Testi Salesiani

39. DON RUA: DA MIRABELLO ALL'INAUGURAZIONE DEL SANTUARIO


39. DON RUA: DA MIRABELLO ALL'INAUGURAZIONE DEL SANTUARIO

 

A Mirabello, nella diocesi di Casale Monferrato, il parroco desiderava avere un collegio nell'ambito della sua parrocchia. Invitò don Bosco. Dopo essersi assicurato che “sarebbe stato padrone in casa propria”, e aver stabilito che l'istituto doveva accogliere principalmente giovani aspiranti al sacerdozio, don Bosco accettò.

Era ormai impegnato fino al collo nell'impresa appena incominciata della chiesa di Maria Ausiliatrice, ma prese tutte le precauzioni perché l'iniziativa di Mirabello avesse successo. Mons. Calabiana, vescovo di Casale, che aveva pochissime vocazioni al sacerdozio, diede la sua piena approvazione. La casa si sarebbe chiamata “Piccolo Seminario”.

Nell'autunno del 1863 don Bosco chiamò don Rua e gli disse:

- Ho da chiederti un grosso sacrificio. Ci chiamano ad aprire un “Piccolo Seminario” a Mirabello, nel Monferrato. Penso di mandare te a dirigerlo. È la prima casa che i salesiani aprono fuori Torino. Avremo mille occhi addosso per vedere “come ce la caviamo”. Ho piena fiducia in te. Ti darò tutti i confratelli necessari perché quella casa nasca bene.

Rua aveva 26 anni. Don Bosco studiò con lui l'elenco dei salesiani che l'avrebbero accompagnato. Furono scelti i chierici Provera, Bonetti, Cerruti, Albera, Dalmazzo e Cuffia.

Anche per i ragazzi studiarono una formula che avrebbe permesso di avere subito buoni risultati: alcuni dei migliori giovani dell'oratorio di Torino si sarebbero trasferiti nel collegio di Mira- bello per “fare da buon lievito” tra i novanta ragazzi accettati per il primo anno.

 

Quattro pagine che hanno valore di testamento.

Don Rua partì per Mirabello dopo la festa del Rosario. Portava con sé quattro pagine di consigli preziosi che don Bosco aveva scritto per lui.

Pietro Stella dice di quelle quattro paginette: “Hanno un valore quasi di codice e di testamento. Don Bosco vi rispecchia tutto l'arco delle sue principali preoccupazioni di padre, di educatore, di sacerdote che mira alla salvezza delle anime”.

Anche don Bosco si accorse di essere riuscito a tracciare in quelle righe una delle sintesi migliori del suo “sistema di educare”, tanto che in seguito trascriverà quelle pagine (con alcune varianti e aggiunte) per tutti i direttori salesiani, con il titolo Ricordi confidenziali per i direttori.

Ne tentiamo una breve sintesi.

“Ti parlo con la voce di un tenero padre che apre il cuore a uno dei più cari suoi figliuoli.

Con te stesso.

- Niente ti turbi.
- Evita le mortificazioni nel cibo. Ogni notte non fare meno di sei ore di riposo.
- Celebra la santa Messa e recita il breviario con pietà, devozione e attenzione.
- Ogni mattina un poco di meditazione, lungo il giorno una visita al Santissimo.
- Studia di farti amare prima di farti temere; nel comandare e correggere fa' sempre

conoscere che desideri il bene e non mai il tuo capriccio. Tollera ogni cosa quando si tratta di impedire il peccato.

- Pensaci alquanto prima di deliberare in cose d'importanza.

- Quando ti è fatto rapporto intorno a qualcuno, procura di rischiarare bene il fatto prima di giudicare.

Coi maestri.

- Procura di parlare spesso con loro. Conosciuto qualche bisogno, fa' quanto puoi per provvedervi.

- Fuggano l'amicizia particolare e la parzialità fra i loro allievi.

Con gli assistenti.

- Procura di trattenerti con essi per udirne il parere sulla con dotta dei giovani. Si trovino puntuali al loro dovere. Facciano la loro ricreazione con i giovani.

Con i giovani studenti.

- Per nessun motivo non accettare mai un giovane che sia stato cacciato da altri collegi o che ti consti altrimenti essere di cattivi costumi.

- Fa' quanto puoi per passare in mezzo ai giovani tutto il tempo della ricreazione; e procura di dire all'orecchio qualche affettuosa parola, che tu sai, di mano in mano si presenta l'occasione e tu ne scorgerai il bisogno. Questo è il grande segreto per renderti padrone del cuore dei giovani.

- Procura d'iniziare la Compagnia dell'Immacolata Concezione.

Con gli esterni.

- La carità e la cortesia siano le caratteristiche di un direttore, tanto verso gli interni quanto verso gli esterni.

- In questioni materiali, accondiscendi in tutto quello che è possibile, anche con qualche danno, purché si conservi la carità.

- Nelle cose spirituali, o semplicemente morali, tutto deve risolversi a maggior gloria di Dio e bene delle anime. Impegni, puntigli, spirito di vendetta, amor proprio, ragione, pretensioni e anche l'onore, tutto deve sacrificarsi in questo caso”.

Ed ecco le principali “aggiunte” che farà riscrivendo queste righe come Ricordi confidenziali per i direttori: “- Procura di non comandare mai cose superiori alle forze, o dannose alla salute.
- Fa' sempre breve elevazione di cuore a Dio prima di deliberare.
- Procura di farti conoscere dagli allievi e di conoscere essi passando con loro tutto il tempo disponibile.
- Le parti odiose e disciplinari siano affidate ad altri.
- Abbi massima cura di assecondare le inclinazioni di ciascuno, affidando di preferenza quegli uffici che a taluno si conoscono di maggior gradimento.
- Si faccia economia in tutto, ma assolutamente in modo che nulla manchi agli ammalati.
- Lo studio, il tempo, l'esperienza mi hanno fatto toccare con mano che la gola, l'interesse, la vanagloria, furono la rovina di floridissime Congregazioni e di rispettabili Ordini religiosi. Gli anni ti faranno conoscere delle verità che forse ora ti sembreranno incredibili”.

 

Le “paroline all'orecchio” di don Bosco.

Don Bosco suggerisce a don Rua: “Procura di dire all'orecchio qualche affettuosa parola, che tu sai”. La “parolina all'orecchio” di don Bosco, secondo la testimonianza dei suoi allievi, era uno dei segreti educativi. Don Lemoyne cercò di raccogliere queste “paroline”, interrogando quelli che erano stati ragazzi di don Bosco. Eccone alcune tratte dal suo elenco:

“- Come stai? E di anima come stai?
- Tu dovresti aiutarmi in una grande impresa. Sai quale? Neil’impresa di farti buono. - Quando vuoi cominciare a essere la mia consolazione?
- Quando vuoi che rompiamo le corna al diavolo con una buona confessione?
- Vuoi che diventiamo amici negli affari dell'anima?
- Temi che il Signore sia sdegnato con te? Ricorri alla Madonna.
- Il paradiso non è fatto per i poltroni.
- Prega, prega bene, e certamente ti salverai.
- Ti trovi in tempesta? Invoca la Madonna, è la stella del mare.
- Pensa al giudizio di Dio.
- Non fidarti troppo delle tue forze.
- Pensa a Dio, sarai più buono e più contento.
- Se tu mi aiuti, voglio renderti felice in questa vita e nell’altra.
- Se mi aiuti, voglio fare di te un san Luigi.
- Chi persevera fino alla fine sarà salvo.
- Lavoriamo, lavoriamo, ci riposeremo in paradiso.
- Coraggio! Un pezzo di paradiso aggiusta tutto!”.

 

Una mamma e tanto lavoro.

Don Bosco volle che la mamma di don Rua lo accompagnasse a Mirabello. Un pensiero delicato. Essa pensò alla biancheria dei ragazzi, ma soprattutto fu un elemento equilibratore prezioso negli immancabili momenti di depressione del suo giovane figlio.

Ci furono alcune difficoltà iniziali per i titoli di insegnamento, ma presto i salesiani a Mirabello ottennero eccellenti risultati, soprattutto nel suscitare “vocazioni” sacerdotali. Il direttore era il principale artefice del successo. Una cronaca riferisce in tono di elogio che “don Rua a Mirabello si diporta come don Bosco a Torino”. Così per due anni.

All'inizio del 1865, la Società Salesiana ha 80 membri, di cui undici sacerdoti. Dei chierici mandati a Mirabello con don Rua sono stati ordinati preti don Bonetti e don Provera. A Torino, accanto a don Bosco e a don Alasonatti, sono diventati preti don Cagliero, don Savio, don Francesia, don Ruffino, don Ghivarello, don Durando.

Quest'anno, però, metterà a dura prova la giovane Società. Nello spazio di pochi mesi, cinque dei primi salesiani saranno messi fuori combattimento, i ragazzi interni passeranno il numero di 700, il santuario di Maria Ausiliatrice ingoierà somme enormi e porterà la stanchezza di don Rua quasi al limite di rottura.

 

Il quadro dell'Ausiliatrice.

Nei primi mesi, il pensiero di don Bosco è assorbito dal grande quadro di Maria Ausiliatrice che dovrà campeggiare nel santuario. Ne affida l'esecuzione al pittore Lorenzone, e cerca di comunicargli tutto ciò che “vuole vedere” in quel quadro:

- In alto Maria SS. tra gli Angeli, intorno a lei gli apostoli, i profeti, le vergini, i confessori. Nella parte inferiore i popoli delle varie parti del mondo che tendono le mani verso di lei e chiedono aiuto.

Lorenzone lo lascia finire, poi:
- E questo quadro dove metterlo?
- Nella nuova chiesa.
- E crede che ci starà? E dove trovare la sala per dipingerlo? Per trovare uno spazio adatto alle dimensioni che lei si immagina, ci vorrebbe piazza Castello!
Don Bosco dovette riconoscere che il pittore aveva ragione. Fu quindi deciso che attorno alla Madonna si sarebbero dipinti soltanto gli apostoli e gli evangelisti. Ai piedi del quadro sarebbe stato raffigurato l'oratorio.

Lorenzone prese in affitto un altissimo salone di Palazzo Madama e iniziò il lavoro. Sarebbe durato circa tre anni.

Riuscì a dare al volto di Maria Ausiliatrice un'espressione materna e dolcissima. Un prete dell'oratorio raccontava:

“Un giorno entrai nel suo studio per vedere il quadro. Lorenzone stava sulla scaletta, dando le ultime pennellate al volto di Maria. Non si volse al rumore che feci entrando, continuò il suo lavoro. Di lì a poco scese e si mise a osservare. A un tratto si accorse della mia presenza, mi prese per un braccio e mi condusse in un punto di piena luce:

- Osservi com'è bella! - mi disse -. Non è opera mia, no. Non sono io che dipingo. C'è un'altra mano che guida la mia. Dica a don Bosco che il quadro sarà bellissimo -. Era entusiasmato oltre ogni dire. Quindi si rimise al lavoro”.

Quando il quadro fu portato nel santuario - ricordava don Lemoyne - e sollevato al suo posto, Lorenzone cadde in ginocchio e si mise a piangere come un bambino.

L'addio di don Alasonatti e l'arrivo di don Rua.

Nella mattinata dell'8 ottobre, da Lanzo arriva a Valdocco il chierico Cibrario. Porta a don Bosco la notizia che don Alasonatti (recatosi lassù per ricuperare un po' di salute) è morto nella notte. Gli consegna una sua lettera. Aveva consumato gli ultimi undici anni della vita in un lavoro silenzioso e sacrificato. La mole delle pratiche, delle fatture, dei registri, era ormai tale che negli ultimi tempi aveva passato anche le notti in bianco. Il Paradiso - come aveva chiesto arrivando - se l'era guadagnato sul serio. In settembre un'ulcera alla gola l'aveva fatto soffrire in modo atroce.

Don Bosco lo ricordò ai ragazzi con la commozione di un fratello. Per l'oratorio fu una perdita gravissima.

A Mirabello, don Rua stava programmando le cose per l'imminente anno scolastico. Ed ecco giungere da Torino don Provera:
- Don Bosco ti aspetta all'oratorio. Don Bonetti prenderà la direzione del collegio. Tu vieni al più presto.
Don Pro vera ricordava: “Don Rua stava scrivendo al tavolino. Non esitò un istante:

senza fare nessuna interrogazione né chiedere spiegazioni, si alzò, prese il breviario e disse: " Sono pronto. Lasciò a Mirabello sua madre, finché non si trovasse un aiuto per la biancheria dei ragazzi.

A Torino don Bosco gli disse semplicemente:
- Hai fatto da don Bosco a Mirabello. Ora devi farlo a Valdocco.
Gli affidò tutto: i laboratori dei 350 piccoli artigiani, i cantieri del santuario, la pubblicazione delle Letture Cattoliche (12 mila abbonati), persino il compito di leggere e rispondere al maggior numero delle lettere indirizzate a lui.

 

La mattina mangiata dalle udienze.

La mattinata di don Bosco era ormai “mangiata” dalle udienze. Ricorda don Lemoyne: “Incominciarono queste fin dal principio, cioè nel 1846, e crebbero a poco a poco. Nel 1858 don Bosco poteva ancora uscir di casa verso le 10 e mezzo o le 11 del mattino. Ma nel 1860 divennero così affollate, che fu costretto a rimanere in camera tutta la mattina, dalle 9 fin quasi all'una pomeridiana, e così continuò fino alla sua ultima infermità. Alla morte di don Cafasso, egli divenne in pratica l'erede del suo spirito. Quanto vi era in Torino di buono, di scelto, di emergente nelle varie classi sociali, tutto metteva capo a don Bosco”.

Don Cagliero aggiunge: “Ho visto sempre moltissime persone salire a visitarlo. Venivano a chiedergli una preghiera, a ricevere la sua benedizione, a domandargli consiglio su opere buone da fare, a portargli offerte per i suoi ragazzi, e anche solo per vederlo e parlargli. Era gente del popolo, ma anche autorità e ministri, rettori di seminario e vescovi”.

Un avvocato, che fu ricevuto moltissime volte da don Bosco, ricordava: “Aveva certamente cose urgenti da fare, eppure non dimostrava mai impazienza per abbreviare il colloquio. Era rispettoso, bonario, affettuoso. Ho sentito molti dire: Come tratta bene don Bosco!”.

Don Gioachino Berto, suo segretario, l'udì sovente consolare i malati che sorreggeva mentre entravano da lui. Don Bosco ripeteva: “Il Signore è un buon padre, e non permetterà mai che siamo afflitti sopra le nostre forze”. Se i sofferenti gli ricordavano le opere buone che avevano fatto, don Bosco esclamava: “Dio non dimentica niente. Pagherà tutto abbondantemente in Paradiso. È il miglior pagatore che esista”.

“Una volta era venuto a trovarlo un negoziante ricchissimo, senza fede - narrò don Dalmazzo -. Era venuto solo per curiosità. Lo vidi uscire tutto confuso, esclamando tre o quattro volte: " Che uomo, che uomo è questo! ". Gli domandai che cosa avesse sentito da don Bosco. E lui: " Ho sentito cose che dagli altri preti non si sentono. Mentre mi congedavo mi ha detto: Guardiamo che un giorno lei coi suoi denari e io colla mia povertà ci possiamo trovare in paradiso.

 

De Amicis vide la grande statua sulla cupola.

Nel 1866 i lavori del Santuario giunsero alla cupola e si fermarono. Non c'erano più soldi. Don Bosco, dopo qualche giorno di esitazione, diede ordine di sostituire la cupola con una semplice volta, e di finire così i lavori. Il capomastro Buzzetti e l'economo don Savio rimasero dolorosamente sorpresi: la chiesa, così, perdeva molto della sua bellezza. Decisero di temporeggiare un mese portando intanto avanti altri lavori, caso mai don Bosco avesse cambiato parere. Ed ecco presentarsi il senatore Cotta:

- È vero che volete abolire la cupola?

- Nessuno vuole abolire niente: sono i mezzi che mancano, e qui bisogna chiudere il tetto prima dell'inverno.

- Eseguite il disegno della chiesa tutto intiero. I mezzi non mancheranno.
E disse ancora a don Bosco:
- Sto provando con i fatti che il Signore mi dà già adesso il centuplo di quello che dono per amor suo.
La cupola fu innalzata. Il 23 settembre, domenica, don Bosco salì con un ragazzo sulle impalcature. Collocarono insieme la pietra che chiudeva l'ultimo anello di mattoni.
Nel 1867 fu collocata sul vertice della cupola una grande statua della Madonna. “È alta circa quattro metri - scrisse don Bosco - ed è sormontata da dodici stelle. È in rame dorato. Essa risplende luminosa a chi la guarda da lontano al momento che è riverberata dai raggi del sole. Sembra che parli, e voglia dire: Io sono qui per accogliere le preghiere dei miei figli, per arricchire di grazie e di benedizioni quelli che mi amano”.
Valdocco, insieme a Borgo Dora, continuava ad essere periferia povera, a volte squallida. Campagna incolta, case e baracche della povera gente, la grande casa della sofferenza chiamata “il Cottolengo”, le opere della Barolo e di don Bosco.

Spingendo la carrozza verso la campagna, scendevano sovente da queste parti le famiglie aristocratiche e benestanti della città.

Vi scese anche Edmondo De Amicis, lo scrittore celebre e alla moda. Nel suo volume La Città annotava: “Alla tristezza di quel quartiere singolare, corrisponde la campagna circostante, piana e silenziosa, specialmente d'inverno, all'ora del tramonto, quando al di sopra delle case e dei campi coperti di neve, già immersi nell’ombra azzurrina della sera, scintilla ancora, sotto l'ultimo raggio di sole, l'alta statua dorata di Maria Ausiliatrice, ritta sulla cupola della sua chiesa solitaria, colle braccia stese verso le Alpi”.

Il momento in cui si realizzano le “profezie pazze”.

Il santuario di Maria Ausiliatrice fu consacrato il 9 giugno 1868. Alle 10,30 salì all'altar maggiore, per la prima Messa, l'Arcivescovo di Torino mons. Riccardi. Subito dopo celebrò la Messa don Bosco, assistito da don Francesia e da don Lemoyne. Nella chiesa erano presenti 1.200 giovani.

Fu un momento di intensa commozione per tutti. Le “profezie pazze” di don Bosco erano realtà concreta davanti agli occhi di tutti. La “stupenda e alta chiesa” era cresciuta come un miracolo nel “campo seminato a meliga e patate”. Attorno alla cupola c'era la fascia bianca “in cui a caratteri cubitali era scritto Hic domus mea, inde gloria mea”. L'altare era “circondato da un numero immenso di giovani”.

Qualcuno lo disse ad alta voce, quel giorno, quasi a voler ripagare don Bosco di tutte le amarezze che aveva dovuto inghiottire in quegli anni. E lui rispose con semplicità: “Io non sono l'autore di queste grandi cose. È il Signore, è Maria SS., che si degnarono di servirsi di un povero prete per compierle. Ogni pietra di questa chiesa è una grazia della Madonna”.

Due giorni dopo l'Unità Cattolica di Torino faceva la cronaca della consacrazione, e scriveva una frase che piacque moltissimo a don Bosco: “La chiesa è stata fabbricata dai poveri e per i poveri”.

Quel giorno di grande festa non fece certamente “perdere la testa” a don Bosco. Se ne avesse avuto la tentazione, le difficoltà pungenti che tornarono a spuntare il giorno dopo gliel'avrebbero tolta subito. Scrisse in quei giorni: “Il caro del pane ci mette nella desolazione. Fra Torino, Mirabello e Lanzo (il terzo collegio che aveva fondato nel 1864) ogni mese dobbiamo pagare 12 mila lire di solo pane”.

 

Il crollo di don Rua.

La persona che si sacrificò di più in quel tempo (e sempre in silenzio) fu don Rua. Per più di un mese non dormì più di tre, quattro ore per notte. L'eccesso di lavoro finì per svuotare di energie il suo organismo.

Il 29 luglio crollò. Cadde letteralmente nelle braccia di un amico sulla porta dell'oratorio. Trasportato in camera, venne il medico, e subito si mostrò allarmato: si trattava di peritonite in stato avanzato.

Don Bosco era assente e fu mandato subito a chiamare. Giunse verso sera. Ma quando arrivò, molti ragazzi affollavano la sacrestia e attendevano di confessarsi da lui. Don Bosco era stranamente allegro.

- Venga subito a vedere don Rua - gli disse don Savio -. Può mancare da un momento all'altro.

-- Ma no, don Rua non partirà senza il mio permesso. Vado a confessare i ragazzi.

Confessò fino a notte. Poi, invece di salire all'infermeria, andò a cena. Attorno a lui si formò un silenzio teso. Non si riusciva a capire perché, sempre così premuroso con i malati, questa volta fosse così scortese con il suo principale collaboratore, che chiedeva insistentemente di vederlo.

Finita la cena, don Bosco salì alla sua camera a posare la borsa, e solo allora si decise a recarsi da don Rua. L'ammalato aveva la fronte coperta di sudore freddo. Stava molto male. Vide don Bosco e mormorò:

- Se è la mia ora, me lo dica. Non mi rincresce morire.

- Morire? - esclamò don Bosco -. Caro don Rua, io non voglio, capisci? Non voglio che tu muoia. Starei fresco senza di te! Dobbiamo ancora lavorare e lavorare, altro che morire! -. Vide sul tavolo il vasetto dell'Unzione degli infermi e domandò: - Chi è quel bonomo che vuol dare l'Olio santo a don Rua?

- Sono io - rispose don Savio.

- Siete proprio gente di poca fede. Fatti coraggio, don Rua. Guarda, anche se ti gettassi giù dalla finestra, ora non moriresti. E adesso portate via l'Olio santo e lasciatelo in pace.

Tre settimane dopo don Rua era guarito. Un mese e mezzo di convalescenza, e tornò nel vastissimo cortile, a giocare come un ragazzo. Non se la sentiva ancora di correre, ma giocava a birille con i più piccoli. Accoccolato per terra, tirava le palline di terra cotta con il pollice nervoso.

Nell'agosto del 1876, dopo cena, un salesiano domandò a bruciapelo a don Bosco:
- È vero che parecchi salesiani sono morti per il troppo lavoro?
- Se fosse vero - rispose - la nostra Congregazione non avrebbe avuto nessun danno, anzi. Ma non è vero. Uno solo potrebbe meritare il titolo di vittima del lavoro, ed è don Rua. Ma per nostra fortuna, il Signore ce lo conserva forte e vigoroso.

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