativa. Mentre poi, verificando i fatti in largo, ci si accorge che lui fu grandissimo, ma che accanto, avanti e dietro lui, c'erano tanti altri che si sforzavano di lavorare come lui.
Per esempio, il Santuario di Maria Ausiliatrice (di cui parliamo nel capo seguente) appare un miracolo di realizzazione: tante spese, tante offerte, velocità di costruzione, concorso enorme di folla all'inaugurazione. Poi, esaminando la storia di Torino, si vede che nello stesso periodo furono realizzate altre quattro chiese di costo notevole e di veloce realizzazione (Parrocchia di S. Giulia, 1863, L. 650.000; parrocchia dei SS. Pietro e Paolo, 1865, L. 540.000; parrocchia dell'Immacolata Concezione, 1867, L. 220.000; santuario di Maria Ausiliatrice, 1868, L. 890.000; parrocchia di S. Barbara, 1869, L. 336.000. Nel 1853 era stata condotta a termine la parrocchiale di S. Massimo con un costo di L. 1.500.000).
Con questo, il santuario di Maria Ausiliatrice non perde nulla della sua grandezza. Esso rimane lì, miracolo di volontà, di fede, di beneficenza. Ma messo tra le altre quattro chiese assume una prospettiva diversa. Un conto è un pino in un deserto, e un altro conto è un pino in una macchia di pini. È sempre lo stesso splendido albero, ma non è più lui solo a monopolizzare l'appellativo di “portentoso”.
Lo stesso si può dire per le scuole serali, per i laboratori, per la spedizione dei missionari. Tutte cose formidabili, ma che esistono in un contesto di realizzazioni cattoliche altrettanto formidabili. Don Bosco non appare più un “mostro”, ma un santo che, in un ambiente di cattolicità impegnata, spinge la sua fede a fare autentici miracoli. Con accanto altri preti che (pur non sempre santi come lui) lavorano con tanta fede e impegno.
Terzo. Don Bosco aveva da Dio doni misteriosi. Aveva sogni che gli spalancavano l'avvenire, pronunciava profezie che si verificavano puntualmente. Ma era anche un uomo, un povero prete che moltissime volte cercava soltanto di vedere più in là del proprio naso come tutti noi. E aveva diritto anche lui a dare pareri, a nutrire speranze, a fare pronostici, che a volte risultavano esatti, a volte invece erano errati (come risultò nel caso di don Guanella, che don Bosco cercò di fermare all'oratorio mentre la sua missione era un'altra). Registrare “tutti” questi pronostici, queste speranze, e avere un po' la pretesa di vederli tutti realizzati infallibilmente, è falsare la figura di don Bosco. È negargli il diritto di essere un uomo, soggetto come tutti alle vicissitudini della vita. Questo fu forse un limite nello “spirito” con cui furono raccolti i ricordi e le parole di don Bosco. Oggi specialmente, avremmo più riconoscenza verso quei testimoni se ci avessero tramandato non solo gli esiti sublimi, ma anche i dubbi, le perplessità e gli sbagli di quella grandissima e “umanissima” persona che fu don Bosco.
Ma tutto questo non vuole né può essere un appunto al lavoro di quei primi salesiani, che pur con limiti precisi, fu di valore incalcolabile.
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